Articolo pubblicato su Avvenire 21 ottobre 2004
Parla il teologo e artista: «I luoghi sacri sono poveri di immagini. Non è curioso che la maggioranza delle nuove chiese venga sempre fotografata senza persone? O che nei cataloghi degli architetti non figurino mai le celebrazioni?» «Eppure le raffigurazioni contemporanee non sono estranee al sacro, rovesciano all’esterno il cuore umano: un cuore straziato, ma è lì che Dio abita»
di Paola Springhetti
In molte di queste chiese, infatti, non ci sono immagini: solo un crocifisso, una statua della Madonna, e per il resto cemento. Perché, nella società dell’immagine, i luoghi in cui si raduna il popolo di Dio hanno espulso l’immagine?
Una risposta possibile ce l’ha padre Marko Ivan Rupnik, caso più unico che raro nella cultura contemporanea, perché è nello stesso tempo artista e teologo, e dunque ha realizzato nella propria esperienza di vita una sintesi assai feconda (è noto, tra l’altro, in quanto autore dei mosaici della cappella Redemptoris Mater di Giovanni Paolo II) «I secoli che cominciano con il Rinascimento, dunque con la scoperta del soggetto, della persona umana, finiscono in una contraddizione drammatica: l’assenza della persona. Potremmo forse dire che si è esaurita una visione di un antropocentrismo radicale.
Non le sembra curioso che la maggioranza delle chiese nuove venga fotografata senza persone, senza celebrazione? Gli architetti sembra non amino mettere nel catalogo le foto dell’architettura con la celebrazione in atto. Inoltre l’architettura delle chiese attuali appartiene a diversi trend del momento, applicati alla chiesa. Ma rimane aperta da un lato la questione dell’inculturazione oggi e dall’altro quella della fede della comunità cristiana con la propria memoria e tradizione, come ispirazione per l’architettura. Anche la progettazione di una chiesa è questione della Chiesa, della comunità che come un tessuto comunicativo si specchia nella chiesa che si sta costruendo».
Infatti nelle chiese la comunicazione è essenziale. Ma l’arte contemporanea a molti non comunica…
«Un’arte che non comunica entra in urto con il linguaggio della liturgia, che è linguaggio della comunicazione e della comunione. Ad un certo momento storico abbiamo optato per il concetto, per la logica concettuale come via della conoscenza e più tardi per la metodologia scientifica. L’arte è stata considerata piuttosto come qualcosa di legato al sentimento del soggetto e dunque non riconosciuta come via della conoscenza.
Si è così trovata su un binario cieco. Nello stesso tempo, però, ha raccolto le proteste di quelle dimensioni dell’umanità che venivano soffocate: la dimensione relazionale, la libertà, lo spazio della metafora, del simbolo. Insomma, l’arte diventa una protesta anche violenta, ma drasticamente soggettivista, e si cade in una specie di incomunicabilità. In un certo senso si è toccato il fondo, ormai si avverte l’urgenza di uscire da se stessi, di incontrarsi, di scoprire l’altro. Oggi dappertutto si sente un bisogno del Volto, di conoscere l’altro non solo come io lo voglio, penso, sento, ma come è. Dunque c’è bisogno non solo del volto, ma del volto che si fa sguardo: l’uomo ha bisogno che qualcuno lo possa vedere, e vedere con misericordia, ha bisogno di scoprirsi salvato».
Capita spesso di constatare che, nelle loro chiese nude, i parroci hanno messo un’icona, oppure che attorno a un’icona i gruppi giovanili si ritrovano a pregare. Perché si ricorre a immagini così lontane dalla nostra tradizione?
«Benché viviamo in un mondo delle immagini, queste di per sé non sono ancora spirituali e non sappiamo leggerle spiritualmente… Di fronte a un’arte cui mi sono riferito prima, i parroci si affidano a quelle immagini che appartengono a un linguaggio in cui la teologia è diventata estetica, e che quindi sono integralmente inserite nella liturgia. Resta il fatto che appartengono a tutta un’altra area culturale».
L’arte occidentale contemporanea sembra particolarmente in difficoltà a rappresentare il volto di Cristo: penso ai crocifissi di Congdon, in cui il volto è invisibile, oppure a molte croci che stanno sull’altare delle nostre chiese , sulle quali il crocifisso non c’è; oppure penso, al contrario, ai volti di Rouault, che rappresentano un Gesù estremamente sofferente, a volte quasi impaurito. Non sappiamo rappresentare il volto di Cristo, e quando lo facciamo è sempre solo quello del Cristo che soffre…
«Giovanni Paolo II, nella lettera scritta in occasione del Giubileo degli artisti, ha aperto un capitolo importante: quello della cura spirituale degli artisti. È un problema diverso da quello dell’attenzione della Chiesa per l’arte. Se gli artisti non hanno un’esperienza della salvezza, come possono annunciare un Cristo che ama e salva gli uomini?
Recentemente ho avuto occasione di guardare una Via Crucis degli anni ’60, che raffigura un corpo di Cristo totalmente corrotto, svuotato, quasi putrefatto ormai. Bisogna stare attenti, perché Cristo non è stato vinto dal male. Ci sono dei contenuti della nostra fede che non si possono eludere nella creazione artistica. Temo l’antropocentrismo radicale che arriva a un capolinea in cui Cristo è semplicemente proiezione e espressione di un uomo che non ce la fa più, come temo d’altra parte un idealismo spiritualizzante che non c’entra niente con la vita: Cristo è vero Dio e vero uomo».
Ma allora, c’è qualcosa da salvare nell’arte contemporanea?
«È in qualche modo sacra, perché rovescia all’esterno il cuore umano, e il cuore umano è sacro: è lì che il Signore abita. Questo cuore oggi è bastonato, spezzato, e ciò che riesce a dire è quasi sempre lacrime, grida, passione violenta. Ma mi unirei a Tarkovskij che dice: il problema non è che ci sono peccatori nel mondo, ma che manca la compassione. Oggi il cuore umano vorrebbe essere toccato con tenerezza, come fa una mamma che soffia sul ginocchio dolorante del bambino caduto. Il problema di noi cristiani, oggi, non è solo di fare vedere questa umanità ferita, ma di far vedere anche la tensione tra il sofferente e il redento, tra la morte e la vita. L’arte allora diventa un luogo dove s i incontra la salvezza».
C’è qualche artista che è su questa strada?
«Tanti. Mi viene in mente ora un grande pittore sloveno, Janez Bernik. Ho presente un suo quadro in una chiesa di Lubiana con la decapitazione di Giovanni Battista, in cui Giovanni si inginocchia, con le braccia spalancate, e noi non vediamo la testa perché è come se fosse piegata in avanti e la scena è inquadrata da dietro. Bernik è un artista moderno, che si muoveva nell’ambito delle avanguardie, e che ha capito che non poteva mettere in chiesa ipso facto una sua opera; allora si è quasi recluso per dieci, dodici anni, e poi si è ripresentato con alcune opere per la Chiesa.
In quella decapitazione di Giovanni Battista vedo un punto di arrivo dell’arte del XX secolo. C’è in Giovanni Battista quella generosità, quell’ ascesi di rinuncia a sé che fa sì che sia il Precursore e che prepara la strada alla rivelazione del Salvatore. Il luogo in cui lui opera è la purificazione, è la debolezza umana. Anche l’Occidente ha nelle nuove generazioni moltissimi artisti di talento, ma bisogna essere consapevoli che l’arte di galleria è una cosa, l’arte di liturgia è un’altra.
Nella liturgia c’è una dimensione oggettiva, perché lì si comunica, glorifica e celebra Cristo come lui è, non come io vorrei che fosse. Allo stesso tempo ha però anche una dimensione soggettiva, segnata dal tempo, dalla cultura, dalla comunità che lo celebra. Prima o poi verrà qualcuno che non guarderà in faccia nessuno e farà una domanda: quanto abbiamo aiutato la cristianizzazione in Europa con le chiese costruite negli ultimi quarant’anni?».