San Paolo apostolo del terzo millennio

S. PaoloStudi Cattolici n.572 ottobre 2008

Nel bimillenario della nascita

L’Anno paolino, indetto nel bimillenario della nascita di san Paolo (qui accanto, l’Apostolo in un mosaico bizantino nel museo di S. Salvatore in Onora, Istanbul) e inaugurato da Benedetto XVI il 28 giugno scorso, è occasione opportuna per una sempre più profonda riflessione sull’eredità spirituale e teologica che l’Apostolo delle genti ha consegnato alla Chiesa e al mondo. In queste pagine Miguel Angel Tàbet, ordinario di Sacra Scrittura e Storia dell’esegesi nella Pontificia Università della Santa Croce in Roma, espone anzitutto le ragioni dell’attualità di Paolo per l’uomo d’oggi e di ogni epoca, inoltrandosi successivamente – sulla scorta altresì di preziose indicazioni rintracciabili nell’omelia inaugurale del Papa – nel corpus delle dottrine paoline, di cui si enucleano alcuni temi fondamentali: la concezione cristologica dell’Apostolo, quella ecclesiologica e l’ardente suo zelo nel predicare il messaggio evangelico. Con richiamo a pronunciamenti di Giovanni Paolo II Tàbet, infine, sottolinea l’eccezionale importanza del passaggio di Paolo dall’Asia minore in Europa, un evento decisivo nella storia universale e per la fondazione della civiltà occidentale

di Miguel Angel Tàbet

In occasione dell’apertura dell’Anno paolino nella Basilica di San Paolo fuori le Mura (Roma, 28 giugno 2008), il santo Padre Benedetto XVI si inoltrava nell’omelia in una considerazione che merita un’opportuna riflessione (1). Egli affermava: «Siamo dunque qui raccolti per interrogarci sul grande Apostolo delle genti. Ci chiediamo non soltanto: chi era Paolo? Ci chiediamo soprattutto: chi è Paolo? Che cosa dice a me?».

Paolo, infatti, non è solo una figura gloriosa di un mondo lontano. L’evento dell’Anno paolino deve pertanto necessariamente costituire un’occasione propizia per riflettere su uno dei momenti più singolari della storia della Chiesa primigenia, cioè sulla vita e l’insegnamento di Paolo, nella consapevolezza della sua immanente attualità.

Come asseriva il patriarca ecumenico Bartolomeo I, anch’egli presente alla inaugurazione dell’Anno paolino (2): «La radicale conversione e il kerygma apostolico di Saulo di Tarso hanno “scosso” la storia nel senso letterale del termine e hanno scolpito l’identità stessa della cristianità».

Per un uomo di fede, quindi, non è possibile avvicinarsi a Paolo e ai suoi scritti con la mentalità di chi esamina un fenomeno lontano nel tempo, incuriosito certo dalla sua straordinaria eccezionaiità e imponenza, e tuttavia attinente solo al passato.

La portata dell’accaduto richiede di riviverlo con tutte le sue conseguenze. Noi, appunto, in queste righe vogliamo soffermarci sul perché Paolo continua a essere attuale: che cosa continua sostanzialmente a dire all’uomo d’oggi.

Che in termini generici il messaggio di Paolo sia attuale, e che lo sarà anche per le epoche future, non costituisce un enigma per colui che accolga la Scrittura con atteggiamento di fede. Tale luce scopre alla mente che le Scritture Sacre, tra le quali si annoverano gli scritti attribuiti tradizionalmente all’Apostolo delle genti, sono Parola perenne e immutabile di Dio, anche se richiedono un’attenta e precisa interpretazione (cfr 2 Pt 3, 15); valide quindi, dotate come sono di capacità salvifica, per ogni epoca e per tutti i popoli senza eccezione alcuna.

Le Lettere di Paolo, al pari degli altri scritti del canone biblico, sono e saranno sempre Parola di Dio per la salvezza di tutti gli uomini. La nostra domanda si rivolge perciò più precisamente alla specificità del pensiero di Paolo, a ciò che egli è e continua a dire all’oggi della nostra esistenza.

Quatto ragioni della sua attualità

In un celebre libro di qualche anno fa (3), il noto biblista Romano Penna segnalava che in ordine alla inesauribile attualità di Paolo si potevano addurre almeno quattro motivi validi. In linea con le sue considerazioni elaboreremo la prima parte di queste nostre note, lasciando la seconda parte ad altre motivazioni che ci sembrano ugualmente importanti.

Una prima ragione poggia su una osservazione di carattere cronologico, ma essa implica qualcosa che va ben al di là: il fatto cioè che quasi tutte le Lettere paoline, e certamente quelle che tutti riconoscono come autentiche (1 Ts, Gal, Rm, 1-2 Cor, Fil, Fin), godono di una manifesta precedenza per quanto riguarda la documentazione storico-letteraria su Gesù.

Queste Lettere, e di sicuro le più notevoli (Rm, 1 -2 Cor, Gal), furono scritte negli anni Cinquanta (1 Ts addirittura nel ’50/51), anteriormente quindi al primo Vangelo scritto, che oggi si ritiene comunemente il Vangelo di Marco, composto probabilmente nella prima metà degli anni Sessanta.

Una tale considerazione costituisce un fatto di enorme rilievo: se si considera, infatti, che «la nostra fede si fonda positivamente sulle attestazioni scritte e storicamente accertabili, non su ipotesi o ricostruzioni aleatorie» (4), è doveroso chiederci quale fosse il «Vangelo secondo Paolo», dal momento che egli è stato il primo a scrivere su Gesù.

I suoi scritti costituiscono il primo anello della catena canonica riguardante la trasmissione della fede cristiana. Un secondo motivo dell’attualità di Paolo origina dal fatto che l’Apostolo «è profondamente inserito nel contesto vivo di varie comunità ecclesiali, che egli ci attesta in tutta la loro vivace immediatezza, problematicità e fervore» (5).

Tale rapporto tra Paolo e le comunità cristiane primitive, oltre a essere di paternità in quanto Paolo annunzio il Vangelo là dove ancora esso non era arrivato, facendo così nascere dei nuovi gruppi ecclesiali (cfr 1 Cor 4, 15; Gal 4, 19), illumina grandiosamente l’originaria tradizione cristiana. Paolo, invero non fu un secondo fondatore del cristianesimo, come qualcuno vorrebbe far credere; egli, infatti, non vuole trasmettere se non quello che aveva ricevuto (cfr 1 Cor 15, 3). Perciò, «il caso-Paolo rivela anche a noi quanto il fattore-Chiesa sia determinante per il nostro personale accesso, non solo di conoscenza, ma anche di fede, a Gesù» (6).

Paolo ci da le prime testimonianze di vita ecclesiale dopo la morte di Gesù; il modo cioè in cui l’insegnamento di Gesù si radicava sempre più profondamente nella mente e nel cuore dei primi cristiani, delineandosi nella sua originale identità. Le sue Lettere ci permettono di «tastare il polso della Chiesa delle origini e registrarne con riverenza i primi battiti»; di conoscere cioè quali fossero la fede, la speranza e la carità cui erano stati chiamati i cristiani di tutti i tempi, con le loro difficoltà e aspirazioni; di entrare nella realtà delle «comunità credenti, alle quali soltanto Dio ha consegnato Gesù» (7), così da affratellarle e rivivere quel messaggio su Gesù che Paolo aveva ricevuto al fine di trasmetterlo. A quanto detto Penna aggiunge un terzo motivo integrante.

Paolo non si accontentò di ricevere e di trasmettere meccanicamente quanto la Chiesa preesistente gli aveva comunicato: «Egli reinterpreta, rielabora, rifonde. In lui forse più che in ogni altro appare la “creatività” del cristiano nel coniugare il fondamentale dato evangelico con le concrete situazioni culturali e vitali dei vari ambienti umani ed ecclesiali» (8).

Massimamente attento alle concrete situazioni ecclesiali, e non per un vano esercizio accademico, Paolo rielaborò – con una straordinaria capacità di concentrarsi sull’essenzialità del messaggio rivelato, cioè su quanto Dio aveva operato in Cristo e sul suo impatto antropologico – una serie di categorie teologiche fondamentali, volte a illuminare la vita cristiana del proprio tempo e che avrebbero proiettato copiosa luce sulla teologia di tutte le epoche; quali le categorie di fede, di giustificazione, di grazia, nonché di Chiesa come corpo di Cristo, del battesimo come incorporazione alla morte e risurrezione di Gesù, del matrimonio come figura dell’unione di Cristo e della Chiesa, e altre ancora.

Circa la quarta ragione dell’importanza di meditare oggi il messaggio di Paolo, lo scritturista romano segnalava che in Paolo noi incontriamo un convertito, «anzi, il primo grande convertito della storia cristiana».

Un convertito che era un fariseo zelante, istruito fin dall’infanzia nelle più rigide norme della legge di Dio grazie al suo maestro Gamaliele (cfr At 22, 3), uno dei grandi dottori del tempo; il quale Paolo, però, trovando Cristo sulla via di Damasco, oriente, a partire da quel momento, tutta la sua vita alla verità conosciuta, in una direzione addirittura opposta a quella che fino allora egli pensava fosse l’unica vera (cfr Gai 1.13-15).

Alla fine del suo cammino Paolo dirà di sé: «Sono stato fatto banditore e apostolo – dico la verità, non mentisco – , maestro dei pagani nella fede e nella verità» (1 Tm 2, 7; cfr 2 Tm 1, 11). La limpida testimonianza di Paolo, consapevolmente attento a seguire la verità con saggezza, audacia, ardore e tenerezza ovunque si trovasse, costituisce indubbiamente un paradigma dell’atteggiamento richiesto al cristiano di ogni tempo, soprattutto per coloro che vogliono andare decisamente al di là di un relativismo senza orizzonte, riluttanti alla verità.

Paolo invita l’uomo contemporaneo a rendersi conto che la vocazione cristiana è un «dono» (Efi, 8), che richiede di riceverlo come tale, con la sua componente di stupore e di meraviglia, ringraziando «con gioia il Padre, che ci ha messi in grado di partecipare alla sorte dei santi nella luce. È lui, infatti, che ci ha liberati dal potere delle tenebre e ci ha trasferiti nel regno del suo Figlio diletto» (Col 1, 12-13).

Tre insegnamenti centrali

Nell’omelia di Benedetto XVI, con cui abbiamo cominciato le nostre riflessioni, il Pontefice discorreva su tre testi delle Lettere paoline, forse scelti perché ciascuno sintetizza un aspetto fondamentale dell’essere e della dottrina di Paolo: la sua visione cristologica, quella ecclesiologica e l’ardente zelo apostolico.

1. Il primo dei testi, dalla Lettera ai Galati, afferma: «Sono stato crocifisso con Cristo e non sono più io che vivo, ma Cristo vive in me. Questa vita nella carne, io la vivo nella fede del Figlio di Dio, che mi ha amato e ha dato sé stesso per me» (Gai 2, 20); una precisa professione di fede, profondamente personale, in cui Paolo apre il suo cuore e rivela quale fosse la forza più intima della propria vita: la fede in Cristo e l’esperienza dell’essere amato da Gesù.

Precisava il Papa nella sua omelia: «Ciò che motivava [Paolo] nel più profondo, era l’essere amato da Gesù Cristo e il desiderio di trasmettere ad altri questo amore. Paolo era uno capace di amare, e tutto il suo operare e soffrire si spiega solo a partire da questo centro.

I concetti fondanti del suo annuncio si comprendono unicamente in base ad esso». La dottrina paolina su Cristo include un orizzonte sconfinato, impossibile a ridurre a poche idee. Lasciando al lettore la possibilità di approfondire personalmente e direttamente le parole di Benedetto XVI nel discorso segnalato, vogliamo sottolineare che, indubbiamente, Paolo ci mostra in modo singolare che il cristianesimo non è un sistema dottrinale, una teoria, una speculazione, una modalità di pensare, una opinione su Dio e il mondo, ma si fonda radicalmente sulla «persona di Gesù»: è in Lui che si deve credere, è la sua vita che si è chiamati a vivere, è in Lui soltanto che l’uomo può trovare la salvezza.

Paolo ci insegna, quindi, che il cristianesimo non è una «religione del libro», ma di una «persona», la «persona di Gesù», di un Gesù vivo, perché, come dirà l’autore della Lettera agli Ebrei: «Gesù Cristo è lo stesso ieri, oggi e sempre!» (Eb 13, 8). Non meraviglia perciò che nelle Lettere paoline, dopo il nome di Dio, il nome più menzionato sia quello di Cristo (circa 380 volte).

Questo nome non si allontanava dalle labbra di Paolo: sia per confessarlo come «Signore», cioè come colui da cui dipende tutta la nostra esistenza e davanti al quale si deve piegare in adorazione «ogni ginocchio» proclamando la sua maestà (Fil 2, 11); sia per ricordare l’appartenenza personale e intima a Cristo del cristiano (cfr 1 Cor 3, 23; 15, 23; 2 Cor 10, 7; Gal 3, 29; Rm 8, 9); sia per segnalare che il cristiano deve vivere «in Cristo», espressione frequente e quasi esclusiva dell’Apostolo (Fil 3, 8-11; 2 Cor 5, 17; Rm 6, 11); sia per insistere che il cristiano doveva svuotarsi di sé per lasciare vivere Cristo «in lui» (Rm 8, 10; 2 Cor 13, 5; Gal 4, 19); sia, infine, per mostrare la propria esperienza, per cui tutto era dovuto all’amore di Cristo che si era donato per ogni uomo (cfr Gai 2, 20).

Certamente quel Cristo di cui parlava Paolo era quello stesso Gesù morto e risuscitato, che era apparso agli apostoli e a molti altri discepoli perché divenissero suoi testimoni, ma anche a lui, come ben esprime il saliente passo di 1 Cor 15, 1-10: «Vi rendo noto, fratelli, il Vangelo che vi ho annunziato e che voi avete ricevuto, nel quale restate saldi, e dal quale anche ricevete la salvezza, se lo mantenete in quella forma in cui ve l’ho annunziato. Altrimenti, avreste creduto invano! Vi ho trasmesso dunque, anzitutto, quello che anch’io ho ricevuto: che cioè Cristo morì per i nostri peccati secondo le Scritture, fu sepolto ed è risuscitato il terzo giorno secondo le Scritture, e che apparve a Cefa e quindi ai Dodici. In seguito apparve a più di cinquecento fratelli in una sola volta: la maggior parte di essi vive ancora, mentre alcuni sono morti. Inoltre apparve a Giacomo, e quindi a tutti gli apostoli. Ultimo fra tutti apparve anche a me come a un aborto. Io infatti sono l’infimo degli apostoli, e non sono degno neppure di essere chiamato apostolo, perché ho perseguitato la Chiesa di Dio. Per grazia di Dio però sono quello che sono, e la sua grazia in me non è stata vana; anzi ho faticato più di tutti loro, non io però, ma la grazia di Dio che è con me. Pertanto, sia io che loro, così predichiamo e così avete creduto».

2. Il secondo testo citato da Benedetto XVI riguarda le parole con cui Cristo risorto si rivolse a Paolo sulla via di Damasco: «Saulo, Saulo, perché mi perseguiti?». Alla domanda: «Chi sei, o Signore?», gli fu risposto: «Io sono Gesù che tu perseguiti» (At 9, 4-5).

Perseguitando i cristiani, Paolo perseguitava lo stesso Gesù: «Gesù si identifica con la Chiesa in un solo soggetto. In questa esclamazione del Risorto, che trasformò la vita di Saulo, in fondo ormai è contenuta l’intera dottrina sulla Chiesa come corpo di Cristo», precisava il Papa.

Questo secondo grande insegnamento trasmesso da Paolo si presenta oggi forse più che mai di acuta attualità, allorquando si avvertono le più variegate tendenze nel voler costruire una cristologia senza ecclesiologia, di accettare cioè un Cristo senza la sua Chiesa, forse perché si vede Cristo molto lontano nel tempo e la Chiesa soltanto attraverso il suo aspetto visibile, ossia attraverso i fattori umani esterni, perdendosi la vera natura delle cose, l’attuazione in essa dello Spirito di Cristo, la dimensione teologica.

Nel suo cammino verso Damasco Paolo comprese che la Chiesa era inseparabile da Cristo. Perciò egli ricorderà spesso con profondo dolore di aver perseguitato la Chiesa di Cristo, che talvolta designa come «Chiesa di Dio» (1 Cor 15, 9; cfr Gal 1, 13; Fil 3, 6). Manifesterà inoltre, con linguaggio molto espressivo, il suo amore alla Chiesa e alle diverse comunità locali.

A queste si rivolgerà con accenti pieni di affetto e incoraggianti, come: «Fratelli miei carissimi e tanto desiderati, mia gioia e mia corona, rimanete saldi nel Signore così come avete imparato, carissimi!» (Fil 4, 1); o anche: «La nostra lettera siete voi, lettera scritta nei nostri cuori, conosciuta e letta da tutti gli uomini.

È noto infatti che voi siete una lettera di Cristo composta da noi, scritta non con inchiostro, ma con lo Spirito del Dio vivente, non su tavole di pietra, ma sulle tavole di carne dei vostri cuori» (2 Cor 3, 2-3); o ancora, con un profondo sentimento di paternità e di maternità, mostrando dolore per le debolezze e le incostanze dei cristiani: «Figlioli miei, che io di nuovo partorisco nel dolore finché non sia formato Cristo in voi! Vorrei essere vicino a voi in questo momento e poter cambiare il tono della mia voce, perché non so cosa fare a vostro riguardo» (Gai 4, 19-20).

L’«assillo quotidiano» di Paolo era infatti «la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11, 28). Certamente, fra le immagini utilizzate da Paolo per parlare dell’intima unione tra Cristo e la Chiesa, come «sposa di Cristo» (Ef 5,2 1-33) e «popolo di Dio» (2 Cor 6, 16; cfr Ef 2, 14-15), radicate nella tradizione ebraica, emerge quella di «corpo di Cristo» (1 Cor 12, 12-27; Rm 12, 4-5, Col 1, 18-24; Ef, 23; 4, 12, eccetera), espressione esclusivamente paolina, che implica semanticamente la dipendenza o appartenenza della Chiesa a Cristo, l’unione vitale tra Cristo e le sue membra.

Cristo quindi ha un «corpo». Egli è personalmente presente nella sua Chiesa. «Non sapete che i vostri corpi sono membra di Cristo?», scrive l’Apostolo ai Corinzi (1 Cor 6, 15). In tutto ciò traspare il mistero eucaristico, nel quale Cristo dona di continuo il suo corpo e fa di noi il suo corpo: «II pane che noi spezziamo, non è forse comunione con il corpo di Cristo? Poiché c’è un solo pane, noi, pur essendo molti, siamo un corpo solo: tutti infatti partecipiamo dell’unico pane» (1 Cor 10, 16-17).

3. Il terzo testo citato da Benedetto XVI, infine, è una esortazione a Timoteo dalla prigione, quando Paolo era prossimo alla morte: «Soffri anche tu insieme con me per il Vangelo», scrive incoraggiando il suo discepolo (cfr 2 Tm 1, 8). Tuttavia, fin dalla prima delle sue Lettere, rivolta ai Tessalonicesi, Paolo aveva annotato: «Dopo avere prima sofferto e subito oltraggi a Filippi, come ben sapete, abbiamo avuto il coraggio nel nostro Dio di annunziarvi il Vangelo di Dio in mezzo a molte lotte. E il nostro appello non è stato mosso da volontà di inganno, né da torbidi motivi, né abbiamo usato frode alcuna; ma come Dio ci ha trovati degni di affidarci il Vangelo così lo predichiamo, non cercando di piacere agli uomini, ma a Dio, che prova i nostri cuori. Mai infatti abbiamo pronunziato parole di adulazione, come sapete, né avuto pensieri di cupidigia: Dio ne è testimone» (1 Ts 2, 2-5).

La verità su Gesù annunziata dall’Apostolo non solo era ritenuta da lui così grande da non poterla sacrificare in vista di un successo esterno, ma egli era disposto a soffrire l’indicibile affinchè altri potessero fruire della bellezza di tale verità. «La verità che aveva sperimentato nell’incontro con il Risorto ben meritava per lui la lotta, la persecuzione, la sofferenza», segnalava Benedetto XVI.

Difatti egli era disposto a farsi «debole con i deboli, per guadagnare i deboli»; a farsi «tutto a tutti, per salvare a ogni costo qualcuno»; e concludeva: «Tutto io faccio per il Vangelo, per diventarne partecipe con loro» (1 Cor 9, 22-23).

Più incisiva ancora è la lunga lista delle sofferenze che Paolo aveva dovuto subire per il Vangelo e che presenta a coloro che, affermando la loro qualità di autentici ministri di Cristo, ne discreditavano l’insegnamento: «Sto per dire una pazzia, io lo sono più di loro: molto di più nelle fatiche, molto di più nelle prigionie, infinitamente di più nelle percosse, spesso in pericolo di morte.

Cinque volte dai Giudei ho ricevuto i trentanove colpi; tre volte sono stato battuto con le verghe, una volta sono stato lapidato, tre volte ho fatto naufragio, ho trascorso un giorno e una notte in balìa delle onde. Viaggi innumerevoli, pericoli di fiumi, pericoli di briganti, pericoli dai miei connazionali, pericoli dai pagani, pericoli nella città, pericoli nel deserto, pericoli sul mare, pericoli da parte di falsi fratelli; fatica e travaglio, veglie senza numero, fame e sete, frequenti digiuni, freddo e nudità. E oltre a tutto questo, il mio assillo quotidiano, la preoccupazione per tutte le Chiese» (2 Cor 11, 23-28).

In tal senso conviene riflettere su queste parole di Benedetto XVI pronunziate nell’omelia più volte citata: «In un mondo in cui la menzogna è potente, la verità si paga con la sofferenza. Chi vuole schivare la sofferenza, tenerla lontana da sé, tiene lontana la vita stessa e la sua grandezza; non può essere servitore della verità e così servitore della fede. Non c’è amore senza sofferenza: senza la sofferenza della rinunzia a sé stessi, della trasformazione e purificazione dell’io per la vera libertà. Là dove non c’è niente che valga che per esso si soffra, anche la stessa vita perde il suo valore. L’Eucaristia – il centro del nostro essere cristiani – si fonda nel sacrificio di Gesù per noi, è nata dalla sofferenza dell’amore, che nella Croce ha trovato il suo culmine. Di questo amore che si dona noi viviamo. Esso ci da il coraggio e la forza di soffrire con Cristo e per Lui in questo mondo, sapendo che proprio così la nostra vita diventa grande e matura e vera. Alla luce di tutte le Lettere di san Paolo vediamo come nel suo cammino di maestro delle genti si sia compiuta la profezia fatta ad Anania nell’ora della chiamata: “Io gli mostrerò quanto dovrà soffrire per il mio nome” (At 9, 16) La sua sofferenza lo rende credibile come maestro di verità, che non cerca il proprio tornaconto, la propria gloria, l’appagamento personale, ma si impegna per colui che ci ha amati e ha dato sé stesso per tutti noi».

Paolo e le radici cristiane d’Europa

Raccontano gli Atti degli Apostoli (cap. 16) che, nel suo terzo viaggio apostolico, Paolo e coloro che lo accompagnavano, dopo aver attraversato la Frigia e la regione della Galazia raggiungendo la Misia, volevano dirigersi verso la Bitinia, «ma lo Spirito di Gesù non lo permise loro» (v. 7). Discesero perciò a Troade. «Durante la notte apparve a Paolo una visione: gli stava davanti un Macedone e lo supplicava: “Passa in Macedonia e aiutaci!”».

Dopo questa visione, narra l’autore degli Atti, «subito cercammo di partire per la Macedonia, ritenendo che Dio ci aveva chiamati ad annunziarvi la parola del Signore» (vv. 9-10). Sarà questa la prima volta che Paolo predicherà in terra europea, e lo fa per precisa volontà di Dio. Egli, arrivato a Filippi, colonia romana e città del primo distretto della Macedonia, dove rimase alcuni giorni, andò il sabato successivo nel luogo in cui riteneva che i Giudei pregassero e rivolse la parola a quanti erano là riuniti.

La prima conversione fu quella di una pia donna di nome Lidia, della città di Tiatira, cui il Signore «aprì il cuore per aderire alle parole di Paolo» (v. 15). Venne battezzata insieme alla sua famiglia. A partire da quel momento, Paolo evangelizzerà la Macedonia e l’Acaia, poi Roma e, secondo il parere di molti studiosi, anche la Spagna (9).

La figura di Paolo si trova immersa così nelle fondamenta dell’Europa, e anche in questo senso ha molto da dirci. Il contenuto della predicazione di Paolo, con la quale seminò nel mondo allora conosciuto — germe che diventerà un albero frondoso (cfr Mt 13, 31-33) -, lo troviamo nelle sue Lettere. Esse, come abbiamo visto, sebbene affrontino tematiche diverse a seconda delle circostanze, hanno sempre un fondo comune: Paolo si gloriava soltanto di predicare «Gesù Cristo e questi crocifisso» (1 Cor 2, 2).

E scrive nella stessa Lettera: «Mentre i Giudei chiedono i miracoli e i Greci cercano la sapienza, noi predichiamo Cristo crocifisso, scandalo per i Giudei, stoltezza per i pagani; ma per coloro che sono chiamati, sia Giudei che Greci, predichiamo Cristo potenza di Dio e sapienza di Dio. Perché ciò che è stoltezza di Dio è più sapiente degli uomini, e ciò che è debolezza di Dio è più forte degli uomini» (1, 22-25).

Occorre osservare che Paolo, nonostante le affermazioni in contrario che occasionalmente fa di sé e sul suo modo di parlare (cfr 2 Cor 11,6), era ciò che oggi si potrebbe dire un uomo «colto»; un «uomo delle tre culture» come è stato definito: quella del popolo d’Israele e della sua tradizione, in cui era stato istruito; quella romana per la sua città di nascita, che gli offriva la prerogativa di civis romanus, e quella greca, riflessa nei suoi scritti, diffusa nel mondo antico fin dall’epoca di Alessandro Magno.

Non era però sulla forza di questa sapienza che improntava la sua missione. Egli affermava, certo, che «tutto quello che è vero, nobile, giusto, puro, amabile, onorato, quello che è virtù e merita lode, tutto questo sia oggetto dei vostri pensieri» (Fil 4, 8), riprendendo così una concezione prettamente umanistica propria della sapienza filosofica; ma era fortemente consapevole che la sua missione e l’adesione di fede potevano fondarsi solo sull’azione potente di Dio e sul vigore dello Spirito (cfr 1 Cor 2, 1-5).

Il significato di questo atteggiamento di Paolo è indubbiamente molto suggestivo per il cristiano del nostro tempo. Le condizioni della società contemporanea appaiono all’osservatore non molto dissimili da quelle dell’epoca di Paolo. Oggi come allora persiste la ricerca dell’esperienza religiosa in una molteplicità di forme, alcune pagane, che spesso conducono lontano dall’autentica fede cristiana.

Si cerca la propria felicità in numerosi dèi — simboli, immagini, distrazioni, soddisfazioni umane – e in nuove forme di religiosità e sètte di diversa origine. In realtà, gran parte della società europea si trova oggi dinnanzi alla sfida di una nuova scelta di Dio, su cui tutti i cristiani, così come gli uomini di buona volontà, sono chiamati a pronunziarsi. Con maggiore precisione lo segnalava Giovanni Paolo II: «L’intera Chiesa in Europa senta rivolto a sé il comando e l’invito del Signore: ravvediti, convertiti, “svegliati e rinvigorisci ciò che rimane e sta per morire” (Ap 3, 2).

È un’esigenza che nasce anche dalla considerazione del tempo attuale: “La grave situazione di indifferenza religiosa di tanti europei, la presenza di molti che anche nel nostro Continente non conoscono ancora Gesù Cristo e la sua Chiesa e che ancora non sono battezzati, il secolarismo che contagia una larga fascia di cristiani che abitualmente pensano, decidono e vivono come se Cristo non esistesse, lungi dallo spegnere la nostra speranza, la rendono più umile e più capace di affidarsi solo a Dio. Dalla sua misericordia riceviamo la grazia e l’impegno della conversione” (Sinodo dei vescovi, Seconda Assemblea Speciale per l’Europa, Messaggio finale)» (10).

Forse qualcuno adopererebbe il termine «restaurazione», espressione che sarebbe valida se fosse intesa solo come stimolo a edificare una civiltà più profonda, veramente cristiana e perciò anche più pienamente umana. In ogni caso, l’atteggiamento di Paolo appare paradigmatico nella situazione del nostro mondo: cercare di trasformarlo, per offrirlo a Cristo, affidandosi alla forza dello Spirito.

Ci sembra perciò opportuno concludere le nostre riflessioni con le seguenti parole esortative di Giovanni Paolo II rivolte alla Chiesa in Europa: «Sappi ritrovare l’entusiasmo dell’annuncio. Senti rivolta a te, oggi, in questo inizio del terzo millennio, l’implorazione già risuonata agli albori del primo millennio, allorché apparve in visione a Paolo un Macedone che lo supplicava: “Passa in Macedonia e aiutaci!” (At 16, 9).

Anche se inespressa o addirittura repressa, è questa l’invocazione più profonda e più vera che sgorga dal cuore degli europei di oggi, assetati di una speranza che non delude. A te questa speranza è stata data in dono, perché tu la ridonassi con gioia in ogni tempo e a ogni latitudine. L’annunzio di Gesù, che è il Vangelo della speranza, sia quindi il tuo vanto e la tua ragion d’essere. Continua con rinnovato ardore nello stesso spirito missionario che, lungo questi venti secoli e incominciando dalla predicazione degli apostoli Pietro e Paolo, ha animato tanti santi e sante, autentici evangelizzatori del Continente europeo» (11).

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1) II testo si può consultare in Avvenire, domenica 29 giugno 2008; oppure, tra altre fonti, in http://magisterobenedettoxvi. blog-spot.com/2008/06/il-papa-apre-lanno-paolino-in-un-mondo.html.
2) Cfr ivi.
3) R. Penna, Paolo di Tarso. Un cristianesimo possibile, Ed. Paoline, Cinisello Balsamo, Milano 1992. I riferimenti a questo libro si trovano specialmente nelle pagine introduttorie: pp. 7-14.
4) Ivi, p. 9.
5) Ivi.
6) Ivi,
7) Ivi,
8) Ivi, 11.
9) A questa conclusione sono giunti i trenta teologi e storici d’Europa e di America riuniti recentemente a Tarragona (www.ar-quebisbattarragona.org) per valutare se l’apostolo Paolo si fosse recato o no in Spagna, concretamente nell’antica Tarraco dell’Hispania, oggi Tarragona. Il Congresso internazionale, con il titolo «Paolo, Fruttuoso e il cristianesimo primitivo a Tarragona (secoli I-VIII)», si è svolto dal 19 al 21 giugno scorso nella città catalana.
10) Giovanni Paolo II, Esort. ap. Ecclesia in Europa, 28.VI.2003, n. 26.
11) Ivi, n. 45.