di Piero Sinatti
Un giorno di lutto nazionale per tre tragedie consecutive, un record terribile. Centosettantacinque morti tra un sabato e un martedì di marzo in tre angoli di Russia. Sei, sabato scorso, nell’incidente aereo di Samara, per il distacco di un’ala di un Tupolev in fase di atterraggio all’aeroporto di Samara, Russia centrale, uno dei principali centri petrolchimici russi.
Il Presidente. Vladimir Putin ha proclamato un giorno di lutto nazionale nel Paese. Ha mandato telegrammi di condoglianza. Ha osservato un minuto di silenzio durante una seduta ristretta di governo. Ha chiesto l’apertura di inchieste al massimo livello. Ma non è andato sul luogo della catastrofe, a portarvi il senso immediato del lutto e della solidarietà sua e del Paese. Era già successo dopo la tragedia del sommergibile nucleare “Kursk” e quella di Beslan. Un segno di debolezza, che poco si addice a un leader che fa dell’energia, dell’onnipresenza e della comunicazione permanente uno strumento di popolarità e di potere. Oppure, di cattiva coscienza.
Perché tanti morti in quarantott’ore? Se lo chiede “Komsomolskaja Pravda”, il popolarissimo e diffuso quotidiano russo. Il “fattore umano” – risponde. Che individua nella “negligenza”, “indolenza” (khalatnost’ , la classica parola russa impiegata immancabilmente in queste circostanze). Mancato rispetto delle norme. Imprudenza. Impianti e strutture non a norma. A volte, ubriachezza. Non bastano queste spiegazioni.
Per le sciagure dell’aria, che meritano un discorso a sé, si può parlare anche di invecchiamento e usura degli aeromobili. Di investimenti insufficienti e di carenza di manutenzione. Di mancati controlli a terra. Di logoramento del personale, che ha stipendi assolutamente inadeguati al compito da svolgere. Ma anche di privatizzazioni che hanno frammentato dai primi anni Novanta l’intero settore.
Case di riposo e dintorni. Il quadro che pubblichiamo in margine parla da sé. Si muore, in Russia, di incendi nei luoghi della debolezza e dell’emarginazione. Dei salari minimi che non garantiscono al personale – direttori, medici, assistenti – una vita e un lavoro decenti: 3-4000 rubli mensili, poco più di cento dollari al mese. Ancor meno per infermieri, inservienti, addetti alla pulizie. Personale frustrato e demotivato. Non sono assicurate né la manutenzione dei locali, degli impianti elettrici e quelli antincendio, né tutte le misure di sicurezza.
La TV russa “copre” ampiamente queste sciagure, in epoca sovietica erano occultate. Mostra un’umanità abbandonata e dolente, mal messa. Edifici, impianti e arredi marcescenti. Con il riscaldamento che d’inverno o non funziona o non ripara dal freddo russo. Gli incendi divampano quasi sempre d’inverno. Una stufetta o un fornello vetusti lasciati accesi. Malati mentali lasciati a se stessi la notte. Finestre con sbarre per i tossici.
E’ in parte un’eredità del passato, quello sovietico. Il capitalismo selvaggio ha fatto il resto. Dopo i tagli (se non l’abbandono) della spesa sociale degli anni Novanta, solo nel 2004-2005 Putin vi ha destinato importanti investimenti, specie nella sanità. Ma il lavoro di ricostruzione è enorme, a differenza delle capacità e volontà di realizzarlo, specie ai livelli regionali e locali, della cultura del Paese sotto questo aspetto. E i fondi stanziati o non bastano o non arrivano a destinazione. E’ questo il reale contesto del rogo di martedì a Ejsk, territorio di Krasnodar’. Il resto è cronaca. «Accidente».
Miniere e carbone. La Russia è tra i primi paesi al mondo nell’export di carbone. E per quantità di vittime di sciagure minerarie del settore. La regione di Kemerovo ne ha il primato in Russia. Nel periodo 2001-2005 gli incidenti registrati nelle sue miniere sono stati duecentodue. Ma i media nazionali parlano solo di quelli di grandi proporzioni, come quello di lunedì. Quest’anno, per esempio, da gennaio a marzo , nella miniere di Kemerovo, prima della tragedia della “Uljanovskaja”, gli incidenti mortali sono stati quattro, con un morto ciascuno. Ne hanno parlato solo i media locali.
Ha detto testualmente il senatore ed ex-governatore della regione Rokhetskij : “In epoca sovietica, tragedie di queste dimensioni erano molto meno. C’era un severo sistema di controllo sulle norme di lavorazione. Oggi, i controlli si sono allentati, da quando la maggior parte delle miniere della regione sono passate in mani private”.
Dice il vero Rokhetskij. Negli anni Duemila un gran numero di miniere di carbone (e ferro) sono state acquistate dalle grandi holding della siderurgia e metallurgia. Come il gruppo Severstal’, il grande complesso di Aleksej Mordashov. Come Suek (Compagnia siberiana energetica del carbone) leader in Russia del settore. Come Evraz-Group, la grande holding di acciaio e carbone, cui fa capo una sua sussidiaria , la società “Juzhkuzbassugol” (JuKU: Carbone del Kuzbass meridionale): quella che possiede e gestisce la “Uljanovskaja”, che a sua volta assicura a JuKU il 15% della sua produzione complessiva di carbone.
Una parte cospicua di azioni (47%) di Evraz, uno dei massimi produttori di acciaio e carbone russi , fu ceduta nel maggio 2006 dal suo maggior azionista, l’oligarca Aleksandr Abramov, a Millhouse Corp. la grande holding che fa capo a un altro ben più noto oligarca, Roman Abramovich, oligarca per ora protégé di Putin. Evraz ha tra le sue partecipate l’italiana Palini e Bertoli (laminati d’acciaio), oltre che partecipazioni in Sud Africa, Repubblica ceca ed USA.
Rilancio del carbone. Il carbone dopo una lunga crisi è tornato ad essere un protagonista del mercato energetico russo e mondiale. La domanda è cresciuta. La Russia ne è tra le maggiori esportatori mondiali. Addirittura il monopolio del gas Gazprom cerca di entrare nel settore. Il suo piano, appoggiato – sembra – da Putin, è quello di riservare all’export una quota ancora maggiore di gas. Assicura maggiori utili (ed entrate per lo Stato). Una quota più alta di carbone, perciò, dovrebbe sostituire l’oro azzurro nella bilancia energetica del Paese.
Evraz e “Uljanovskaja”. Gli incidenti così frequenti nel settore minerario sono attribuibili a impianti, strutture e tecnologie invecchiate – sia produttive, che di sicurezza. Risalgono all’epoca sovietica. Gli investimenti sono stati inadeguati a modernizzarlo. Non è il caso della “Uljanovskaja”. E’ nuova. E’ stata inaugurata nel 2002, con dedica a Putin per il suo compleanno da parte del locale governatore Aman Tuleev. E’ dotata di impianti e sistemi di sicurezza ultimo grido, questi ultimi forniti da una nota ditta britannica. E’ all’avanguardia in Russia.
Cause di ordine naturale (o assestamenti della roccia con formazioni di sacche di gas) e/o “errori umani” (“negligenza” etc) avrebbero provocato la tragedia. Lo sostengono in molti, tra cui lo stesso Tuleev, ex minatore, ex PC russo, ora ferreo putiniano. Ci sono però altre spiegazioni, di minatori sopravvissuti, di sindacalisti, di tecnici del settore, di politici. E’ vero – dicono – la miniera è modernissima. Ma alcuni strumenti di segnalazione di gas non hanno mai funzionato bene, né tutte le strutture di compartimentazione sono adeguate a isolare esplosioni e incendi.
Tuttavia, la causa più profonda è un’altra. La Direzione di “Uljanovskaja”, come del resto avviene in tutto il settore, chiede sempre maggiori volumi di estrazione. All’aumento della produttività sono legati premi di produzione che rimpinguano il salario che si aggira mediamente attorno a 8-9 mila rubli (circa trecento dollari, più o meno). Proprio nel gruppo Evraz, nella regione di Kemerovo, ci sono state anche di recente frequenti agitazioni e proteste per le inadempienze salariali.
Ma chi ne ha parlato? Per avere il “premio”, si cerca di realizzare e superare i piani di produzione. Anche a scapito della sicurezza. E’ stato portato un esempio: gli scavatori, durante l’estrazione dal filone fanno in modo che i rilevatori diano valori di concentrazione di gas più bassi di quelli reali, più alti e rischiosi, che potrebbero provocare fermate automatiche di lavoro per il tempo necessario a riportare la concentrazione a norma. fuori pericolo.
Una conclusione, per ora. Hanno commentano le “Izvestija”: “La tragedia di “Uljanovskaja” può essere il risultato del costante aumento dell’estrazione, di quello sfrenato ‘Dai il carbone !’ dei tempi di Stakhanov (il celebre minatore “d’assalto” che ha dato il nome al fenomeno della superproduzione o stakhanovismo negli staliniani anni Trenta, p.s.).
Così, i ritmi di lavoro fanno dimenticare la sicurezza”. Nel 2004 – ha detto il senatore Roketskij, ex governatore di Kemerovo – «questa regione è stata la prima a vedere privatizzato tutto il settore carbonifero. Se da una parte il fatto ha lati positivi in termini di responsabilizzazione e di produzione, dall’altra la diminuzione del livello di sicurezza delle miniere è legato alla corsa sfrenata al profitto e all’incremento dei volumi di produzione».