di Andrea Tornielli
La Chiesa «non è troppo “buonista”» quando parla di accoglienza nei confronti degli immigrati, perché l’accoglienza non «può essere separata» dalla legalità e dalla sicurezza. Lo ha detto al Giornale il cardinale Camillo Ruini, Vicario del Papa per la diocesi di Roma e fino a qualche mese fa presidente della Conferenza episcopale italiana.
Eminenza, con il brutale omicidio di Giovanna Reggiani si è riproposto in modo drammatico il tema del governo dell’immigrazione. La Chiesa è spesso accusata di essere troppo «buonista»…
«Non direi che la Chiesa sia “buonista”. Ci possono essere stati degli ecclesiastici apparsi in questo modo, ma la Chiesa in quanto tale non credo si possa definire così. Certamente, come ha spiegato Benedetto XVI all’Angelus di domenica scorsa, l’accoglienza non può essere separata dall’attenzione alla legalità e alla sicurezza di tutti i cittadini. Se si separano accoglienza e legalità, si rovinano sia l’una che l’altra. Non credo proprio che il grande lavoro che ha fatto e continua a fare la Chiesa per accogliere le persone che arrivano da altri Paesi possa essere giudicato in maniera negativa. Guai se non ci fosse! Anche i problemi della sicurezza diventerebbero molto più gravi».
Di fronte al dilagare della criminalità cresce la domanda di sicurezza da parte dei cittadini.
«Quello dell’insicurezza diffusa è un problema al quale bisogna dare una risposta. I cittadini hanno diritto a vivere in città sicure. Non può essere la Chiesa, come tale, a proporre risposte in prima persona, ma avvertiamo questo bisogno, è un’esigenza reale, che c’è».
Nel libro lei scrive: «Non si può, in Italia e in Europa, porre l’immigrazione e il conseguente formarsi di una società sempre più multi-etnica e multiculturale come un fine». Crede ci sia questo rischio?
«Intendevo dire che non possiamo porre il multiculturalismo come un valore in sé, come il valore a cui fare riferimento. Perché altrimenti mostriamo di non avere più fiducia nel cristianesimo, nella cultura che ha la sua matrice nel cristianesimo. Detto questo, la molteplicità delle culture esiste, è da accogliere e da promuovere positivamente. Ma non va posta come valore principale, come criterio primo. Il valore primo e il criterio primo per il credente è naturalmente Gesù Cristo».
Dopo l’accoglienza c’è il problema della convivenza, dell’integrazione. Che cosa può favorirla?
«Quando noi siamo fedeli alla nostra identità cristiana diamo il miglior contributo anche alla convivenza perché è inscritto nel dna del cristianesimo l’amore di Dio e l’amore per il prossimo. E quindi il vero cristiano fa opera di accoglienza e di promozione».
Nel libro lei scrive che non bisogna aver paura di testimoniare la propria fede anche a chi ne professa una diversa, e spesso in modo molto convinto. Anche ai musulmani?
«Certo, non bisogna aver paura di testimoniare la nostra fede cristiana, ovviamente nel rispetto della libertà di ciascuno, perché la fede si propone e non s’impone a nessuno. Ma non dobbiamo aver timori, non possiamo tirarci indietro nella testimonianza: altrimenti come avrebbero potuto fare i primi cristiani, che hanno iniziato a evangelizzare il mondo antico? Per rispondere alla sua domanda, sì, si può proporre e testimoniare la fede cristiana anche ai musulmani, così come loro ritengono di poter proporre a noi il loro credo. C’è un dovere dell’accoglienza degli immigrati anche sotto il profilo propriamente religioso, nel pieno rispetto della libertà e della coscienza di ciascuno, ma anche con il coraggio e la fiducia del mandato ricevuto dal Signore».
L’accoglienza agli immigrati e la loro integrazione è anche una necessità concreta per l’economia del nostro Paese…
«Certo, non c’è solo la necessità concreta di chi viene tra noi, che rende l’accoglienza, come impegno morale, urgente e imprescindibile. C’è anche la necessità concreta del nostro stesso Paese. Così come non considero un valore primario il multiculturalismo, non credo vada però ritenuto come invincibile e immodificabile quel sentimento di chiusura, quel ripiegamento egoistico e quella sfiducia nel destino della società nazionale che hanno larga parte nell’attuale crisi della natalità».
(A.C. Valdera)