Il Sole 24 Ore 12 12 Febbraio 2017
di Claudio Giunta
Tra i colpevoli della notevole inabilità alla scrittura di buona parte degli studenti italiani ci sono anch’io.
Ho appena messo 18 al compito scritto di uno studente della laurea magistrale in Lettere (quinto anno di università) che meritava invece di essere bocciato perché, a parte conoscere maluccio il programma, ha grosse difficoltà nello scrivere: mette male la punteggiatura, usa i verbi sbagliati, confonde le preposizioni (scrive per esempio che «la squadra ha l’intenzione a partecipare», anziché “di partecipare”) non sa fare un riassunto, nel senso che invece di riassumere l’intero brano assegnato sintetizzandone il contenuto lo riassume frase per frase: «L’autore di questo brano dice che… Poi dice che… Poi dice che…», e così via.
Lo studente che io adesso promuovo potrebbe prima o poi diventare un insegnante, e con un insegnante simile i suoi futuri studenti certamente non impareranno a scrivere (ci si potrebbe domandare: può questo aspirante insegnante imparare a scrivere nei prossimi anni, tra il suo quinto anno di università e la sua eventuale, speriamo scongiurabile, entrata in servizio? No, non può, non s’impara a scrivere a ventitré anni).
E allora perché l’ho promosso? Dato che si discute, in questi giorni, della cattiva scrittura degli studenti, mi pare che la risposta a questa domanda possa interessare tutti. Ma non c’è una sola risposta, ce ne sono molte, o meglio c’è una risposta che si complica, si sfrangia in tante risposte più piccole, una causa che si può scomporre in concause.
Diciamo intanto che lo studente a cui ho dato 18 ha ripetuto l’esame quattro volte. La quarta è andata meglio delle tre precedenti, nel senso che lo studente non ha smesso di impegnarsi: ha letto, ha studiato. Ma, quanto alla scrittura, non può fare più di così: avrebbe dovuto imparare a scrivere decentemente molti anni fa, ma non ha imparato, e adesso è tardi. Alla quarta volta l’ho promosso perché, come mi ha ripetuto fino alla nausea, il mio è «il suo ultimo esame», la tesi è già pronta da tempo, ed è una tesi che non riguarda la mia materia: lo studente si laureerà in storia contemporanea.
Bocciarlo ancora (e poi ancora, e ancora) avrebbe voluto dire impedirgli di laurearsi, fargli buttare via gli studi di cinque anni, rovinargli l’esistenza. Tra l’altro, lo studente non è affatto sciocco, e ha un libretto più che dignitoso. Non sa scrivere in un italiano decente, ma ha una media del 27-28, alcuni 30. Esami orali, voti in parte anche meritati. Di fatto, il mio è uno dei non molti esami scritti che ci siano a Lettere; i pochi altri sono test a crocette, o sono esami scritti in cui il docente (legittimamente?) bada più al contenuto che alla forma.
Ma insomma, alla quarta volta – lo studente è civile, è anche, ripeto, intelligente – non me la sono sentita di bocciarlo ancora, e gli ho regalato un voto.
Quattro volte? Sì, perché l’università italiana è quel luogo felice in cui gli studenti possono ripetere lo stesso esame virtualmente all’infinito. Tre sessioni l’anno, uno o due appelli a sessione, più eventuali sessioni straordinarie: i miei studenti possono, come si dice, “tentare” il mio esame cinque o sei volte l’anno, finché non lo passano (e infatti quattro non è il record: ci sono studenti che lo hanno ripetuto sei, sette volte). In altre nazioni, chi viene bocciato all’esame per due volte deve ripetere l’intero anno; in alcune, una pluri-bocciatura comporta l’espulsione dall’università. Non in Italia. In Italia, una volta entrati, si ha il diritto di ripetere gli esami quante volte si vuole, così come si ha il diritto di non frequentare le lezioni. È la libertà.
Una volta entrati, ho detto, e qui sta l’altro problema, perché la porta dei dipartimenti di Lettere, a differenza di quella – poniamo – delle facoltà di Medicina, è sempre aperta. Ci sono in alcuni atenei, come mini-deterrenti, dei test d’ingresso, ma sono test che hanno l’obiettivo di permettere allo studente di autovalutarsi, di capire se quella è davvero la sua strada, più che di stabilire chi può o non può frequentare i corsi.
Di fatto, è normale leggere, nei bandi, che «l’esito del test non preclude la successiva immatricolazione al Corso di Laurea» (cito dal sito dell’Università di Bologna); e di fatto accade spesso che a Lettere finiscano per iscriversi ragazzi e ragazze che non hanno passato l’esame d’ammissione a corsi universitari o para-universitari più selettivi ma di tutt’altra indole, come Fisioterapia. Lettere è un ripiego, magari momentaneo, in attesa di riprovare il test di Fisioterapia.
Perché questa generosità, questa politica di accoglienza erga omnes? Per varie ragioni. La prima è che non si può mettere il numero chiuso a tutti gli indirizzi di studio, altrimenti molti studenti non saprebbero che fare, dopo le superiori. A differenza dei corsi di medicina o di fisioterapia, i corsi di Lettere e Filosofia non hanno bisogno di laboratori, perciò non esistono ragioni oggettive che impongano un filtro agli iscritti: dove si formano venti latinisti – questa la ratio (non molto razionale, in verità) – se ne possono formare quaranta.
La seconda è che gli studi umanistici sono spesso intesi come una sorta di viatico all’emancipazione personale, non solo cioè un percorso professionalizzante ma l’occasione per una crescita culturale, per migliorare se stessi: negare questa chance a studenti magari non manifestamente vocati alla carriera di intellettuali ma volenterosi, zelanti, davvero capaci di trarre profitto da lezioni su Aristotele, Shakespeare, Michelangelo, può apparire ingiusto, anche odioso.
La terza, la più importante, è che qualsiasi università ha tutto l’interesse ad avere – nei limiti (assai elastici) imposti dalle sue strutture, e dall’ampiezza del suo corpo docente – il maggior numero possibile di studenti, un po’ perché gli studenti pagano le tasse e un po’ (soprattutto) perché il ministero dell’Istruzione finanzia le università in proporzione al numero dei loro iscritti. Pochi studenti vogliono dire pochi soldi per aprire corsi di studio, assumere docenti, reclutare giovani ricercatori, organizzare congressi eccetera.
Questa spiegabile politica delle “porte aperte” ha il suo prezzo: a Lettere s’iscrivono molti studenti che non avrebbero bisogno di fare l’università ma di fare o rifare un buon liceo, e che – tra le altre cose – non sanno scrivere in italiano perché nessuno glielo ha mai insegnato.
Lo studente a cui ho dato 18 è uno dei tanti: nelle sue condizioni, o peggio, si trova la maggior parte degli studenti che s’iscrivono a Lettere. Bocciarli tutti? È quasi impossibile. (1) Perché bocciare a ripetizione la metà o più dei candidati all’esame di Letteratura italiana vorrebbe dire in pratica bloccare le carriere di decine e decine di studenti, con ovvie ripercussioni sulla vita dell’intero dipartimento. (2) Perché le università vengono premiate dal Ministero anche in ragione della rapidità con cui gli studenti concludono i loro studi, cioè arrivano alla tesi: vale a dire che le università sono fortemente motivate a licenziare in fretta i loro studenti, a non avere fuori-corso; e i docenti sono tacitamente invitati ad aderire a questa policy, nel loro stesso interesse. (3) Perché bocciare qualcuno perché non sa scrivere non è così facile. Abituati a “badare al contenuto e non alla forma”, molti studenti non riescono a capire perché io dia tanta importanza ai loro errori o alla loro sciatteria nello scrivere.
Se anche lo capiscono, se arrivano ad ammettere che la forma è importante, possono non capire perché ciò che scrivono non va bene, o possono obiettare che si tratta di errori veniali, di pura distrazione, che non giustificano la bocciatura. Offesi da questa ingiusta persecuzione, possono, a norma di regolamento, rivolgersi al rettore o al direttore di dipartimento per chiedere di fare l’esame (oralmente) con un altro docente della stessa materia. Supereranno l’esame, si laureeranno; e alcuni andranno a insegnare.
Tutta questa spiegazione per dire che una delle ragioni per cui gli studenti non sanno scrivere (insieme alla disaffezione alla lettura, al contagio del linguaggio affrettato degli sms e di Facebook, alla prevalenza del visivo sullo scritto, eccetera) è che non sanno scrivere molti dei laureati in Lettere che andranno a insegnare nelle scuole, laureati che non potranno ovviamente insegnare ad altri ciò che loro stessi non sanno fare.
Questo accade perché, come ho cercato di spiegare, tutti gli attori coinvolti (gli studenti, le famiglie, i docenti universitari, l’amministrazione universitaria) hanno interesse a far sì che le cose vadano in questo modo, ragion per cui non si vede proprio come sia possibile uscire da questa situazione, salvo un ripensamento complessivo della formazione scolastica e universitaria, con enormi investimenti e progetti di medio-lungo periodo che ignorino l’utilità immediata e le mode: niente che sia realistico aspettarsi (l’idea che, come recita il manifesto steso dal «Gruppo di Firenze per la scuola del merito e della responsabilità», la salvezza possa venire da «una revisione delle indicazioni nazionali che dia grande rilievo all’acquisizione delle competenze di base, fondamentali per tutti gli ambiti disciplinari» mi pare molto ingenua).
Oppure no? La soluzione potrebbe arrivare, sta già arrivando forse, da tutt’altra direzione, il nodo potrebbe essere tagliato anziché sciolto. Provo a spiegarmi.
La competenza nella scrittura, il saper scrivere decentemente, declina anche per una ragione molto semplice e concreta, una ragione che – magari inconsciamente – è ben chiara agli studenti che hanno fretta di laurearsi (e più ancora alle loro famiglie che li mantengono), e cioè che saper scrivere decentemente, alla fine, non è così importante. Lo era senz’altro nell’Epoca della Scarsità, quando coloro che avevano accesso alla sfera pubblica erano pochi, e soprattutto quando il sapere tecnico-scientifico era percepito come meno rilevante rispetto a quella infarinatura umanistica che dava accesso alle professioni di prestigio sia nel settore pubblico sia in quello privato, un’infarinatura della quale il saper scrivere non bene, magari, ma “elegante” costituiva una parte non secondaria (che poi l’elegante confliggesse spesso con il bene, onde l’atrocissimo bellettrismo italiano, è un altro discorso).
Era un saper scrivere che implicava, prima ancora della cura nello stile, la calligrafia (abolita come materia alle elementari nel 1985, quando Disegno e scrittura diventano Educazione all’immagine) e la consapevolezza di come andava strutturato un testo “ben fatto” (accapo, rientri, maiuscole, corsivi, formule protocollari ed escatocollari, eccetera).
Non è invece molto importante, saper scrivere, nell’Epoca dell’Abbondanza, quando ogni individuo ha infinite possibilità di scrivere e di essere letto da un pubblico infinitamente più ampio di quello sul quale potevano contare gli scrittori del passato. Dato che lo scrivere (e anche lo scrivere per un pubblico) è diventato un’attività ordinaria come parlare o come leggere, molti di coloro che scrivono sono indifferenti alle regole della buona forma, o non le hanno mai veramente imparate.
Per esempio. Scrivere direttamente al computer è una cosa tanto normale, per gli studenti di oggi, che far loro osservare che sarebbe meglio scrivere prima su carta, e solo in un secondo tempo passare alla “bella” sullo schermo, suona come una bizzarria. Di fatto, è una raccomandazione che faccio spesso ai miei studenti, ed è significativo che, come mi spiegano, nessun altro – genitore o insegnante – gliel’abbia mai fatta prima. Si pensa evidentemente che i “nativi digitali” siano così abituati al pc da essere in grado di scrivere direttamente su schermo: ma basta leggere quello che scrivono per capire che non è così. O meglio, basta leggere quello che scrivono se chi legge è in grado di distinguere una frase corretta da una frase scorretta, e una frase ben congegnata da una frase sbilenca: una competenza che, per le ragioni che ho detto, manca a molti insegnanti.
Ma non è che si scrive peggio perché si scrive di più, o più in fretta. Si scrive peggio soprattutto perché l’infarinatura umanistica che era tenuta in gran conto fino a qualche generazione fa è diventata secondaria, a fronte di altre competenze, o a fronte di niente, ed è per esempio perfettamente possibile entrare a far parte della “classe dirigente” senza aver letto dei libri e senza saper scrivere in italiano.
Il deputato Alessandro Di Battista (laurea al DAMS di Roma Tre), che aspira alla carica di Presidente del Consiglio, o perlomeno di ministro, critica durante la trasmissione televisiva DiMartedì (La7, 24 gennaio 2017), «coloro che hanno magari paura che potremo svelare alcune porcate reali e molto molto grandi che appunto inficiano lì, sulla carne dei cittadini italiani e sui diritti di tutti noi italiani».
Evidentemente, nella sua formazione, Di Battista non ha investito molto sull’italiano parlato e scritto. Gli si può dare torto, considerando la carriera che ha fatto? E del resto: quale messaggio, quale idea di formazione trapela dal progetto di Alternanza Scuola-Lavoro, che sostituisce alcune decine di ore curricolari con esperienze lavorative all’interno di aziende o uffici pubblici?
Se davvero fossimo convinti che studiare con serietà e continuità discipline come l’italiano o la storia o la biologia o la matematica è il modo migliore per crescere e per trovarsi un lavoro, accetteremmo davvero di farci rosicchiare il tempo-scuola dalla gita d’istruzione, dal Campus sulla Legalità, dalla Settimana della Cittadinanza, dalla Giornata della Memoria, dallo stage in biblioteca?
Càpita che la devozione continui anche molto tempo dopo che il dio che si prega è morto.
Mancando, per così dire, la domanda sociale del prodotto, non c’è dunque neppure ragione di coltivarlo, ovvero non c’è ragione per non accontentarsi di un prodotto meno curato, e insomma di testi brutti, ma comunque comprensibili, anziché di testi ben scritti. Non coltivando il prodotto, non si coltiva neppure la sensibilità idonea ad apprezzarlo, ed ecco che non solo si fanno errori che passano inosservati tanto a chi scrive quanto a chi legge (cinquantenario dell’alluvione di Firenze, cartello commemorativo: gli “angeli del fango” salvarono il patrimonio artistico della città «lavorando giorno e notte in condizioni affatto favorevoli»), ma si generalizza anche il vizio italianissimo della “eleganza”, della parola scelta là dove starebbe meglio la parola comune (stazione di Firenze: «Discendere dal lato opposto», anziché scendere), si adoperano a casaccio le preposizioni (articolo del noto giornalista X: «Ho avuto come un soprassalto a trovare… Una mattina mi telefonò a offrirmi un contratto… Una malattia contro cui non c’è scampo»), si usano a sproposito le locuzioni idiomatiche (pagina di un manuale scolastico: «Angelica cadde a gambe levate»), e più in generale, senza che la sciatteria comporti veri e propri errori, si scrive male, e si accettano testi scritti male, anche là dove, data la sede, ci si aspetterebbe un po’ di cura.
Alla cattiva scrittura corrisponde un cattivo contenuto? Non è detto: l’articolo del noto giornalista X che ho appena citato è mal scritto, ma contiene osservazioni interessanti. Del resto, scrivere per il web (il giornalista X scrive per il web) non è come scrivere un articolo per un giornale di carta, e scrivere un articolo per un giornale di carta non è come scrivere un libro: è comprensibile che l’attenzione e la cura aumentino progressivamente, dal primo all’ultimo passaggio, a mano a mano che aumentano il tempo d’esecuzione e l’ipotetica “durata” del testo.
È un fatto però che la gran parte dei testi che si scrivono e si leggono oggi si scrivono e si leggono direttamente su uno schermo. Il 18 gennaio 2017, sul quotidiano che riportava con grande evidenza l’appello allarmato dei «600 professori» sugli studenti che non sanno scrivere, ho letto questo titolo: «40 anni fa la morte di Re Cecconi, l’eroe della Lazio ucciso perché confuso per un ladro».
A parte il misterioso epiteto di eroe (perché mai?), chi ha scritto il titolo non sa, evidentemente, che si può dire “preso per un ladro”, ma non si può dire “confuso per un ladro”. È il genere di errore che anni fa sarebbe stato inconcepibile, sulle pagine di un grande giornale. Ma oggi, in rete, i titoli cambiano ogni cinque minuti, e semplicemente non c’è tempo per verificare tutto, e non è economico farlo: i lettori e gli abbonati non diminuiscono per una preposizione sbagliata, dunque non sono cose per le quali abbia senso darsi molta pena.
Su un altro più decisivo piano, la tendenza, anche nelle scuole, ad affidarsi sempre più spesso all’ebook o alla rete, abolendo o marginalizzando i libri di testo, e obliterando così quella distinzione tra, in breve, libro di carta autorevole e testi effimeri da consumarsi su schermo (notizie, giochi, email, video), una distinzione che molti si sono sforzati di conservare in questa primissima età del web, questa tendenza non sembra poter avere se non un’influenza negativa sulla qualità media dell’espressione scritta dei futuri adulti.
Questo non vuol dire che saper scrivere bene non possa restare, per alcuni, un traguardo da raggiungere, e un requisito da parte di datori di lavoro particolarmente esigenti; ma, parlando sempre di medie e non di picchi, di scriventi e non di scrittori, sono del parere che in futuro diventerà qualcosa di simile a una bella virtù privata, come saper dipingere o cantare bene. Ma perché parlare di futuro? Per molti versi, come mostrano gli esempi che ho citato, è già così. E il sole non ha smesso di sorgere, direbbero gli ottimisti: senza avere tutti i torti.