Massimo Introvigne
don Pietro Cantoni – Riforma nella continuità. Vaticano II e anticonciliarismo, Sugarco Edizioni pp. 256 – € 18,00
Si tratta di un libro molto importante che, già nel titolo, fa riferimento a due interventi di Benedetto XVI riportati in appendice. Il primo è il discorso alla Curia Romana del 22 dicembre 2005, in cui il Papa distingue a proposito del Vaticano II una «ermeneutica della discontinuità e della rottura», che legge il Concilio non alla luce del Magistero precedente ma in contrapposizione a esso, e una corretta «ermeneutica della riforma nella continuità», che non nega gli elementi di novità del Concilio – diversamente, non ci sarebbe riforma – ma legge ogni novità in continuità, e non in contraddizione, con gli insegnamenti precedenti della Chiesa.
A sua volta, come Benedetto XVI ebbe a spiegare nell’incontro ad Auronzo di Cadore con i sacerdoti delle diocesi di Belluno-Feltre e Treviso del 24 luglio 2007, l’ermeneutica della discontinuità e della rottura oggi è proposta nella Chiesa da due versanti diversi: da un «progressismo sbagliato», che considera la presunta rottura con il passato una benedizione per la Chiesa, e da un «anti-conciliarismo» per cui la stessa rottura è stata al contrario catastrofica. Le due correnti convergono nell’analisi, anche se divergono nelle opposte valutazioni.
Ma le due correnti, come spiega con dovizia di argomenti don Cantoni, sbagliano. La condanna del «progressismo sbagliato» non è, come molti pensano, una novità «restauratrice» di Benedetto XVI. Si ritrova già nel magistero del servo di Dio Paolo VI (1897-1978), il Papa che concluse il Vaticano II, di cui l’autore ricorda alcuni interventi sorprendentemente simili a quello del 2005 di Benedetto XVI.
Appena a un anno dalla chiusura del Concilio, nel 1966, il servo di Dio Paolo VI mette in guardia contro l’errore «di supporre che il Concilio Ecumenico Vaticano Secondo rappresenti una rottura con la tradizione dottrinale e disciplinare che lo precede, quasi ch’esso sia tale novità da doversi paragonare ad una sconvolgente scoperta, ad una soggettiva emancipazione, che autorizzi il distacco, quasi una pseudo-liberazione, da quanto fino a ieri la Chiesa ha con autorità insegnato e professato, e perciò consenta di proporre al dogma cattolico nuove e arbitrarie interpretazioni, spesso mutuate fuori dell’ortodossia irrinunciabile, e di offrire al costume cattolico nuove ed intemperanti espressioni, spesso mutuate dallo spirito del mondo; ciò non sarebbe conforme alla definizione storica e allo spirito autentico del Concilio, quale lo presagì Papa Giovanni XXIII [1881-1963].
Il Concilio tanto vale quanto continua la vita della Chiesa». E nel discorso al Sacro Collegio dei Cardinali del 23 giugno 1972 lo stesso Pontefice denuncia «una falsa e abusiva interpretazione del Concilio, che vorrebbe una rottura con la tradizione, anche dottrinale, giungendo al ripudio della Chiesa preconciliare, e alla licenza di concepire una Chiesa “nuova”, quasi “reinventata” dall’interno, nella costituzione, nel dogma, nel costume, nel diritto».
La parte più corposa del volume di don Cantoni è consacrata alla critica dell’anti-conciliarismo, «fuoco amico» – come lo definisce – nei confronti del Magistero, che rischia di comprometterne l’autorità anche presso persone devote e fedeli al Papa. L’autore che don Cantoni assume come più rappresentativo di questa corrente – peraltro, piuttosto un network dove convivono opinioni parzialmente diverse – è il teologo romano mons. Brunero Gherardini che in una sorta di crescendo, passando dai primi agli ultimi dei diversi volumi che ha dedicato negli ultimi anni al Vaticano II, ha finito per sostenere che l’ermeneutica della riforma nella continuità proposta da Benedetto XVI è, almeno con riferimento a diversi documenti conciliari, impossibile.
In questi documenti non ci sarebbe continuità, ma rottura con il Magistero precedente della Chiesa. Il Vaticano II andrebbe dunque sì considerato un autentico e legittimo Concilio cattolico, ma i suoi insegnamenti sarebbero vincolanti per i fedeli solo quando riaffermano il Magistero precedente della Chiesa, mentre potrebbero e dovrebbero essere messi in discussione, e anche francamente rifiutati, se contraddicono la Tradizione: il che, secondo Gherardini, accade certamente per diversi testi cruciali prodotti dall’assise ecumenica.
Non è possibile riassumere qui la critica dettagliata di don Cantoni alla posizione anti-conciliarista su singoli documenti del Concilio – in particolare le costituzioni Gaudium et Spes, Lumen Gentium e Dei Verbum e la dichiarazione sulla libertà religiosa Dignitatis humanae -, ma è importante fare emergere il tema metodologico di fondo. Nella posizione anti-conciliarista la nozione di Tradizione è ipostatizzata in modo essenzialista e diventa un codice o un libro immaginario sulla cui base giudicare gli atti del Papa e del Concilio, decidendo quali vanno accolti e quali no. Come nota don Cantoni, così l’autorità della Chiesa si sposta dal Papa a chi si auto-nomina custode e interprete della Tradizione, con un processo simile a quello messo in atto dai protestanti con riferimento alla Scrittura. Non si tratta, nota l’autore, di sostenere che il Papa è al di sopra della Tradizione, così come nella controversia con i protestanti non si trattava di sostenere che il Papa fosse al di sopra della Scrittura.
L’autore cita Jacques Bénigne Bossuet (1627-1704), il quale rispondeva ai protestanti che «noi non diciamo che la Chiesa sia giudice della Parola di Dio, ma assicuriamo che è giudice delle interpretazioni che gli uomini danno della santa Parola di Dio». Analogamente – tanto più che, a differenza della Scrittura, neppure esiste un libro o manuale chiamato “La Tradizione” con cui confrontare le diverse posizioni – don Cantoni afferma che l’alternativa oggi non è se credere a Benedetto XVI o credere alla Tradizione, ma se farsi spiegare che cos’è la Tradizione da Benedetto XVI o da mons. Gherardini, o magari dalla Fraternità Sacerdotale San Pio X fondata da mons. Marcel Lefebvre (1905-1991), sulle cui posizioni in tema di Vaticano II il monsignore romano nelle sue opere più recenti sembra andare sempre più convergendo.
E don Cantoni fa notare che la divergenza fra i seguaci di mons. Lefebvre e l’insegnamento di Benedetto XVI non sta nella tesi secondo cui dopo il Concilio c’è stata una drammatica crisi nella Chiesa. Che questa crisi ci sia stata è evidente, e lo afferma anche il Pontefice. Ma, a differenza dei “lefebvriani” – e degli anti-conciliaristi – Benedetto XVI attribuisce la crisi al prevalere di una errata ermeneutica dei documenti del Concilio, non ai documenti medesimi nella loro essenza e nel loro insieme, senza escludere che essi contengano qua e là qualche formulazione meno felice o bisognosa di chiarimenti da parte dello stesso Magistero.
Che nei documenti del Vaticano II ci siano espressioni da chiarire e su cui si può legittimamente discutere – ma questo, nota don Cantoni, vale anche per tante espressioni di Concili precedenti – non significa che tali testi si possano rifiutare in blocco o nel loro messaggio essenziale, che si tratti di struttura della Chiesa, ecumenismo, esegesi biblica o libertà religiosa.
Come ha spiegato Andrea Tornielli su La Bussola Quotidiana, si situa qui l’essenziale del Preambolo dottrinale – il cui testo rimane riservato – proposto dalla Santa Sede alla Fraternità Sacerdotale San Pio X come condizione per un’auspicata riconciliazione.
Molto utile – anche per comprendere la posta in gioco proprio del dialogo in corso fra Santa Sede e Fraternità Sacerdotale San Pio X – è un’appendice dove don Cantoni traccia una breve storia della nozione di Magistero ordinario. Gli anti-conciliaristi spesso rappresentano in modo caricaturale la posizione dei loro critici, attribuendo loro la tesi certamente infondata secondo cui tutti gli insegnamenti del Vaticano II sarebbero infallibili o di natura dogmatica. Non è affatto così.
I critici dell’anti-conciliarismo – e, cosa assai più importante, Benedetto XVI – sostengono una cosa diversa, e cioè che il buon fedele deve prestare il suo assenso non solo formale ma sostanziale anche al Magistero ordinario, non dogmatico e non infallibile, pure nella sue dimensioni pastorali, che può certo avere espressioni più o meno felici e su cui i teologi possono condurre discussioni, ma che resta la guida normale della Chiesa cui i cattolici possono e devono affidarsi con fiducia. Non è un buon cattolico chi segue il Magistero solo nei suoi rari pronunciamenti infallibili, ignorando invece la sua guida continua e quotidiana che ha spesso appunto natura non dogmatica ma pastorale.
Grande merito del libro di don Cantoni è ricordarci che questa posizione non è nuova. Nasce quando – dopo la Rivoluzione Francese – il Magistero inizia a esprimersi in modo molto più frequente, tra l’altro attraverso la moltiplicazione delle encicliche. L’espressione «Magistero ordinario» si deve al teologo gesuita tedesco Joseph Kleutgen (1811-1883), ma passa nel Magistero pontificio con la lettera Tuas libenter, indirizzata dal beato Pio IX (1792-1878) all’arcivescovo di Monaco di Baviera il 21 dicembre 1863.
Questo testo, dove si afferma che la «sottomissione» dei buoni cattolici non ha come oggetto solo il Magistero infallibile ma anche il Magistero ordinario è la premessa della condanna nel Sillabo del 1864 – ironicamente, un testo spesso invocato dagli anti-conciliaristi – della seguente proposizione, denunciata come erronea: «L’obbligazione che vincola i maestri e gli scrittori cattolici, si riduce a quelle cose solamente, che dall’infallibile giudizio della Chiesa sono proposte a credersi da tutti come dommi di fede».
«Né si deve ritenere – aggiunge il venerabile Pio XII (1876-1958) nell’enciclica Humani generis del 1950 – che gli insegnamenti delle Encicliche non richiedano, per sé, il nostro assenso, col pretesto che i Pontefici non vi esercitano il potere del loro Magistero Supremo. Infatti questi insegnamenti sono del Magistero ordinario, per cui valgono pure le parole: “Chi ascolta voi, ascolta me” (Luc. X, 16)». Né, evidentemente, possiamo considerare i testi di un Concilio Ecumenico meno autorevoli delle encicliche.
Un’altra utile appendice del libro di don Cantoni riguarda il beato John Henry Newman (1801-1890), citato da alcuni anti-conciliaristi a sostegno delle loro tesi, in quanto avrebbe affermato che durante la crisi ariana diversi concili e l’intero corpo episcopale avrebbero insegnato l’eresia. Queste però, precisa don Cantoni, erano affermazioni attribuite al beato Newman dai suoi critici, che lo denunciarono a Roma come eretico.
Rispondendo a tali critici, il beato affermò che se in effetti egli avesse attribuito l’eresia ariana a «concili ecumenici» e al corpo episcopale nel suo insieme – inseparabile dal Papa – allora certamente le sue affermazioni sarebbero state eretiche. Ma in realtà egli aveva parlato di «concili generali» – che sono cosa diversa dai concili ecumenici, e «non ci fu nessun concilio ecumenico tra il 325 e il 381» – e della maggioranza dei vescovi, non del loro corpus o collegio in senso giuridico e teologico. Di fatto nella crisi ariana buona parte dei vescovi non fu fedele alla sua missione. Ma questo, spiegava Newman, non significa che di diritto anche in quella crisi non restasse presente almeno in modo «virtuale» l’insegnamento di verità del Magistero vivente, che rimaneva per così dire presente sullo sfondo anche se di fatto pochi vescovi lo diffondevano.
Non si tratta di una sottigliezza storica. Se un concilio ecumenico e l’intero corpo episcopale unito al Papa potessero insegnare l’eresia – che è cosa diversa dall’esprimere la verità in formulazioni che talora possono essere poco felici o poco precise, e richiedere una interpretazione autentica da parte del Magistero successivo – allora le porte dell’inferno avrebbero prevalso sulla Chiesa.
Sappiamo per divina rivelazione che questo non può accadere. E di fatto le «portae inferi» non hanno prevalso. La Chiesa, nonostante le tante crisi che la tormentano, c’è ancora, e per sapere dov’è e che cosa insegna, anche a proposito del Vaticano II, non dobbiamo metterci alla ricerca di un immaginario libro che conterrebbe la Tradizione nella sua forma «pura» e neppure rivolgerci ai teologi – o agli storici, o ai giornalisti – che ci sembrano più simpatici o persuasivi.
Dobbiamo guardare al Magistero e al Papa. «Ubi Petrus, ibi Ecclesia, ubi Ecclesia, ibi Christus». «Dov’è Pietro, lì è la Chiesa, dov’è la Chiesa, lì è Cristo». Il volume di don Cantoni costituisce un argomentato, puntuale, severo e prezioso richiamo a questo punto cardine della nostra fede.