Abstract: scienza e cristianesimo a difesa della persona umana. Per gentile concessione degli organizzatori ampi stralci dell’intervento tenuto ieri da George Weigel per il convegno «Jérôme Lejeune e le sfide della bioetica nel XXI secolo», coordinato a Roma dalla Cattedra internazionale di bioetica Jérôme Lejeune. Il biografo ufficiale di San Giovanni Paolo II ripercorre i passaggi fondamentali del rapporto tra il santo pontefice e il genetista francese (1926-1994), celebre per aver scoperto la causa della sindrome di Down, mettendo in luce il loro comune impegno, derivante da profonde radici filosofiche e scientifiche, in difesa della vita umana dal concepimento alla fine naturale. «Due vite», per citare il titolo del panel, «a servizio della Vita»
La Verità Domenica 19 Maggio 2024
Giovanni Paolo II e Lejeune. Scienza e
cristianesimo a difesa della persona umana
Il biografo di Karol Wojtyla racconta quanto il Papa polacco fosse stato influenzato dalle ricerche del luminare francese: «La genetica conferma l’unicità di ogni uomo»
di George Weigel
Pubblichiamo per gentile concessione degli organizzatori ampi stralci dell’intervento tenuto ieri da George Weigel per il convegno «Jérôme Lejeune e le sfide della bioetica nel XXI secolo», coordinato a Roma dalla Cattedra internazionale di bioetica Jérôme Lejeune. Il biografo ufficiale di San Giovanni Paolo II ripercorre i passaggi fondamentali del rapporto tra il santo pontefice e il genetista francese (1926-1994), celebre per aver scoperto la causa della sindrome di Down, mettendo in luce il loro comune impegno, derivante da profonde radici filosofiche e scientifiche, in difesa della vita umana dal concepimento alla fine naturale. «Due vite», per citare il titolo del panel, «a servizio della Vita»
Molti dei partecipanti a questa conferenza, esperti della vita e del pensiero di un grande uomo di scienza e un grande uomo di fede, il venerabile Jérôme Lejeune. Io non lo sono . Ma, in quanto biografo di papa Giovanni Paolo II, so qualcosa di quel discepolo esemplare e pensatre potente, e so che questo grande santo aveva la massina stima di Jérôme Lejeune.
[…] Sappiamo della gratitudine di Giovanni Paolo II verso il lavoro del dottor Lejeune a e per l’Accademia pontificia per la vita, di cui Lejeune era il president fondatore. Sappiamo della gratitudine di Giovanni Paolo II per il convinto impegno del dottor Lejeune in difesa dei non nati a cui ha portato un’autorità eccezionale, dati I risultati da lui raggiunti come uno dei più importanti scienziatiziati della vita al mondo.
Sappiamo del loro confronto durante il pranzo del 13 maggio 1981, in cui discussero delle minacce alla famiglia che Giovanni Paolo II ha cercato di affrontare attraverso la creazione del Pontificio consiglio per la famiglia, collegando la difesa della famiglia alla difesa della vita in tutte le fasi e in tutte le condizioni.
Sappiamo che Giovanni Paolo chiese al dottor Lejeune di guidare la delegazione della Santa Sede che andò a Mosca dopo la morte del leader sovietico Yuri Andropov: un grande difensore internazionale della vita che rappresentava il Papa al funerale di un uomo che, come leader della polizia segreta sovietica, il Kgb, incarnava l’indifferenza del comunismo nei confronti della santità della vita. […]
E ricordiamo la visita di Giovanni Paolo alla tomba del dottor Lejeune: un amico che ringraziava Dio per le grazie che hanno abbondato nella vita dell’altro, raccomandando quell’amico alla misericordia divina – e infine cantando il «Salve, Regina» con la famiglia Lejeune
Ma sapere tutto questo, benché edificante, significa in qualche modo rimanere sulla superficie delle cose. È importante quindi scavare più a fondo per cogliere l’essenza di questi due uomini e della loro relazione.
A tal proposito, mi viene in mente una conversazione che ho avuto alla fine degli anni Novanta con l’allora cardinale Joseph Ratzinger. Sapevo che il cardinale, contrariamente alla malevola caricatura di lui che imperversava sulla stampa mondiale, aveva un grande senso dell’umorismo. Così iniziai la nostra conversazione quel giorno prendendolo in giro per una foto che avevo visto di lui, scattata alla fine degli anni Sessanta, in cui indossava una cravatta molto larga al posto del suo colletto clericale. Il prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede rise e disse: «Vedi, è come ha insegnato il Santo Padre in Fides et ratio: dobbiamo passare dal fenomeno al suo fondamento!
Quindi seguiamo la prescrizione di Giovanni Paolo II in Fides et ratio e passiamo dal «fenomeno» al «fondamento» […].
Durante i suoi anni alla facoltà di Lublino, Karol Wojtyla teneva annualmente un approfondito esame di un particolare filosofo o gruppo di filosofi, all’interno di un seminario per gli studenti universitari. In quel seminario del 1956-57, Wojtyla e i suoi studenti più avanzati analizzarono attentamente le filosofie di David Hume e Jeremy Bentham […].
Il risultato finale dello scetticismo di principio di Hume sulla capacità degli esseri umani di conoscere con certezza la verità di qualsiasi qualcosa, Wojtyla concluse, era quello di creare una profonda spaccatura tra moralità e realtà, tale che la vita morale scivolò ine vitabilmente in una nebbia di soggettività radicale. E il risultato di tale deriva, in Bentham, era l’utilitarismo: l’utilità, non la dignità, sarebbe stata la misura dell’uomo e la misura del bene. […]
Il professor Wojyla e i suoi studenti, da una piccola università cattolica situata in una parte oscura della Polonia, stavano guardando oltre trent’anni avanti nel futuro postcomunista – un futuro che nessun altro sembrava in grado di immaginare, data la soffocante nebbia culturale della vita comunista.
E facendo ciò, stavano iniziando a esplorare il terreno intellettuale della successiva lotta in difesa della dignità umana e della santità della vita: la lotta per difendere intellettualmente, e incarnare sia nella cultura che nellalegge, la dignità inalienabile e il valore infinito di ogni vita umana, dal concepimento fino alla morte naturale.
Anche in mezzo alla piaga comunista, Wojtyla e i suoi studenti, nell’«unico luogo tra Berlino e Seoul dove la filosofia fosse libera» […], stavano leggendo filosofi britannici relativamente sconosciuti in Polonia e analizzando la minaccia per il futuro umano che sarebbe sorta se il loro pensiero fosse penetrato nella cultura, nella società, nella politica e nell’economia. Karol Wojtyla portava con sé questa preoccupazione – che la dignità umana e la santità della vita sarebbero state in grave pericolo se un’etica utilitaristica, il prodotto del nichilismo metafisico e dello scetticismo epistemologico, avesse prevalso – al Concilio Vaticano II e oltre.
Così, nel 1968, scrisse a un altro amico francese, il gesuita Henri de ubac – con il quale aveva collaborato nella preparazione del testo definitivo di quella che sarebbe divenuta la Gaudium et Spes, la Costituzione pastorale sulla Chiesa nel mondo moderno -, riguardo al lavoro intellettuale in cui era allora impegnato in mezzo al suo fitto programma di attività pastorali: «Dedico i miei rari momenti liberi a un lavoro che mi sta molto a cuore riguardo al senso metafisico e al mistero della persona. Mi pare che il dibattito di oggi si stia giocando a quel livello. Il male del nostro tempo consiste anzitutto in una sorta di degradazione, anzi di polverizzazione, dell’unicità fondamentale di ogni persona umana. Questo male è molto più di ordine metafisico che morale. A questa disintegrazione talvolta pianificata dalle ideologie atee dobbiamo opporre, anziché polemiche sterili, una sorta di “riepilogo” del mistero inviolabile della persona».
Qui, suggerisco, siamo arrivati al «fondamento» del «fenomeno» di «due vite al servizio della vita» – un fondamento costruito su una grande convinzione, una penetrante analisi e due fermi impegni: primo, la convinzione che ci siano verità inscritte nel mondo e dentro di noi, verità che possiamo conoscere sia con la ragione filosofica sia con quella scientifica, in un processo di ricerca che può essere facilitato dalla frequentazione della rivelazione divina; secondo, una chiara lettura dei segni di questi tempi, in cui l’umanità stava mettendo se stessa in grave pericolo perdendo la presa su quelle verità, e in particolare la verità che ogni vita umana non è solo un aggregato di materiali biologici, ma piuttosto la vita di una persona, un essere spirituale con un valore infinito e un destino eterno; terzo, un impegno saldo a difendere l’unicità di ogni vita umana, in qualsiasi condizione e a qualsiasi stadio di sviluppo; e quarto, un impegno altrettanto saldo ad allestire quella difesa della vita in termini che potessero coinvolgere coloro che stavano perdendo la presa sulle verità inscritte nella natura e in noi.
Il dottor Lejeune aveva dato voce a questo quarto impegno nella sua straordinaria testimonianza davanti a una commissione del Senato degli Stati Uniti il 23 aprile 1981. In quell’occasione, descrisse in un linguaggio accessibile la genetica del principio della vita umana […].
Poi spiegò come la costituzione genetica di ogni persona umana sia unica e non replicabile. Infine, ne trasse l’ovvia conclusion scientifica: «Accettare il fatto che dopo la fecondazione sia venuto all’esistenza un nuovon essere umano non è più una questione di gusto o di opinione. La natura umana dell’essere umano, dal concepimento fino all’età della vecchiaia, non è un’ipotesi metafisica ma, piuttosto, un fatto ovvio del l’esperienza».
Giovanni Paolo II trasse le chiare conclusioni morali da quel fatto scientifico quando, nell’enciclica Evangelium Vitae, insegnò il principio generale che la diretta e deliberata soppressione di qualsiasi vita umana innocente è sempre gravemente immorale, e poi applicò quel principio generale a un rifiuto di principio dell’aborto e dell’eutanasia, in qualsiasi circostanza.
Una società giusta e correttamente ordinata, insegnava Giovanni Paolo, riconoscerà sia il fatto scientifico sia la conclusione morale e, pertanto, garantirà protezione legale alla vita umana in tutte le sue fasi e in tutte le sue circostanze, fornendo contemporaneamente cure compassionevoli per coloro che affrontano gravidanze in situazioni di crisi e coloro che si trovano di fronte a malattie terminali.
Jérôme Lejeun e Giovanni Paolo II compresero che queste non sono verità accessibili soltanto ai cattolici. Non è richiesto il dono della fede per afferrare che la vita umana inizia con il concepimento e che la dignità di quella vita non viene diminuita dalla debolezza, dalla disabilità o dalle malattie terminali. Non è richiesto il dono della fede per capire che una società giusta si prenderàcura della vita innocente nella cultura e la proteggerà nella legge. Perciò la Chiesa può sostenere il diritto alla vita dal concepimento fino alla morte naturale su basi che ogni persona moralmente seria può comprendere.
Pare dolorosamente ovvio che, negli anni trascorsi dalla morte di queste due grandi anime che hanno dedicato le loro esistenze al servizio della vita, le minacce alla dignità umana e alla santità della vita a cui Jérôme Lejeun e Giovanni Paolo II si sono sforzati così strenuamente di resistere si sono intensificate, come avete discusso in questi ultimi due giorni. […]
Per decenni l’Accademia e l’Istituto Giovanni Paolo II hanno svolto un lavoro creativo e innovative nello sviluppo di una teologia morale cattolica e di una pratica pastorale in grado di affrontare la sfida degli attacchi del XXI secolo alla dignità e alla santità della vita – e lo hanno fatto con modalità che chiamavano alla conversione le varie espressioni della cultura della morte […].
Eppure ora l’Accademia ha pubblicato un libro dal titolo ironico, La gioia della vita, i cui autori sono teologi che possono essere onestamente descritti solo come dissidenti rispetto all’insegnamento autorevole di Evangelium Vitae. Quel libro non solo indebolisce la posizione cattolica per una cultura della vita che rifiuta i gravi crimini contro di essa identificati da Evangelium Vitae.
Lo fa in termini di un’antropologia antibiblica e antimetafisica che sarebbe stata completamente estranea, anzi abborrita, sia a Jérôme Lejeune che a Giovanni Paolo II.
E mentre l’Accademia Pontificia per la vita tradisce il suo presidente fondatore, il Dr. Lejeune, pubblicando un libro così male informato e poco argomentato, così anche il ricostituito Istituto Giovanni Paolo II, ora in gran parte privo di studenti, tradisce l’intenzione del santo e studioso che lo ha fondato e che ha richiamato la teologia morale cattolica a un rinnovamento che non si sarebbe arreso al Zeitgeist, lo spirito del tempo, ma piuttosto lo avrebbe convertito alla retta ragione, alla vera compassione e al nobile esercizio della libertà.
Noi possiamo sperare e pregare affinché le eroiche virtù di Jérôme Lejeune siano ufficialmente riconosciute dalla Chiesa, in modo che possa unirsi al suo amico, Giovanni Paolo II, tra le schiere dei beati e dei santi. Se ciò accadrà, sarà perché la Chiesa si è convinta che queste due vite al servizio della vita siano state vissute da coraggiosi uomini di fede e di ragione, i quali sapevano che la verità ci rende liberi nel più profondo significato della libertà – e che dare testimonianza alla verità ci chiama a essere, quando necessario, segni di contraddizione, come lo stesso Signore Gesù.
(traduzione di Matteo Lorenzi)
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Leggi anche:
L’embrione segno di contraddizione (di Jérome Lejeune) – libro
La Evangelium vitae e il passaggio dal paradigma metafisico al paradigma ermeneutico.