Con l’aggravarsi della crisi in Occidente, questo fantasma del passato sembra voler risorgere dai morti. Dall’8 all’11 ottobre, a San Leopoldo, Brasile, si terrà un Congresso Continentale di teologi della liberazione per rilanciare il movimento, a pretesto del 50° anniversario del Concilio Vaticano II. Alcune autorità ecclesiastiche si mostrano preoccupate. Altre, invece, sembrano guardare l’iniziativa piuttosto con simpatia, al meno a giudicare da alcune ripercussioni apparse di recente sulla stampa italiana e vaticana.
Di seguito la seconda parte del dossier sulla teologia della Liberazione .
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“Vi lascio la pace, vi do la mia pace”.
Nel cuore del messaggio cristiano troviamo il richiamo alla pace. Per la loro stessa natura, gli esseri razionali anelano ardentemente alla pace. La nostra condizione naturale è quella della tranquillità nell’ordine. Nel seno della famiglia, per esempio, si aspira naturalmente all’armonia risultante dalla pacifica convivenza fra i suoi membri. Dice S. Agostino: “Come infatti non v’è alcuno che non voglia godere, così non v’è chi non voglia avere la pace” (1).
Questo presuppone un atteggiamento amorevole nei confronti del prossimo, che è alla base dell’essere cristiano. “Dobbiamo desiderare il bene non solo per noi, ma anche per gli altri”, esortava S. Tommaso d’Aquino (2).
Su queste verità basilari, la Chiesa ha costruito una dottrina sociale sorretta dai concetti di ordine, di armonia e di equilibrio. Armonia interiore nelle persone, armonia nella famiglia, armonia fra le istituzioni, armonia fra le classi sociali, armonia fra le nazioni. La Chiesa rigetta i sistemi fondati sull’odio, sull’invidia e sullo scontro.
Perciò, ribadendo la “necessità della concordia”, Papa Leone XIII insegnava nella Rerum Novarum: “La concordia fa la bellezza e l’ordine delle cose, mentre un perpetuo conflitto non può dare che confusione e barbarie” (3).
Rabbia e insurrezione
Tutt’altro è l’atteggiamento dei teologi della liberazione. “La teologia della liberazione nasce da una tintura di rabbia”, rivela il teologo della liberazione americano Alfred Hennelly (4). “La teologia della liberazione inizia con l’insurrezione”, afferma a sua volta la teologa femminista Sharon Welch, dell’Università di Harvard (5). “La teologia della liberazione nasce dalla praxis sovversiva degli oppressi”, rincara Gustavo Gutiérrez (6). Rabbia, insurrezione, praxis sovversiva… La loro teologia è tutt’altro che armoniosa.
Per instillare negli “oppressi” questa rabbia, spingendoli verso una praxis sovversiva, la Teologia della liberazione applica capillarmente tecniche di “conscientizzazione”. Inizialmente elaborate dal pedagogo brasiliano Paolo Freire (7), queste tecniche, che più di uno ha paragonato ad un “lavaggio di cervello”, trasformano un pacifico cittadino in un rivoluzionario militante. Il metodo è pensato per indurre il paziente a rigettare la “coscienza primitiva”, cioè l’atteggiamento mansueto di chi accetta l’ordine stabilito, e farlo acquisire invece una “coscienza critica” che sfocia in una militanza rivoluzionaria. Solo all’interno di questa militanza si potrà “fare teologia”.
In questo senso, la Teologia della liberazione si configura come un vasto movimento teso a instillare l’odio, che poi sarà indirizzato alla lotta di classe. L’esatto opposto della dottrina sociale della Chiesa.
Dialettica hegeliana
La rabbia e la sovversione sono l’anima della Teologia della liberazione. Alla base troviamo una visione hegeliana della storia, secondo cui la sua forza motrice sarebbero le lotte dialettiche. “La lotta è un bisogno oggettivo”, proclama Frà Clodovis Boff (8). “La teologia della liberazione suppone una lotta rivoluzionaria”, dichiara Gustavo Gutiérrez (9).
Si tratta proprio dell’“eterno conflitto” denunciato da Leone XIII che, invece di produrre pace e armonia, genera “confusione e barbarie”.
Per i teologi della liberazione ogni realtà andrebbe analizzata sotto il prisma della conflittualità, mai dell’armonia o dell’unità. Esempio tipico ne è la loro ecclesiologia, fondata sul conflitto dialettico base-gerarchia, cioè: laici-sacerdoti, chiesa discente-chiesa docente, preti-vescovi e via dicendo. “La lotta di classe esiste nella stessa Chiesa — afferma Gutiérrez — l’unità della Chiesa va ritenuta, con ragione, un mito che deve scomparire” (10). “L’attuale chiesa porta la stessa contraddizione di classe della società capitalista — leggiamo in un documento del 1975 — C’è una vita ecclesiale che domina e opprime, e un’altra che è dominata e oppressa” (11).
1). «De civitate Dei», 19, 12.
2). S. Th. II, II, 83, 7.
3). Leone XIII, «Rerum Novarum», 15 maggio 1891.
4). Alfred Hennelly, S.J., «Theology for a Liberating Church», p. 6.
5). Sharon D. Welch, «Communities of Resistance and Solidarity. A Feminist Theology of Liberation», Orbis Books, New York, 1985, p. 35.
6). Gustavo Gutiérrez, «The Power of the Poor in History», p. 17.
7). Cfr. Paulo Freire, «La pedagogia degli oppressi», EGA, Torino 2002; Id., «L’educazione come pratica di libertà», Mondadori, Milano, 1973; Id., «The Politics of Education. Culture, Power and Liberation», Bergin and Garver, South Hadley,1985.
8). Citato in R.P. Pedro Herrasti, S.M., «La Teología de la Liberación», Folleto EVC, N° 618, Messico, sd.
9). Gustavo Gutiérrez, «The Power of the Poor in History», p. 37.
10). Gustavo Gutiérrez, «A Theology of Liberation», Orbis Books, New York, 1973, p. 277.
11). Document Finale, II Conférence Internationale des Chrétiens pour le Socialisme, Québec, Canada, aprile 1975.
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Intervista all’economista Carlos del Campo
“La Teologia della liberazione causa miseria in America Latina”
Laddove sono stati applicati, i principi della Teologia della liberazione hanno provocato miseria e oppressione. Ne abbiamo parlato con l’economista cileno Carlos del Campo. Laureato all’Università di California in Berkeley, professore emerito di economia presso la Pontificia Università Cattolica del Cile, il dott. Del Campo è autore di numerosilibri e saggi sulla riforma agraria in America Latina.
Lei, dottor del Campo, pensa che la Teologia della liberazione – sebbene epurata da concetti marxisti e talvolta dalla giustificazione della violenza, pur tuttavia fermamente ancorata alle idee di lotta di classe e di redistribuzione egualitaria della ricchezza – possa risolvere i problemi di povertà esistenti nel mondo, in particolare nell’America Latina?
È un errore immaginare che possa essere pacifico un movimento costruito sull’idea che, per raggiungere una società più giusta, siano condizioni necessarie la lotta di classe e la distribuzione egualitaria della ricchezza.
La lotta di classe e il conflitto sociale sono necessariamente connessi fra loro. L’una non può esistere senza l’altro come metodo di azione politico-sociale. A ciò si aggiunga che la violenza è un mezzo indispensabile per imporre un “ordine” sociale ugualitario. Per questa ragione l’ugualitarismo, essendo contrario allo stesso ordine naturale delle cose, può nascere ed esistere solo sotto l’impero della violenza. La storia ce lo insegna ad nauseam. Dunque, una Teologia della liberazione radicata nella lotta di classe e nell’ugualitarismo, anche se si pretende pacifica, è di per se stessa contraddittoria e impercorribile.
Ciò premesso posso rispondere alla prima domanda. Immaginiamo la Teologia della liberazione nel suo aspetto frequentemente presentato come essenziale e basilare, ovvero “l’opzione preferenziale per i più poveri”, intesa come la presa di posizioni e di misure energiche miranti a diminuire la povertà. In tal senso, senza alcun dubbio, con la forza dell’esperienza di fatti concreti, si può asserire che la strada migliore, e forse l’unica, sia l’adozione di un sistema di economia di mercato basato su tre principi fondamentali: la proprietà privata, la libera iniziativa e l’azione sussidiaria dello Stato.
La piena vigenza di questi principi, basilari del vero ordine sociale, è la condizione necessaria per limitare e diminuire la povertà. Tuttavia, non è sufficiente. È indispensabile che anche la società sia imbevuta dallo spirito e dalla morale cristiani, sorgenti dell’autentica giustizia e carità.
L’esperienza in America Latina lo dimostra. I blocchi di povertà esistenti in diversi paesi del Continente non hanno niente a che fare con l’economia di mercato. Anzi, la loro origine si trova proprio in politiche implementate in contrasto con l’economia di mercato. Un caso fra i più emblematici è la politica promossa dalla CEPAL (Commissione Economica per l’America Latina, organismo delle Nazioni Unite, ndr), negli anni Quaranta e Cinquanta, che poneva in essere un processo di industrializzazione forzata al fine di produrre beni che sostituissero quelli importati. Questa politica penalizzò i settori primari, specialmente l’agricoltura, che all’epoca dava lavoro alla maggioranza della popolazione meno qualificata e di minor reddito.
Allo stesso tempo, si favoriva una minoranza più qualificata, aumentandone i guadagni. Il risultato fu un aumento della disuguaglianza nella distribuzione del reddito, favorendo l’aumento delle sacche di povertà.
Le riforme di struttura, come la Riforma agraria, hanno risolto efficacemente i problemi di povertà in alcuni paesi dell’America Latina?
I dati oggettivi rivelano esattamente il contrario. Le Riforme agrarie e alcune esperienze di socialismo di Stato realizzate in America Latina parlano chiaro. I casi più caratteristici sono Cuba e Cile, quest’ultimo durante il governo di Salvador Allende. La povertà a Cuba sotto Fidel, divenuta isola-prigione, è drammatica. La maggioranza della popolazione vive affastellata in catapecchie e assoggetta ad un feroce razionamento di derrate alimentari. Per incrementare i guadagni molte famiglie si sentono costrette a far prostituire le figlie con gli spregiudicati turisti stranieri. Carne, pesce, latte ecc. sono articoli di lusso per la maggioranza dei cubani. Per averne un’idea citerò qualche dato.
Nel 2011 lo stipendio medio mensile di un cubano era di 460 pesos, equivalenti a 21,03 dollari americani, ma il 43% si doveva accontentare di una somma inferiore. Il cesto di prodotti razionati costava 17,40 pesos, ma apporta solo il 41,2% delle calorie minime raccomandate. Per raggiungere questo minimo è necessario incorrere in una spesa addizionale di 403,00 pesos. Dal mensile avanzano 40,00 (equivalente a US$1,83!) con i quali pagare i servizi base come acqua, elettricità, gas, trasporto, prodotti per l’igiene personale e della casa, più tutte le spese con i dipendenti. Missione impossibile!
La soglia di povertà di una persona si colloca in 841,40 pesos mensili. Se lo stipendio medio raggiunge solo 460,00 pesos, è facile immaginare l’estensione e la gravità della povertà a Cuba e il grado di difficoltà per la sopravvivenza. (Dati tratti da «La Pobreza en Cuba», autore Raúl A. Sandoval González, economista e professore alla Facoltà di Economia dell’Università dell’Avana, pubblicati in http://www.progreso-semanal.com/ , 28/03/2012).
In Cile, due anni dopo la salita al potere dell’Unidad Popular di Allende, la situazione sociale ed economica si palesò in tutta la sua dolorosa tragicità. Il PIL pro capite era diminuito rispettivamente del -2,9% e del -7,1% negli ultimi due anni del governo Allende. Come conseguenza della Riforma Agraria, negli anni 1971-72-73 la produzione agricola e di bestiame ebbe un crollo del -1,8%, -7,4% e -10,3% rispettivamente.
Emersero gravi problemi di approvvigionamento di beni essenziali. Le file, le lunghe attese, erano il dramma quotidiano della popolazione, specialmente della più povera che non aveva possibilità di fare acquisti al mercato nero. L’inflazione raggiunse i livelli allarmanti del 500% su base annua.
Ossia, tre anni di governo in conformità alle prediche della Teologia della liberazione avevano condotto il Cile al caos economico e sociale.
La lotta di classe, promossa da personaggi quali Chávez (Venezuela) e Morales (Bolivia), ha realmente risolto i problemi di povertà nei loro rispettivi paesi?
I dati indicano che le performance di Venezuela e di Bolivia, in generale, sono al di sotto della media latinoamericana. Secondo informazioni della summenzionata CEPAL pubblicate su “Panorama social de América Latina 2011”, la media annua di crescita della regione è stata del 2,3% nel periodo 2000-2008, -3,1% nel 2009, – 4,9% nel 2010. Nello stesso arco temporale, i valori del Venezuela sono stati 2,6%, -4,8% e -3,0% rispettivamente. Mentre in Bolivia sono stati dell’1,7%, 1,6% e 2,4%.
In rapporto al fenomeno della povertà, i dati non sono migliori. L’America Latina nell’insieme ha registrato una diminuzione significativa della povertà negli ultimi 20 anni. Nella decade degli anni Novanta circa il 45% della popolazione era ritenuto povero; nel 2010 questo valore è calato intorno al 22%. In Bolivia invece il calo è stato molto meno significativo: dal 55% al 60% degli anni Novanta e al 54% del 2007. Nel caso del Venezuela, la povertà negli anni ’90 raggiungeva valori intorno al 40%, al 50%, ed è diminuita al 28% nel 2010; una performance comunque inferiore alla media dell’America Latina.
Sul versante opposto si osservano risultati ben superiori. In Cile, per esempio, la povertà è diminuita dal 30% superggiù degli anni Novanta all’11% nel 2009. Dal canto suo, in Perù la povertà è diminuita da un valore intorno al 48% sempre negli anni ’90 al 31% nel 2010.
Si sa che i dati su povertà e distribuzione del reddito in genere sono soggetti a distorsioni non trascurabili per via delle difficoltà pratiche di ottenere informazioni affidabili di reddito e altre varianti. A ciò si aggiungono certe modifiche operate nei metodi di calcolo in questi ultimi tempi. Tuttavia una cosa sembra sicura: la rivoluzione socio-economica promossa dai teologi della liberazione, e in alcuni paesi dell’America Latina messa in atto, non ha raggiunto i risultati previsti dai suoi mentori.
Ciò non può sorprendere nessuno. I casi storici di fallimento delle politiche economiche di stampo statalista e interventista abbondano. Bastino due esempi: primo, la caduta del Muro che ha scoperto la miseria in cui vivevano i paesi sottomessi al giogo del socialismo e del comunismo. Secondo, un esempio di grande attualità, l’attuale crisi dell’Europa che mostra ancora una volta le conseguenze di una politica economica a forte intervento statale praticata da alcuni paesi del Continente, oltre alle imposizioni dell’Unione Europea. Spicca, in questo senso, l’imposizione della moneta unica senza prendere in considerazione la realtà economica, politica e culturale dei vari paesi.
Per i teologi della liberazione, raggiungere un livellamento ugualitario è persino più importante del superamento della povertà. Donde, per esempio, certi elogi sperticati a Cuba, dove anche se tutti sono poveri, godono, secondo loro, dell’uguaglianza. Pensa sia questa una visione cristiana della società? No, evidentemente. L’uguaglianza delle classi è contraria all’ordine naturale creato da Dio.
A questo riguardo, cito quanto dice testualmente nella sua opera «Rivoluzione e Controrivoluzione» il grande pensatore cattolico Plinio Corrêa de Oliveira: “San Tommaso insegna che la diversità delle creature e la loro disposizione gerarchica sono un bene in sé, perché così risplendono meglio nella creazione le perfezioni del Creatore. E dice che, tanto fra gli angeli che quanto fra gli uomini, nel paradiso terrestre come in questa terra di esilio, la Provvidenza ha stabilito la disuguaglianza. Quindi odiare per principio ogni e qualsiasi disuguaglianza equivale a porsi metafisicamente contro gli elementi per la migliore somiglianza fra il Creatore e la creazione, significa odiare Dio”.
In proposito possiamo pure ricordare un brano dell’enciclica “Ad Petri Cathedram” di Giovanni XXIII, del 29 giugno 1959: “È inoltre assolutamente necessario restaurare anche fra le varie classi sociali la stessa concordia che si desidera fra i popoli e le nazioni. Se ciò non avverrà, si avranno, come già si vedono, vicendevoli odi e discordie, donde potranno nascere tumulti, dannosi rivolgimenti e talvolta anche eccidi, cui si aggiungerebbero il progressivo estenuarsi della ricchezza e la crisi della pubblica e privata economia. (…) Chi osa quindi negare la disparità delle classi sociali, contraddice all’ordine stesso di natura. Chi poi avversa questa amichevole e inderogabile cooperazione tra le classi stesse, tende senza dubbio a sconvolgere e a dividere l’umana società, con grave turbamento e danno del bene pubblico e privato. (…) Possono bensì le singole classi e le varie categorie di cittadini tutelare i propri diritti, purché ciò si faccia legittimamente e non con la violenza, senza invadere gli altrui diritti, anch’essi inderogabili. Tutti sono fratelli; pertanto tutte le questioni devono comporsi amichevolmente con mutua fraterna carità”.
Torno infine a citare Plinio Corrêa de Oliveira in un’altra sua opera «Nobiltà ed élites tradizionali analoghe»: “L’opzione preferenziale per i nobili e quella per i poveri non si escludono fra loro, come insegna Giovanni Paolo II: ‘Sì, la Chiesa fa sua l’opzione preferenziale per i poveri’. Una opzione preferenziale, si badi, non dunque un’opzione esclusiva o escludente, perché il messaggio della salvezza è destinato a tutti”.
Servano queste parole di chiarimento per coloro che, mossi dallo spirito della lotta di classe, immaginano l’esistenza di una conflittualità inevitabile fra nobile e povero
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Gli ultimi orizzonti dellaTeologia della liberazione
Si sente dire in giro, sempre più spesso, che il problema della Teologia della liberazione (Tdl) sarebbe l’uso dell’analisi marxista. Togliete il marxismo ed, ecco fatto!, anziché una Tdl “sbagliata” ne avremmo una “corretta”.
Niente di più riduttivo.
Per non parlare di errori teologici assai gravi, come ad esempio l’idea di Rivelazione pubblica che continua nella storia, il concetto di verità come ortoprassi, oppure la concezione ugualitaria di Chiesa, affermare che vi possa esistere una Tdl corretta è disconoscere la sua essenza. La Tdl comporta sviluppi che vanno ben oltre il marxismo.
Il concetto fondamentale della Tdl, che la percorre da cima a fondo, è quello di “liberazione”. Cioè un movimento, interiore ed esteriore, tendente ad emancipare individui e società da certe situazioni ritenute oppressive o discriminanti. Confondendo questa liberazione terrena con la salvezza eterna offerta da Dio, i teologi della liberazione le conferiscono un carattere spirituale e perfino mistico.
Al fine di proporre tale liberazione i teorici di questa corrente devono prima analizzare con cura le situazioni di oppressione o discriminazione dalle quali intendono emanciparsi. Per la teologia cattolica, la liberazione è fondamentalmente quella spirituale dal peccato. Come strumenti di analisi utilizza quelli della teologia stessa, coadiuvata dalla filosofia. I teologi della liberazione volgono invece lo sguardo a situazioni terrene. E per analizzarle devono per forza mettere mano ad altri strumenti.
Il marxismo come strumento di analisi
Nel contesto in cui è nata la Tdl, l’America Latina nel decennio 1960-1970, la situazione di “oppressione” che si presentava davanti ai loro occhi era quella della “società borghese” (utilizziamo il loro linguaggio) che “opprimeva” ed “emarginava” i “poveri”, tagliandoli fuori dai benefici economici e dalla gestione della res pubblica. Insomma, uno stato di terribile ingiustizia sociale, economica e politica.
Per esaminare questa situazione, al fine di proporre soluzioni, avrebbero potuto scegliere la dottrina sociale cattolica, brillantemente insegnata dai Pontefici a partire da Leone XIII. Oppure uno dei vari criteri proposti dalle scuole sociologiche allora in voga. Loro, invece, hanno scelto proprio l’analisi marxista. “Il marxismo come cornice formale di tutto il pensiero filosofico contemporaneo non può essere superato”, proclamava Gustavo Gutiérrez (1).
E questo già pone dei problemi molto gravi.
Non esiste un metodo di analisi asettico. Tutti sono contaminati, portano cioè le tracce della filosofia dalla quale derivano. Il metodo di analisi marxista proviene dalla filosofia marxista. Non esiste praxis senza filosofia. Questo lo ammettono gli stessi pensatori marxisti (2). I teologi della liberazione utilizzavano il metodo di analisi marxista semplicemente perché simpatizzavano con l’ideologia marxista.
Una rivoluzione permanente
Ora, è parte integrante di questa ideologia, essenzialmente evoluzionista, l’idea di una “rivoluzione permanente”, vale a dire di una storia sempre in evoluzione verso l’utopia ugualitaria e libertaria (3). Né Marx, né la generalità dei suoi più famosi seguaci hanno visto nel socialismo reale la mossa finale del processo rivoluzionario.
Nella mitologia evoluzionista insita nel pensiero di Marx e dei suoi seguaci, così come l’evoluzione si svolgerà all’infinito, così anche la rivoluzione non avrà termine.Lo stesso preambolo della Costituzione dell’URSS affermava che lo Stato sovietico era una mera tappa che andava superata (4).
Già dal 1920 i marxisti più lungimiranti avevano cominciato a pensare al post- comunismo. Ricordiamo Antonio Gramsci e il suo concetto di “egemonia”, alla base della odierna rivoluzione culturale. Ricordiamo la cosiddetta Scuola di Francoforte che, dalla critica marxista al sistema capitalista, passa alla critica totale della società occidentale. Ricordiamo le varie tendenze note come “umanesimo marxista”. Ricordiamo la corrente freudo-marxista che utilizza il freudismo per contestare le fondamenta morali della società. E arriviamo così ai recenti esponenti della “rivoluzione totale”.
Ma anche i teologi della liberazione hanno visto lontano. Anzi, «Guardare lontano» è proprio il titolo della prefazione che Gustavo Gutiérrez scrisse nel 1988 per aggiornare il suo capolavoro in vista dei nuovi sviluppi mondiali (5). Per “Guardare lontano”, Gutiérrez intendeva una visione che superasse il marxismo e tendesse invece verso una “liberazione integrale” per niente dissimile dalla rivoluzione permanente.
Il crollo del socialismo reale nel 1989, con la conseguente scomparsa della praxis che li aveva impegnati per tre decenni, non colse affatto di sorpresa i teologi della liberazione. Già nel 1988 avevano realizzato un convegno mondiale a New York, nel quale l’argomento centrale era stato proprio come sbarazzarsi del marxismo diventato scomodo specialmente dopo la condanna del Vaticano nel 1984 (6).
Ogni discriminazione è ingiusta
Come abbiamo indicato sopra, il concetto fondamentale nella Tdl, che la percorre da cima a fondo, è quello di “liberazione”, cioè un’emancipazione da una situazione di “oppressione” o di “discriminazione”. Ne consegue che ogni discriminazione è di per sé ingiusta. Bisogna liberarsene.
Due domande sorgono spontanee: cosa s’intende per discriminazione? Di conseguenza: qual è la liberazione concretamente proposta? I due concetti sono estremamente elastici e ammettono un ampissimo ventaglio di significati.
Nel marxismo, l’oppressione era fondamentalmente quella economica. Le oppressioni politiche e sociali erano ritenute conseguenze (“sovrastrutture”). Tale oppressione si sarebbe risolta eliminando la proprietà privata dei mezzi di produzione. All’inizio, i teologi della liberazione adottavano proprio questo senso. Gustavo Gutiérrez, per esempio, proclamava: “Insistiamo in una società dove la proprietà privata dei mezzi di produzione sia eliminata” (7). La liberazione sarebbe dunque consistita in una rivoluzione proletaria per instaurare il socialismo.
Una pletora di “teologie”
Da questa visione piuttosto rozza i teologi della liberazione sono passati all’analisi di altre oppressioni più sottili, a cominciare da quelle razziali. I poveri, in questo caso, sarebbero i gruppi etnici ritenuti emarginati: i neri, gli indiani, i chicanos (messicani-americani) e via dicendo.
Ecco che, mentre negli Stati Uniti nasceva la Teologia nera della liberazione e la Teologia chicana della liberazione, in America Latina si faceva strada la Teologia indigena della liberazione. Questa teologia è alla base dell’appoggio di certi cattolici al “socialismo indigeno” di Evo Morales in Bolivia, nonché delle ribellioni promosse, anche di recente, dalla Confederación de Nacionalidades Indígenas del Ecuador (CONAIE).
Affinando ancor di più la loro analisi, alcuni teologi della liberazione hanno cominciato a esplorare il concetto, più sofisticato e globale, di “oppressione culturale”. In due parole, le classi dirigenti opprimerebbero il popolo non solo con la proprietà dei mezzi di produzione e la conseguente gestione esclusiva della res pubblica, ma anche attraverso la cultura, trasformata in mezzo di oppressione. La cultura egemonica costringerebbe i “poveri” ad operare secondo certi parametri forgiati ad arte per mantenere lo status quo.
“Quando l’analisi economica diventa difficile, gli sforzi di liberazione su basi culturali diventano sempre più importanti”, rilevano Alice Evans, Robert Evans e William Kennedy (8).
Quindi la proposta d’una “liberazione” attraverso una rivoluzione culturale nella quale l’oppresso “estragga” (getti fuori da sé) la cultura dominante. Sarebbe la nascita di un uomo nuovo, internamente libero da qualsiasi condizionamento culturale.
Da qui si fa presto ad abbordare un altro tipo di “oppressione”: quella morale.
Tale concetto si fonda sul mito che ogni persona possiede pieno diritto di soddisfare le sue fantasie morali, senza nessun tipo di discriminazione. Alcuni teologi della liberazione hanno quindi cominciato a proporre una liberazione degli istinti contro l’oppressione imposta da secoli di cultura e di civiltà cristiana che hanno consacrato il dominio dell’intelligenza e della volontà sulla sensibilità.
Frutto di tali considerazioni sono, per esempio, la Teologia della liberazione gay e la Teologia della liberazione lesbica (sic). La praxis rivoluzionaria collegata a queste teologie non è più la rivoluzione comunista vecchio stile, bensì la partecipazione ai vari movimenti omosessualisti, visti come fattore di una rivoluzione totale identificata con la liberazione integrale.Teologia eco-femminista
Una teologia molto diffusa è quella femminista, sviluppata da persone come Elizabeth Schüssler Fiorenza, Rosemary Radford Ruether e Mary Daly. Inizialmente appiattita sui canoni della Tdl, questa teologia ha cominciato a esplorare fattori di oppressione molto più sottili, come quelli psicologici e di genere, trovando poi la sua “prassi rivoluzionaria” nel movimento femminista, col quale è entrata in simbiosi.
Più recentemente, questa teologia si è aperta anche a riflessioni di tipo ecologista (la Terra non è, infatti, femminile?). Ne è nata la Teologia eco-femminista, che ha fatto qualche incursione anche in Italia. “L’eco-femminismo — spiega Rosemary Radford Ruether — mette insieme le due indagini sull’ecologia e sul femminismo nelle loro forme complete o profonde e indaga sul collegamento tra dominio maschile delle donne e dominio della natura sia nell’ideologia culturale sia nelle strutture sociali” (9).
Una teologia senza religione
Di liberazione in liberazione, i teologi della liberazione stanno arrivando a liberarsi perfino dalla religione, giudicata oppressiva.
Non altro è stato il tema di un recente convegno mondiale dell’Eatwot (Ecumenical Association of Third World Theologians), una sorta di forum mondiale di teologi della liberazione fondato nel 1976. “È giunto il tempo di una teologia post-religione, senza dogmi e dottrine, laica, semplicemente umana”, titolava l’agenzia ADISTA (10).
La chiamano “Teologia pluralista della liberazione” e il suo credo ci viene illustrato dal teologo della liberazione brasiliano Frà Betto: “Credo nel Dio liberato dal Vaticano e da tutte le religioni esistenti e che esisteranno. Il Dio che antecede a tutti i battesimi, pre-esistente ai sacramenti e che va oltre tutte le dottrine religiose. (…) Credo nel Dio che non ha religione (…) presente in pienezza nella natura”. E via di questo passo… (11).
La liberazione del cosmo
L’ultima frase dell’irrequieto frate brasiliano ci porta nel cuore della nuova frontiera della Tdl: la teologia ecologista. “Al grido dei poveri dobbiamo sostituire il grido della Terra”, annunciava Leonardo Boff.
Oltre alla stravaganza, per dire il meno, di trattare la Terra come soggetto teologico bisognoso d’una liberazione, colpisce la capacità di tale teologia di spingersi fino ad orizzonti finora impensabili. Il fondamento della Teologia ecologista della liberazione, secondo quanto spiega lo storico belga François Houtart, vicino alla corrente, “è l’idea che il paradigma tecnico-scientifico della modernità non è universalizzabile, né integrale. Questa teologia si oppone a una concezione ottimistica del progresso e sviluppa una concezione olistica dell’universo vivente” (12).
Secondo tale teologia, il paradigma moderno è ormai esaurito, e va sostituito da quello post-moderno. Quali sono i suoi elementi fondamentali?
Fine dell’egemonia del Logos.
Ciò che segna il passaggio al post-moderno è l’abbandono della ragione come forza propulsiva della storia. “Assistiamo oggi alla fine dell’egemonia del Logos. (…) Tutto indica che oggi siamo giunti al termine di questo lungo processo dell’egemonia della ragione”, afferma il teologo della liberazione brasiliano Leonardo Boff.
E continua: “Nella luce ancora incerta possiamo scorgere una nuova aurora, l’inizio d’una nuova egemonia culturale, quella dell’Eros e del Pathos. La civiltà è nata con la repressione dell’Eros. Adesso dobbiamo organizzare la vita e la cultura sotto l’egemonia dell’Eros, e non più del Logos. (…) Dobbiamo lasciare che riemergano le strutture arcaiche della vita costituite dall’Eros, cioè la spontaneità creativa, la libertà, la fantasia” (13).
Commentando tali dottrine, il sociologo americano Daniel Bell rileva che “solo l’impulso e il piacere sono validi, tutto il resto non è che neurosi e morte” (14).
Insieme all’Eros v’è il Pathos, cioè il sentimento, l’affettività. “L’esperienza fondamentale dell’era post-moderna — continua Boff — è il sentimento. Non è più il cogito ergo sum, ma il sentio ergo sum. Vivere è sentire”. Secondo questa teologia, la conoscenza non è più un apprendere intellettuale, con la conseguente formazione di un concetto, ma una conoscenza diretta, per simpatia. Secondo Boff, “l’uomo avrà un’unione mistica con tutte le realtà, compreso Dio, e le conoscerà per simpatia” (15).
Una Rivelazione immanente.
Nel cuore della religione post-moderna troviamo dunque una Rivelazione immanente. Dio sarebbe un’energia pulsante nel cosmo che si tratterebbe di discernere. Troviamo Dio, prima di tutto, nel nostro corpo. “Il nostro corpo è la fonte primaria di Rivelazione — afferma Joseph Holland, dell’Università gesuita di Georgetown — noi conosciamo la presenza creativa di Dio nella realtà del nostro corpo: carne, sangue, respirazione, postura, digestione, sessualità e via dicendo. Dio va trovato nelle profondità mistiche della carne” (16). Dio si rivela poi “nei nostri movimenti psicologici e temperamentali. (..) Sarebbe il campo interno, affettivo della Rivelazione”. Finalmente, Dio si rivela nella natura: una Rivelazione ecologica.
La società ludica.
Un altro elemento centrale del paradigma post-moderno sarebbe il suo carattere “ludico”, cioè giocoso. Spiega Gibson Winter, al quale fanno riferimento molti di questi teologi: “Il ludus è l’espressione stessa dei movimenti della vita e della natura. (…) Il ludus è il modo d’essere del bios e del cosmo. (…) La vita è un ludus”. Mentre il tipo umano classico sarebbe l’Homo sapiens, e quello moderno l’Homo faber, il tipo umano dell’era post-moderna sarebbe l’Homo ludens (17).
Il ludus, come attività più naturale e spontanea dell’uomo, quella decorrente dal libero flusso delle sue energie e della sua fantasia, e non da un’azione disciplinante della ragione, sarebbe il migliore modo per cogliere le energie divine circolanti nel cosmo, la migliore “mediazione” attraverso la quale questo Dio-energia si manifesterebbe agli uomini: “Il ludus rende il bios e il cosmo accessibile al mondo del significato”.
Anche il modo di portare avanti la rivoluzione cambia sostanzialmente. Non si fanno più insurrezioni proletarie. “La storia si presenta come un gioco. Un gioco libero, inventivo, gioioso. È il gioco che rende realtà l’utopia”, spiega il teologo spagnolo Eugenio Fernández (18).
In questa società ludica, l’immaginazione gioca un ruolo primario, proprio come voleva il ‘68. “L’immaginazione è la connessione fra l’uomo ed i processi creativi del bios e del cosmo”, scrive Winter (19). Liberando l’immaginazione, si aprirebbe questo canale privilegiato attraverso il quale si manifesterebbe il Dio-energia.
La liberazione dei sogni.
Donde l’enfasi sulla liberazione dei sogni. Leggiamo in un manuale di addestramento per le comunità ecclesiali di base: “I sogni hanno origine in Dio. Dio penetra nella realtà attraverso i sogni” (20). Qualsiasi fattore che inibisca il divagare onirico viene ritenuto “oppressivo”. In questo modo si cancella ogni distinzione fra immaginazione e realtà, e la fantasia regna sovrana.
Giunta a questo punto, la teologia della liberazione sarebbe arrivata al termine, liberando l’uomo dall’ultima oppressione: quella della realtà stessa.
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USA: la “guerra dei sessi”
Negli ultimi mesi abbiamo assistito all’inasprirsi del conflitto tra il Vaticano e la Leadership Conference of Women Religious (LCWR), organismo che rappresenta l’80% delle suore americane. Influenzata dalla Teologia della liberazione femminista, la LCWR ha intrapreso la via dello scontro, portando avanti ciò che un commentatore ha definito una “guerra dei sessi”, versione aggiornata della vecchia lotta di classe.
Le suore della LCWR si ritengono oppresse dal “potere maschilista” del Vaticano, a esso contrappongono il loro “magistero”, che affermano essere più vicino alla gente. Fa parte di questo bizzarro magistero la difesa della masturbazione, dell’omosessualità, dell’aborto, del divorzio, degli anti-concezionali e via dicendo. Vale a dire, l’esatto opposto di ciò che insegna il Magistero della Chiesa. Il tutto condito da una teologia ugualitaria per la quale la “base” sarebbe guidata direttamente dallo Spirito e non avrebbe, quindi, bisogno del “vertice”, ossia della gerarchia ecclesiastica.
Il Vaticano ha risposto con una serie di documenti della Congregazione delle Dottrina della Fede. In particolare, nella recente Notificazione concernente il volume «Just Love. A Framework for Christian Sexual Ethics», di suor Margaret Farley, presidente della LCWR, si afferma: “Il libro non è conforme alla dottrina della Chiesa”. Immediata la reazione delle suore: “Il Vaticano fa la guerra alle donne”. Tutto ciò mentre negli Stati Uniti si moltiplicano le manifestazioni a favore delle suore, con marce, dibattiti, telegrammi di solidarietà e via dicendo.
E poi dicono che la Teologia della liberazione è morta…