Osservatorio Internazionale Cardinale Van Thuân Newsletter n.729 del 3 ottobre 2016
Abbiamo rivolto al prof. Paolo Pittaro, docente di diritto penale e già Direttore del Dipartimento di Scienze giuridiche nell’Università di Trieste, alcune domande sui profili tecnici del prossimo referendum sulla legge di revisione costituzionale.
A cura di Stefano Fontana
Prima di addentrarci nel merito della questione, qual è la sua impressione sul quadro giuridico generale offerto dalla vicenda referendaria?
In via preliminare deve riconoscersi che il referendum si sviluppa in un contesto non ideale. La Costituzione contempla (art. 138) la possibilità di una sua revisione, ma che sia meditata e condivisa. A tale scopo prevede la doppia approvazione (in tempi distanziati) da parte delle Camere e con una maggioranza dei due terzi. Se tale maggioranza qualificata non viene raggiunta, allora l’approvazione a maggioranza assoluta può essere sottoposta a referendum, ove saranno i cittadini a confermarla o meno: ed è il nostro caso. Si aggiunga che la proposta di tale revisione parte da un esecutivo non eletto ma nominato dal Capo dello Stato, che è stata approvata da un Parlamento eletto con un sistema che la Corte costituzionale ha dichiarato illegittimo (pur consentendone il proseguimento in attesa di un nuovo) e da parte di un numero rilevantissimo di deputati e senatori che nel corso della legislatura hanno modificato anche più volte la propria appartenenza politica (cambio di casacca, come usualmente di dice). A tal punto che le opposizioni in sede di approvazione finale hanno perfino abbandonato l’aula non partecipando alla votazione. Non solo: come ben sappiamo, la divisione fra SI ed il No investe non solo le varie forze politiche, ma è trasversale nella maggioranza stessa. In un Paese diviso a metà non può certo parlarsi di una revisione condivisa. E non solo politicamente, ma anche tecnicamente. È noto come gli stessi costituzionalisti sono altrettanto divisi fra i due schieramenti e, anzi, nel fronte del No militano, e con toni molto accesi, perfino presidenti emeriti della Corte costituzionale.
In ogni caso saranno gli italiani ad esprimersi, come ha affermato il Presidente della Repubblica, prescindendo da pressioni anche esterne, dando prova di maturità democratica.
In teoria è così, ma solo in teoria, perché presuppone che tutti siano a conoscenza del preciso oggetto della votazione. Il che non è. Il quesito posto sulla scheda riguarderà semplicemente l’accettazione o meno della legge costituzionale approvata il 12 aprile 2016 e pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale del 15 aprile. Ebbene, il testo di tale normativa consta di ben 41 articoli (su 19 pagine a stampa) di non facile lettura tecnica, i quali a loro volta rinviano a norme esistenti, ora abrogate, ora modificate, ora richiamate. E dubito che la maggioranza dei cittadini andrà a cercarsi, a leggersi (e, soprattutto, a comprendere) tale testo. In genere si affiderà a quello che, schematicamente e riassuntivamente, verrà loro proposto tramite i mass media (anche su internet) e soprattutto dalle manifestazioni delle opposte parti.
Allo stato, mi sembra che, in modo alquanto semplicistico, i fautori del Sì affermino che verrebbe effettuato un risparmio di spesa, la semplificazione e l’accelerazione del meccanismo legislativo, la riduzione dei parlamentari e l’abolizione del bicameralismo perfetto. Così come, dall’altra parte, i fautori del No contestano la forte riduzione di spesa, il declassamento pressoché totale del Senato peraltro non più eletto direttamente, la riduzione delle competenze delle Regioni a favore dell’Esecutivo che, specie se connesso al nuovo sistema elettorale (il c.d. Italicum) che assegna un rilevante premio elettorale al partito di maggioranza, darebbe vita ad un ordinamento con forte prevaricazione di una parte politica, ossia ad un vero e proprio regime.
La riduzione del numero dei parlamentari e l’abolizione del bicameralismo perfetto non porterà, da un lato, ad una riduzione della spesa e, dall’altro, ad una più celere approvazione delle leggi, che ora devono essere varate da Camera e Senato in due testi identici al punto che se uno dei due rami del Parlamento cambia una sola parola od una virgola di quanto già approvato dall’altro ramo, deve ritornare indietro per una seconda approvazione innescando una spirale ed circolo vizioso con notevoli ritardi
Attualmente abbiamo 630 deputati e 315 senatori eletti più 7 senatori a vita nominati dal Capo dello Stato (sono senatori a vita anche gli ex Presidenti della Repubblica: attualmente, dopo la scomparsa di Ciampi, solo Napolitano). La riforma conserva l’attuale composizione della Camera e riduce a 100 i senatori, che non verranno più eletti direttamente: 75 sono tratti dai Consiglieri regionali (secondo una ripartizione proporzionata al territorio), 21 tratti tra i sindaci dei comuni delle singole regioni, più 5 senatori nominati dal Presidente della Repubblica, ma non più a vita (come gli ex Presidenti), ma solo per 5 anni. Il risparmio di spesa è limitato, tenendo presente che la spesa maggiore non è quella inerente allo stipendio dei senatori, ma al mantenimento della struttura di Palazzo Madama e degli immobili connessi, del nutrito personale amministrativo (altamente remunerato) e dalle ingenti pensioni (anche di reversibilità) agli ex senatori: tutte spese che rimangono presenti. Non dissimile discorso deve farsi per la prevista abolizione delle Province e del Consiglio Nazionale dell’Economia del Lavoro (CNEL), organo costituzionale dotato perfino di iniziativa legislativa (quasi mai esercitata), ridotto a riserva indiana di ex sindacalisti, imprenditori ed economisti, la cui esistenza è ignorata dai più, e che è sito in una splendida palazzina nel contesto di Villa Borghese. In definitiva: risparmio sì, ma di modesta entità, ben diverso da quello sbandierato.
E l’iter dell’approvazione delle leggi non viene semplificato ed accelerato?
Il discorso, paradossalmente, è invece molto complesso. Le leggi, tranne alcune limitate eccezioni, sono approvate solo dalla Camera. Questo non comporta un Senato inesistente (e, forse, rimanendo in questo ordine di idee, sarebbe stato più razionale abolirlo completamente), ma un Senato che può stimolare iniziative legislative, dare suggerimenti, proporre modifiche, e via dicendo: tutte decisioni che la Camera non è affatto tenuta a seguire. Ma il tutto secondo procedimenti e tempistiche stabilite a seconda dei singoli provvedimenti (disegni di legge, conversione di decreti legge ecc.). A farla breve sono previsti ben sette distinte procedure, anche se, alla fin fine, la decisione spetta solo alla Camera. Si pensi che l’attuale art. 70 della Costituzione, che afferma, in un’unica riga, che “la funzione legislativa è esercitata collettivamente dalle due Camere” è sostituita da un testo lungo una pagina, non diversamente dall’art. 72 relativo alla formazione della legge. Sono facilmente ipotizzabili conflitti, anche solo formali o procedurali, fra Camera e Senato, la cui soluzione la legge di riforma affida al bonario componimento da parte dei due Presidenti. Facile ipotizzare, ove un accordo non venisse trovato, il blocco del tutto, magari chiamando in causa la Corte costituzionale, in una sorta di conflitto di attribuzione, ma secondo una procedura non prevista.
Tenendo presente la sua composizione, allora il nuovo Senato è stato pensato per essere un “Senato delle Regioni”: ci riuscirà o nella riforma ci sono degli impedimenti?
L’ostacolo risalta da quanto appena delineato e sembra insormontabile: un Senato delle Regioni senza alcun potere deliberativo nasce provvisto di una competenza meramente ideale senza alcun risvolto effettivo, pratico. Ma è necessario rimarcare un profilo ancora più importante. Il Parlamento non ha solamente il compito della funzione legislativa (che al Senato ora viene sottratta), ma anche quella, altrettanto primaria, di gestire la vita dello Stato stesso assieme all’Esecutivo, che deve goderne della fiducia. Ebbene, la riforma stabilisce che la tradizionale fiducia espressa dal Parlamento nei confronti del Governo ora verrà votata dalla sola Camera. Superfluo rilevare che il Senato viene fortemente limitato, depotenziato, che perde anche il suo contatto con i cittadini, non essendo direttamente votato, e che i suoi stessi componenti sono disciplinati dalle vicende locali, per cui il loro avvicendamento, per varie ragioni, nell’ambito nelle singole Regioni o Comuni, è scisso dalla legge elettorale nazionale. Insomma, un organo declassato, quasi messo da parte con una sua ridotta vitalità che nulla ha a che fare con la politica nazionale rimessa alla Camera dei Deputati. Tuttavia, ai senatori viene conservata l’immunità riservata ai deputati; come dire che sarà sempre necessaria l’autorizzazione a procedere dei loro confronti per eventuali vicende penali relative, però, alla loro attività come sindaci o come consiglieri regionali. Un Senato ridotto al minimo, ma i senatori ancora “blindati”.
Rimaniamo sul terreno del rapporto tra Stato e Regioni: la revisione dei settori di competenza reciproci e la clausola di salvaguardia non indebolisce troppo le Regioni a favore del governo? Molti hanno sostenuto che viene cancellato il principio di sussidiarietà.
Al di là della riforma del Senato, la riforma viene ad investire anche il Titolo V della Costituzione, attinente ai rapporti fra Stato e Regione. I relativi articoli vengono modificati nel senso di eliminare la competenza c.d. concorrente fra Stato e Regioni, mentre quella attribuita alle Regioni viene fortemente limitata rispetto a quella attuale, con un conseguente rafforzamento della centralità dell’esecutivo, anche in ordine a materie finora riservata agli organismi regionali. Non solo: la prevista c.d. clausola di salvaguardia prevede che lo Stato possa avocare a sé la competenza riservata alle Regioni adducendo superiori interessi nazionali. Non solo, quindi, viene compresso il principio di sussidiarietà, ma v’è di peggio. Questo riguarda le regioni a statuto ordinario e non investe le cinque Regioni a statuto speciale (fra le quali la nostra), i cui Statuti e competenze sono parimenti disposti con legge costituzionale. Ne deriva una maggiore disparità fra le Regioni ed un possibile inasprimento dei rapporti, magari con la conseguente chiamata in causa della Corte costituzionale.
Molti critici della riforma ne collegano la pericolosità con la contestuale riforma elettorale. Prima di tutto le chiedo: la legge elettorale detta “Italicum” secondo lei è incostituzionale come la precedente legge “Porcellum”? Su questo si attende una importante sentenza della Corte costituzionale a proposito del ballottaggio.
In effetti, pur essendo realtà diverse, esiste un profondo nesso fra riforma costituzionale e legge elettorale. Se, al fin fine, tutto ruota sulla sola Camera dei Deputati, posto che il Senato non pone la fiducia e non vota le leggi, la legge elettorale diviene di una importanza vitale. Ove ci fosse non un gioco equilibrato fra maggioranza ed opposizione, ma un forte squilibrio a favore della maggioranza, specie se con un forte premio in termini di seggi, si troveremmo di fronte ad un possibile autoritarismo: e non è un caso che qualcuno allude alla possibilità di un regìme. Il problema è aggravato dall’ipotesi del previsto ballottaggio (in una seconda chiamata elettorale) fra i due partiti che hanno ottenuto il maggior numero di voti nella prima tornata: quanto appunto previsto dal c.d. “Italicum”, la nuova legge elettorale che verrebbe a sostituire l’attuale “Porcellum”, dichiarato costituzionalmente illegittimo, e viepiù aggravato dal divieto di apparentamento fra i partiti. Lo stesso Governo si è dichiarato disponibile a discuterne una eventuale modifica. E questo per una ragione molto pratica. Quando l’aveva proposto, il partito dell’attuale Premier aveva ottenuto un largo consenso nelle elezioni europee (si badi: non quelle nazionali). Pertanto, ritenendo di poter avere nel futuro tale largo consenso anche nelle elezioni nazionali aveva coniato l’”Italicum” tutto a suo favore. Tuttavia, nelle successive elezioni amministrative (si badi: non quelle politiche), non solo il consenso era fortemente diminuito, ma pur essendo, in vari sedi, il partito di maggioranza relativa, il successivo ballottaggio con il secondo partito (per intenderci: i 5 Stelle), aveva visto la vittoria di quest’ultimo. Donde la espressa disponibilità per una riforma della riforma elettorale. Al di là del profilo meramente politico, da un punto di vista tecnico-giuridico si palesa una forte e pericolosa incongruenza: di fronte ad un forte astensionismo elettorale (una larga parte e sempre crescente dei cittadini non va a votare), a seguito del ballottaggio può riuscire vincitore non il primo, ma il secondo partito più votato. Come dire che una percentuale molto ridotta dei voti rispetto a tutti gli aventi diritto può conquistare la maggioranza assoluta ovvero, per un usare un linguaggio concreto, il potere. Ora, la Corte costituzionale dovrebbe esprimersi a breve (prima, quindi, del referendum) sulla legittimità costituzionale o meno dell’”Italicum”: una decisione fortemente attesa. Ove la legge elettorale venisse dichiarata incostituzionale, non potendo applicare l’attuale “Porcellum”, a sua volta già dichiarato costituzionalmente illegittimo, il quadro non rimane affatto nitido: o il Parlamento adotta, in tempi brevi, una nuova e diversa legge elettorale ovvero, come da alcuni auspicato, si torna a quella che precedeva quella vigente, ossia il c.d. “Mattarellum”, che prende il nome dall’attuale Presidente della Repubblica, all’epoca parlamentare proponente.
Come dire che se, invece, rimane questa legge elettorale la riforma della Costituzione comporterà un squilibrio di poteri a favore del governo?
Sì, non v’è dubbio alcuno.
Sempre sullo stesso argomento: la Camera, e quindi la maggioranza di governo, avrà un eccessivo potere nella nomina del Presidente della Repubblica o dei componenti la Corte costituzionale?
La riforma prevede un’unica adunanza in seduta comune di Camera e Senato: quella per l’elezione del Presidente della Repubblica, come avviene tuttora, ma integrata di rappresentanti delle Regioni: rappresentanza eliminata, in quanto il Senato, già di per sé, come visto, è espressione delle Regioni e dei Comuni. Viene invece modificato il quorum relativo alle varie votazioni che, come l’esperienza insegna, possono durare a lungo. Per semplificare il tutto, alla fin fine, dal settimo scrutinio in poi è sufficiente la maggioranza dei tre quinti dei votanti (si noti: dei votanti, non degli aventi diritto). Appare ovvio che la maggioranza di Governo avrà un maggior potere nella nomina del Presidente della Repubblica. Per quanto riguarda la nomina dei giudici costituzionali, in tutto 15, ora 5 sono nominati dal Presidente della Repubblica, 5 dalle magistrature, e 5 dal Parlamento in seduta comune. Ebbene, ora di questi ultimi 3 vengono nominati dalla Camera e 2 dal Senato: quindi separatamente. È facile prevedere che i giudici nominati dalla Camera saranno tutti espressione della maggioranza, mentre sorgono perplessità in ordine ai due nominati dal Senato, espressione di istanze localistiche legittime ma, forse, non in linea con un visione complessiva delle espressioni, anche giuridiche, del Paese.
La riforma costituzionale, se verrà approvata lo sarà in uno scontro politico che si prevede molto forte e che attraverserà tutto il Paese. Ma la Costituzione di uno Stato non dovrebbe nascere sulla base di una grande convergenza e non di una contrapposizione? La eventuale nuova Costituzione non nascerebbe, quindi, già debole?
Non posso che ribadire quanto espresso all’inizio di questo incontro: non sembra proprio che si tratti di una riforma meditata e condivisa. Non solo. La Carta costituzionale dovrebbe contenere, come avviene attualmente, disposizioni lineari. La riforma viene, invece a coinvolgere circa un terzo di tutti gli articoli presenti con una normativa complessa, giuridicamente discutibile e di non facile lettura. Una Costituzione che, se approvata nella sua riforma, più che debole ed impopolare, potrebbe dar vita a forti contrarti interpretativi che potrebbero non solo investire la Corte costituzionale, ma anche scuotere la stessa opinione pubblica, già stanca di una politica che sente quanto mai lontana dalle sue esigenze. Si era persino parlato di un riforma troppo ampia e da approvare per parti: ad esempio solo gli articoli che eliminano le province ed il CNEL nonché ridurre il numero dei parlamentari, lasciando invariata l’attuale funzione legislativa. Ma tale soluzione non è giuridicamente possibile: tutto il testo deve essere sottoposto a referendum nella sua completezza.
Dopo queste domande analitiche, le chiedo una valutazione d’insieme – non un sì o un no – ma una considerazione di sintesi complessiva.
Che la Costituzione, per certi versi, potesse essere aggiornata è un dato da tener presente. Si pensi al Senato: per il Costituente il bicameralismo perfetto aveva una sua funzione, in quanto l’elettorato attivo e passivo erano diversi per le due Camere. I senatori, allora, che devono avere un’età minima di 40 anni, dovevano rappresentare una posizione più matura, meditata e forte di maggior esperienza rispetto alle scelte dei colleghi deputati. Una ratio ben precisa, ma – forse – superata dall’evoluzione e dallo scorrere del tempo. Parimenti, il numero sicuramente esagerato dei parlamentari (quasi un migliaio) risiede più nei 630 della Camera che nei 315 del Senato. Una riduzione poteva essere opportuna, ma non declassando totalmente il Senato e togliendogli ogni funzione legislativa e politica. Si pensi, ad esempio, che nella riforma il Senato non può nemmeno costituire commissioni d’inchiesta o conoscitive se non nelle materie di rilevanza regionale. Infine, nella riforma c’è un riferimento a volte sì presente, ma tenuto quasi in disparte: alludiamo all’Europa. E dovrebbe il Senato, composto da sindaci e consiglieri regionali, fungere da collegamento riflessivo con le sempre più invadenti istituzioni europee. Ora di tutti questi problemi, nonostante le espressioni di ottimismo, a volte anche arrogante,il Governo sembra si renda conto. Ed uno dei suoi esponenti ha anche affermato che non si tratta certo di una riforma perfetta od ottimale, ma è pur sempre una riforma: meglio che niente. Il fronte del No ribadisce, al contrario, meglio niente piuttosto questa riforma fortemente criticabile ed autoritaria, nell’attesa di una più meditata e condivisa, magari in una prossima legislatura.
Concludendo, per correttezza, non le chiedo come voterà, anche se il quadro meramente giuridico da lei rappresentato non sembra affatto positivo
La ringrazio per la sua correttezza e per la sua perspicacia.