La crisi economica si era annunciata dieci anni fa ma si è preferito continuare a fare soldi. Adesso il pericolo è lo spostamento a “sinistra” dell’economia americana, con effetti ancor piu’ dannosi. Parla Paul Samuelson, decano degli economisti Usa
dal nostro inviato Mario Platero
È qui, a Chicago, da dove è partita l’avventura di Barack Obama, che Samuelson ha studiato fra i neoclassici e i conservatori, per poi trovare una sua strada più interventista e keynesiana, davanti all’evidenza del disastro che si era consumato in quegli anni: prima con il crollo di Borsa del 1929 e poi con la Depressione.
Abbandonò il conservatorismo che dominava la sua scuola di Chicago per cominciare un percorso molto diverso, che lui stesso definisce centrista. I ricordi si affollano, ma su tutto prevalgono due fatti che oggi, a 93 anni, gli danno forza e stupore allo stesso tempo: la catastrofe finanziaria degli ultimi mesi, molto simile per dinamica a quella degli anni Trenta; la candidatura di un afro-americano alla Casa Bianca: «Non mi sarei aspettato di vedere nella mia vita né l’uno né l’altro. Figuriamci tutti e due. A 93 anni c’è ancora qualcosa che riesce a sorprendermi, un privilegio non da poco per uno della mia età».
Cos’altro la sorprende professore?
L’ottusità del genere umano. Questa era una crisi annunciata. Bear Stearns era l’intermediario della Long Term Capital, il primo campanello d’allarme che squillò dieci anni fa per dirci di fare attenzione. Ma fare soldi a breve era più importante della certezza di stabilità a lungo termine. E su un punto non ci sono dubbi: la colpa è nostra. È Wall Street ad aver aperto la strada al disastro su cui si è poi messo il resto del mondo. Sono stati i nostri professori, alcuni miei allievi al Mit, ad aver sviluppato teorie per la distribuzione del rischio, che sarebbero poi risultate fatali per un semplice errore: non hanno tenuto conto dell’insaziabilità del genere umano.
Vale a dire?
Immagini di avere una mazza da baseball, se ci prova, riuscirà a mettere in equilibrio su un dito. Ma se il bastone diventa grande quanto l’Empire State Building, allora sarà impossibile metterlo in equilibrio. Il gigantismo incontrollato è stato il nostro peccato. Ci vorranno regole nuove. Ma attenzione non regole che strangolino il malato.
Se guarda al futuro immediato, cosa la preoccupa?
Che il pendolo dell’ideologia si sposti troppo a sinistra. Mi spaventa l’idea che al Senato potrebbe essere una maggioranza di 60 voti a favore dei democratici, che impedirà l’ostruzionismo. Questo significa che si potranno fare in libertà cose che potrebbero essere altrettanto dannose per il Paese, ad esempio aumentare spese inutili, per accontentare certe basi politiche. Rafforzando i sindacati, che hanno portato non pochi danni al Paese con rigidità distruttive per l’industria dell’auto.
Lei crede comunque che si tornerà indietro a politiche simili al New Deal?
Non si torna mai indietro. Il mondo è diverso. Ci sono nuove sfide. Quelle ambientali, ad esempio, che diventano centrali per lo sviluppo. Il mondo cambia. E dunque il mio consiglio è di guardare avanti, non indietro. Il mio appello è semplice: non si abbandoni il centro. Sono un centrista perché so dalla storia economica quali pericoli possono derivare dai movimenti estremi, sia quelli verso un eccessivo liberismo, come quello che abbiamo testimoniato prima della crisi, sia quelli verso gli estremi della centralizzazione e della rigidità. Mi ascolti: Mao e Marx erano pagliacci, non avevano alcuna idea di come si deve gestire un’economia. Il nuovo Presidente dovrà collocarsi al centro. E guidare l’America lungo nuovi percorsi che ancora non conosciamo.
Parliamo di una sfida concreta: è favorevole a salvare l’industria dell’auto, come sono state salvate le banche?
No. Ma se si dovrà fare un pacchetto di aiuti, prima le aziende dovranno fallire. Si dovrà avere il coraggio di riconoscere che il management ha sbagliato, ma che hanno sbagliato anche i sindacati a rivendicare diritti fuori dai modelli competitivi internazionali
Altro argomento molto concreto, la spesa pubblica. Ci vorranno importanti pacchetti di stimolo per l’economia. È preoccupato dal disavanzo che ne seguirà?
Gli stimoli sono importanti. Purché siano intelligenti. Da sempre si è stampato danaro per rimettere in carreggiata un’economia in difficoltà. Lo hanno fatto anche i tedeschi fra le due guerre. Sappiamo quali saranno i pericoli: iperinflazione. Anche nel caso americano il processo porterà inflazione. Ma non credo che avremo iperinflazione. Non credo che gli aumenti possano essere superiori al 10 per cento.
E l’Europa? Ci sono vincoli per la Bce perché si occupi solo di inflazione e sulla spesa pubblica per il patto di stabilità.
Se li dimentichi quei vincoli. Non si può ragionare come se questo fosse un normale aggiustamento ciclico che può essere accomodato con piccoli spostamenti. La svolta è epocale e la Banca centrale europea è in ritardo. Dovrà cambiare filosofia, dovrà mettere la recessione davanti al pericolo di inflazione. È questione di intelligenza non di regole. Allo stesso modo sono certo che i Governi nazionali ignoreranno Bruxelles. Mi fanno sorridere le rivendicazioni dei burocrati che sventolano i manuali. Ragazzi: la casa brucia, altro che manuali. Anche perché, ci pensi: non ci sarà un Paese che sgarra a danno degli altri. Lo faranno tutti insieme e dunque saranno – saremo – tutti sulla stessa barca.
L’America è in declino?
La forza economica americana ha sofferto molto. No so se riusciremo a ritrovare il predominio del passato. Ma sono convinto di una cosa: il nostro indebolimento relativo si sarebbe verificato lo stesso, con o senza crisi, non foss’altro perché la Cina e l’India avanzano. E dunque parliamo di globalizzazione: è con noi per restare. Ma un piccolo rallentamento non farà male: oggi abbiamo bisogno di ecletticità, non di lacciuoli legalistici.