Documento approvato in assemblea il 16 maggio 2011 sulle norme in materia di consenso informato e dichiarazioni anticipate di trattamento
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Le disposizioni di esso riguardanti i trattamenti sanitari di fine-vita, nonostante il solenne preambolo all’art. 1, a nostro giudizio, non offrono, in realtà, alcuna garanzia di efficace contrasto nei confronti di condotte mediche di tipo eutanasico o di interpretazioni giudiziarie distorte e/o ingiuste.
In particolare si evidenzia che:
1. le Dichiarazioni Anticipate di Trattamento, pensate per difendere la dignità delle persone negli stadi terminali della loro vita o nelle condizioni di estrema fragilità perché incapaci di intendere e di volere, sono uno strumento intrinsecamente inadeguato a tale scopo, se non addirittura inutile e pericoloso, perché il consenso alle cure, con esse espresso, non può mai essere realmente “informato”, in quanto proviene da soggetto che non conosce la particolare condizione sanitaria in cui potrebbe trovarsi in futuro, né è in grado di comprendere e valutare con cognizione di causa le innumerevoli e imprevedibili situazioni in cui potrebbe versare e di fronte alle quali cambiare radicalmente il suo giudizio.
Dunque, le D.A.T., in quanto redatte “ora”, in normali condizione di salute, per avere efficacia “allora”, in un’ eventuale situazione futura radicalmente diversa, non possono avere alcun effetto giuridico vincolante perché non vi è alcuna certezza che rispecchino l’effettiva volontà dell’incapace al momento in cui si verifica l’evento.
2. Il testo normativo è improntato alla regola generale secondo cui, salvo limitate e rigorose eccezioni, non sia possibile attivare nessun atto medico senza il previo esplicito consenso del paziente, ma (v. art. 2 c. 1; art. 2 c. 2) enfatizza oltre il dovuto un (astratto) principio di “autodeterminazione” del paziente, la cui incidenza, nella prassi, è molto marginale, affidandosi, piuttosto, il malato al buon consiglio dello specialista, e rischia di ledere l’autonomia professionale del medico il quale dovrebbe sentirsi sempre libero di seguire scelte coerenti con i valori della propria professione. Il ddl in esame, dunque, intacca l’imprescindibile alleanza terapeutica, costitutiva della relazione medico-paziente, già ampiamente messa in crisi dalla giurisprudenza, aprendola prevedibilmente all’abbandono terapeutico nei confronti dei soggetti più fragili.
3. L’art. 2 c. 5 del testo riconosce paziente la facoltà insindacabile di revocare in qualsiasi momento il consenso informato, così recependo integralmente quanto sancito dall’art. 5 c. 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo e la biomedicina (Conv. di Oviedo – 4.04.1997), che ancora non è stata ratificata dal nostro ordinamento e che pertanto, “pur avendo una funzione ausiliaria sul piano ermeneutico”, non ha un’ immediata e diretta efficacia e “dovrà cedere di fronte a norme interne contrarie” (Cfr. Cass. n. 21748 – caso Englaro).
Questa disposizione, pertanto, andrebbe a mutare il quadro normativo, svuotando del tutto l’art. 579 c.p. più volte richiamato (sic!) che, invece, punisce la condotta di colui che coopera causalmente alla decisione del paziente di sospendere il trattamento che lo sostiene in vita. L’uccisione della persona consenziente non sarebbe più punibile e i futuri casi come quello di Welby, che richiese ai medici che gli fosse disattivato il respiratore, non porterebbero neppure all’apertura di un fascicolo da parte della Procura per il reato previsto e punito all’art. 579 c.p..
Ciò equivarrebbe a legalizzare l’eutanasia – della quale, non a caso, non viene data alcuna definizione nel DDL – purchè praticata in ospedale. Ma è facile intravedere un ampliamento della platea di coloro che, obbedendo alla richiesta del malato, senza correre alcun rischio, lo “accontenteranno”.
4. Nel testo, per quanto riguarda la relazione di cura “medico-paziente”, non ci si attiene alla sua originaria vocazione (guarire, curare, non nuocere), richiedendosi al “medico curante” (art. 2 c. 2; art. 4 c. 1 e 2), un coinvolgimento personale e professionale, fonte di eventuale responsabilità giuridica, oltre che morale, nella redazione delle D.A.T., ben al di là delle (ed a prescindere dalle) sue specifiche competenze. La procedura prevista, difficilmente qualificabile come “atto medico”, non contempla la facoltà del medico di astenersi dall’obbligo di ricevere le D.A.T. come tali (“clausola di coscienza”).
In ogni caso, lasciando del tutto indeterminati i contenuti che il medico potrebbe rifiutarsi di accogliere, fa prevedere una disomogeneità di interpretazioni ed impone al sanitario un compito informativo improbo, stante la molteplicità dei possibili trattamenti, degli scenari e della loro combinazione.
Si prospetta così una prassi connotata da un mero recepimento formale delle disposizioni da parte dei medici. Rimaniamo, invece, convinti che l’unica strada da perseguire sia quella di una “Pianificazione Progressiva della Cure”, in cui sia mantenuto un contesto di attualità della malattia e in cui, solo all’interno della relazione di cura fra quel medico, specificamente competente su quel “caso” concreto, e quel paziente, quest’ultimo possa realmente essere accompagnato nelle fasi della sua malattia ad acconsentire liberamente e consapevolmente ai trattamenti sanitari suggeriti.
5. Sempre sullo stesso versante, si introduce una figura ibrida, (il “fiduciario”, art. 6), a cui non è richiesta alcuna competenza specifica, quale unico soggetto abilitato ad interloquire con il medico, il quale è tenuto ad agire per un, non meglio precisato, “esclusivo e migliore interesse”(!?) del paziente, e che, addirittura, dovrebbe “vigilare” perché vengano somministrate le “migliori” (!?) terapie disponibili…; una specie di “guardiano” che, senza avere alcuna competenza, ha il compito di sorvegliare l’operato dei medici per evitare ciò che egli ritenga essere “accanimento” o “abbandono terapeutico”.
6. Si intende disciplinare la condotta del medico richiamando concetti di straordinarietà delle cure (art. 1 lett. f) , di accanimento terapeutico (art. 6 c. 3), o, a proposito del suo ruolo nella valutazione delle indicazioni contenute nelle D.A.T. (art. 7 c. 1), i criteri di “precauzione, proporzionalità e prudenza”, senza mai specificarne il significato, in coerenza con l’ordinamento giuridico vigente e i codici deontologici professionali .
7. Si introduce, nell’ ipotesi di contrasto tra il medico curante ed il fiduciario o gli altri soggetti parimenti legittimati ad esprimere il consenso per la persona incapace (tutore, curatore, amministratore di sostegno), un complicato procedimento di valutazione da parte di un collegio di medici, nel primo caso (art. 7 c. 3), o da parte del giudice, nel secondo (art. 8), dal quale dovrebbe scaturire, alla fine, la “corretta” interpretazione della volontà del paziente, oppure ciò che è “meglio” per esso, espressa in un documento che potrà, tuttavia, essere sempre impugnato davanti all’autorità giudiziaria.
8. Da ultimo, non si tiene debitamente conto che, nella valutazione e interpretazione delle D.A.T. da parte del medico curante, anche la coscienza del medico potrebbe essere condizionata dalla mentalità eutanasica o, comunque, essere incapace di opporsi a dichiarazioni velatamente eutanasiche espresse dal dichiarante e, in questi casi, quel medico troverebbe nella legge stessa la garanzia di impunità della sua condotta consenziente.
Nel complesso, dunque, il testo in discussione non solo è gravemente insufficiente a garantire quel favor vitae che, nelle sue intenzioni, il legislatore vorrebbe riaffermare con vigore, ma addirittura introduce surrettiziamente una norma che legalizza l’eutanasia. Si vuol ricordare, a questo proposito, l’incipit della L. 194/1978: “Lo Stato garantisce il diritto alla procreazione cosciente e responsabile, riconosce il valore sociale della maternità e tutela la vita umana dal suo inizio”, per ribadire che non bastano le migliori solenni affermazioni per evitare che una legge oggettivamente equivocabile, ridondante e piena di rimandi, produca effetti del tutto opposti a quelli desiderati. Inoltre, è noto a tutti che la L. 40/04, concepita secondo le migliori intenzioni ma stravolta da vari interventi della magistratura, è rimasta praticamente lettera morta per quanto riguarda la tutela giuridica del concepito.
Pertanto, Scienza & Vita di Pisa e Livorno auspica una profonda revisione del testo legislativo affinché sia efficacemente, e non solo come mero enunciato formale, protetto e rafforzato il principio – radicato nell’ordinamento ma indebolito da una parte della giurisprudenza – dell’ “indisponibilità della vita umana” e ritiene che debba essere comunque abbandonata la strada scivolosa del riconoscimento giuridico delle Dichiarazioni Anticipate di Trattamento
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RIFLESSIONI SULLE D.A.T. A UN PASSO DALLA LEGGE
di Aldo Ciappi
(presidente dell’Associazione Scienza & Vita Pisa-Livorno)
Scienza e vita di Pisa e Livorno, associazione che riunisce le due città sotto la bandiera della comune difesa delle vita più debole, in occasione dell’ultima assemblea del 14 maggio scorso ha analizzato, sotto gli aspetti medici, etici e giuridici, il testo del disegno di legge sulle dichiarazioni anticipate di trattamento, uscito dal Senato e prossimamente in discussione alla Camera, ed ha elaborato un documento che ha messo in evidenza alcuni punti critici di esso che potrebbero portare ad un grave indebolimento del quadro normativo vigente a tutela del principio di indisponibilità della vita, nonostante gli espressi richiami a tale principio.
In particolare, gli appunti mossi riguardano la volontà del testo in questione di dare una rilevanza giuridica a dichiarazioni redatte da un soggetto quando versa in normali condizioni di salute per aver efficacia nell’ipotesi in cui lo stesso soggetto si trovasse in futuro in uno stato di incapacità tale da non poter esprimere il proprio consenso (o dissenso) ad un trattamento che potrebbe salvargli la vita.
Devono far riflettere il recente caso accaduto in Italia di Silvie Menard, medico oncologo all’Istituto Tumori di Milano, che aveva manifestato la volontà di non essere sottoposta a trattamenti invasivi e che, dopo aver contratto un tumore, ha cambiato radicalmente parere, oppure quello documentato di una signora di 60 anni asmatica (http://www.webmm.ahrq.gov/case.aspx?caseID=25) la quale, durante una grave crisi aveva chiesto al medico internista, se fosse peggiorata, di non voler essere né intubata né rianimata.
Per una mera casualità non venne compilata la relativa scheda con il codice DNR, per cui, verificandosi un arresto cardiaco, ma non essendo recepite in cartella le volontà della paziente, i medici praticarono la rianimazione ed essa si riprese. Ristabilitasi, il giorno dopo riferirà di non avere realizzato che l’intubazione poteva essere una misura temporanea né che la rianimazione avrebbe potuto avere successo e sceglierà per sé il “code full” per eventuali futuri episodi.
Questi casi mettono in luce come tale strumento in sé non sia adatto a rappresentare la volontà di chi si trovasse poi effettivamente in una certa condizione solo astrattamente ipotizzata. Le D.A.T. dunque, quando anche non contenessero disposizioni di tipo suicidario vincolanti per il medico, cosa attualmente impedita dall’art. 579 cod. pen. (“omicidio del consenziente”), sono intrinsecamente inadatte a costituire un consenso “a futura memoria” realmente “informato” del soggetto sui trattamenti più idonei per la sua salute qualora si verificasse una condizione di incapacità di decidere.
Infatti, per essere valido e vincolante, il consenso (o il rifiuto) “informato” del malato a sottoporsi ad un certo trattamento sanitario deve essere necessariamente contestuale, come affermato dalla normativa in vigore e dalla giurisprudenza della Cassazione.
Pertanto, questo testo in discussione alla Camera, molto contorto in alcuni suoi passaggi perché frutto di un assemblaggio di più disegni di legge eterogenei tra loro, non appare affatto in grado di assicurare quell’auspicata protezione normativa dei soggetti più deboli di fronte a futuri casi “Englaro, come, ad esempio, nel caso in cui vi fossero dichiarazioni, inevitabilmente generiche, che negassero al medico di applicare alcuni trattamenti sebbene potenzialmente in grado di salvare la vita alla persona incapace.
Il risultato di ciò, qualora passasse il cd. “DDL Calabrò”, sarebbe un ulteriore scivolamento verso una medicina di tipo “difensivo” che finirebbe col relegare in una condizione di sostanziale abbandono terapeutico coloro che hanno redatto le D.A.T. rispetto alla generalità degli altri pazienti nei cui confronti continuerebbe a valere il generale principio di beneficialità delle cure mediche con il solo limite del cd. “accanimento” terapeutico, ampiamente sanzionato dal codice deontologico della professione medica.