di Gavino Manca
Fra gli aspetti più interessanti (e scontati) degli scenari economico – socio – politici proposti dai movimenti utopistici (non solo marxisti), vi è stata l’abolizione della proprietà privata e la comune disponibilità dei beni naturali e di quelli ottenuti attraverso il lavoro umano. Questa tesi, che si identifica con l’affermazione di Proudhon («la proprietà è un furto») trova ancora sostenitori in movimenti di varia ideologia (per esempio, l’ecologismo), nonostante la disputa prò e contra da parte dei due tradizionali antagonisti — il mondo socialista e quello capitalista — si sia molto attenuata. L’ultimo mezzo secolo ha visto, nella realtà, un notevole avvicinamento delle posizioni, con una crescente introduzione della proprietà nella società socialista e una crescente limitazione (o condizionamento) dei diritti di proprietà in quella capitalista.
Per tentare di ricostruire i termini del problema, nulla è probabilmente più utile che rifarsi all’analisi svolta da San Tommaso. È una questione che riguarda il mondo intero; la vedremo attraverso un pensatore che ha fama di santo e di filosofo al tempo stesso. Insomma: un argomento “mondiale” attraverso alcune pagine di una testa mondiale. Vero “cavallo di battaglia” del pensiero dell’Aquinate, la questione 66 della Summa Theologica, Secunda Secundae, «se sia naturale per l’uomo il possesso delle cose esteriori» e «se sia lecito ad alcuno possedere qualcosa come cosa propria». Diciamo subito che la categoria inquadrata sotto la denominazione di cose «esteriori» è una chiara derivazione della distinzione stoica (Crisippo, Epitteto) tra cose esterne, cose corporee e cose dell’anima; San Tommaso intende quindi oggetti non connaturati al soggetto né in senso spirituale né in senso corporeo, essenzialmente i beni materiali o la «ricchezza» in senso generico (Diogene Laerzio).
Contro la naturalità del principio del possesso in generale di tali cose esterne, tre sono le obiezioni considerate dal Santo: 1) «il dominio di tutte le creature è proprio di Dio» (Salmo XXIII); 2) il commento di S. Basilio alla parabola di S. Luca del ricco agricoltore: «Dimmi, quali sono le tue cose? Da dove, togliendole, le portasti in vita?»; 3) l’affermazione di S. Ambrogio: «Dominus nomen est potestatis»; Dio, e non l’uomo, ha il potere di cambiare la natura delle cose, l’uomo quindi non ha potestà su di esse.
La risposta tomista alle tre obiezioni si sviluppa su due fondamentali distinzioni: la prima (cui abbiamo già fatto riferimento), che porta alla esclusione dei possesso degli uomini sugli uomini, limitandolo alle cose materiali o terrene; la seconda, che oppone al dominio principale di Dio su tutte le cose il dominio naturale dell’uomo come potere di uso. Questo potere di uso delle cose è collegato al principio della loro comunicabilità per le altrui necessità, attraverso cui si esercita l’obbligo dell’esercizio della carità: sarebbe come dire che la comunanza del potere d’uso si manifesta con l’esistenza di un limite nei possesso, rappresentato dalle necessità altrui.
Sgomberato il campo dalle tre «obiezioni» teologiche e sottolineato il limite alla proprietà posto dall’obbligo caritativo, è opportuno esaminare le ragioni per cui San Tommaso ritiene di dover parlare di necessità del riconoscimento del diritto di proprietà individuale. Si tratta di tre argomenti: «Perché ognuno è maggiormente sollecito a procurarsi quel che spetta a lui solo, di quello che è comune a tutti o a molti»; «Perché più ordinatamente vengono trattate le cose umane se a ciascuno tocca il dovere di procurar qualcosa»; «Perché si conserva più pacifico lo stato degli uomini, attendendo ognuno alle proprie cose».
Circa il primo argomento, non molto vi è da dire sul fatto che è difficile negare la maggiore probabilità di impegno sul lavoro posta in essere dalla proprietà individuale; rilevante è invece l’implicazione del principio che sancisce la garanzia che ognuno possa godere i frutti della propria attività. Si tratta cioè di un sistema che possa dirsi di sicurezza sociale, sebbene non proprio col significato con cui si usa oggi questo termine. Questa di San Tommaso è una sicurezza sociale riconoscitrice anche dei diritti dell’attività individuale; anzi, meglio, stimolatrice.
Il secondo concetto lega il diritto di proprietà a un’esigenza di ordine della produzione; tutto si svolge più ordinatamente se ognuno pensa alle proprie necessità, che se a ognuno spettassero invece compiti vaghi di procacciare cose utili alla comunità. Siamo qui al centro della vexata quaestio tra individualismo e dirigismo sulla quale non ci soffermeremo perché crediamo a una realtà che va faticosamente facendosi strada: quella che, pur lasciando ampi gradi di libertà all’operare individuale, pone pur tuttavia condizionamenti dall’esterno.
L’esigenza del riconoscimento della proprietà individuale è esigenza di tranquillità sociale. La tranquillità è data dal fatto che, con la proprietà divisa tra vari individui, ognuno si occupa delle cose proprie; nulla sarebbe più distante dalle rappresentazioni di democrazia partecipativa se questo terzo argomento del Santo non venisse interpretato in senso estensivo, nel senso cioè «che bisognerebbe che ogni uomo fosse proprietario di una parte delle cose esteriori», concetto che si inquadra nel principio dell’equa ripartizione dei beni.
Queste argomentazioni inducono a una prima considerazione sul realismo del pensiero tomista, che riflette assai più ciò che l’uomo è piuttosto che ciò che dovrebbe essere; in questo distinguendosi nettamente dalle visioni progressiste e finalizzate del comportamento umano. Sotto un certo aspetto, anticipando il metodo delle dottrine comportamentali: occorre cioè raggiungere gli auspicati risultati del comportamento sociale, partendo dalle propensioni e dagli atteggiamenti esistenti, piuttosto che sperando su improbabili cambiamenti.
Tale realismo non comporta peraltro acritica immobilità politica e, soprattutto, morale; ne fa prova la precisa posizione dell’Aquinate sul problema dell’avarizia e dell’accumulo di capitali. L’avarizia (immoderatus amor habendi) è duramente condannata dal Santo perché porta l’avaro a peccare contro il prossimo («nei beni economici nessuno può sovrabbondare senza mancanza per gli altri, perché i beni materiali non possono essere contemporaneamente posseduti da molti») e consiste nell’avere di più di ciò che si deve «secondo giustizia». E qui è evidente che quel secundum justitiam non si riferisce ad una giustizia tra due individui solamente, ma a una giustizia in senso sociale, collettivo.
E su questo sfondo che si sviluppa la critica contro l’eccessivo acquisto (acceptionem) e tesaurizzazione (conservaiionem) di ricchezza «in quanto, si intende, alcuno ammassa il denaro oltre il dovuto, le cose altrui sottraendo o trattenendo, e così si mette in contrasto con la giustizia» (ove per cose altrui si deve intendere cose sociali, altrimenti si rientrerebbe in una illeceità diversa come la truffa, il furto, ecc.).
Per concludere. San Tommaso, pur giustificando- ed anzi dichiarando necessario il sistema della proprietà privata, giunge ad ammettere limitazioni alla proprietà stessa; limitazioni che sono di scarsa estensione materiale, ma estremamente rilevanti — anche come implicazioni — sul piano morale, come è il caso del furto improprio ammesso quando un individuo versi nello stato di evidente ed urgente necessità non altrimenti ovviabile. E questo, ancora una volta, conferma il contenuto di realismo di un pensiero altamente innovatore certo, ma non per questo vagheggiatore di impossibili (o troppo difficili) trasformazioni.