Il Borghese anno XV – n. 12, Roma dicembre 2015
Servizi pubblici essenziali
di Giuseppe Brienza
È un dibattito lungo quello sulla necessità di porre regole ben precise per l’esercizio del diritto di sciopero nei servizi pubblici essenziali, che dura almeno da quando è in vigore la Costituzione repubblicana. È di recente (per fortuna!) ritornato all’attenzione con il disegno di legge n. 2006, presentato dal giuslavorista Pietro Ichino (Pd) ed altri 24 senatori appartenenti alla maggioranza, depositato alla Presidenza di Palazzo Madama il 14 luglio 2015. Per ora è limitato al settore dei trasporti pubblici e s’intitola Disposizioni per la regolazione del conflitto sindacale nel settore dei trasporti pubblici e integrazione della disciplina generale dell’assemblea sindacale (il suo contenuto riprende in gran parte quello di analogo ddl presentato nella XVI legislatura, n. 1409/2009).
Nel tentare di allineare la nostra disciplina a quella vigente da tempo in Germania e in Gran Bretagna, tale proposta parte da un dato di fatto: nel settore dei servizi pubblici, a causa dell’eccessivamente misurato intervento legislativo del 1990, la pratica dello “sciopero selvaggio” è rimasta frequente da parte della maggioranza delle attuali sigle sindacali.
In particolare, è dagli anni ’80 e ‘90 che, la proliferazione di sindacati nel settore dei trasporti, ha condotto ad un uso costante e spregiudicato dello sciopero, con conseguente e grave danno della popolazione, nonostante spesso il radicamento associativo delle varie sigle sia spesso minoritario e le loro dimensioni organizzative modeste.
Come si rileva nella relazione di accompagnamento al disegno di legge Ichino, «soprattutto dove il servizio di trasporto pubblico è gestito in regime di sostanziale monopolio, è venuta affermandosi una vera e propria cultura dello sciopero come routine: si considera normale che il servizio venga interrotto una o persino due volte al mese (questo è quanto accade da molti anni, per esempio, nel settore dei trasporti pubblici municipali)».
L’articolo 2 del disegno di legge n. 2006, quindi, pone come prima condizione per la possibilità, da parte di una sigla, di proclamare lo sciopero in uno qualsiasi dei settori del trasporto pubblico: a) la rappresentatività maggioritaria, riferita ai dipendenti della specifica azienda, del sindacato o della coalizione sindacale che intende indire lo sciopero, oppure, in alternativa, b) il voto favorevole allo sciopero espresso, mediante un apposito referendum, dalla maggioranza dei lavoratori interessati.
Il requisito di cui alla lettera a) presuppone, per poter essere soddisfatto, di due ulteriori condizioni non sempre rispettate nel settore: 1) che nell’azienda o unità produttiva sia in vigore un sistema di elezione delle rappresentanze sindacali che veda coinvolta la generalità dei lavoratori; 2) che una consultazione elettorale si sia svolta entro l’ultimo triennio. L’articolo 4 stabilisce invece sacrosante disposizioni volte a evitare un arricchimento indebito dei gestori dei servizi di trasporto, nei periodi di sciopero, a danno degli utenti.
Il ddl Ichino, insomma, se approvato, potrebbe aprire un “piano inclinato” che, forse, potrebbe agevolare un percorso che garantisca, più e meglio di quanto finora fatto, l’esercizio del diritto di sciopero da parte dei lavoratori nel settore pubblico rendendolo compatibile con il servizio essenziale al quale lo Stato, sia direttamente sia indirettamente, è tenuto a garantire ai propri cittadini. Parliamo quindi di allargare l’ottica di intervento a quegli altri settori che hanno un impatto sociale nazionale, quali ad esempio sanità, giustizia, istruzione, sicurezza e pubblica amministrazione. In tutti questi comparti, infatti, l’esercizio del diritto di sciopero, pena l’interesse pubblico, dovrebbe essere esercitato con la maggiore parsimonia possibile.
Lasciare le cose così come sono, con scioperi che penalizzano ulteriormente l’efficacia/efficienza ed economicità dei citati servizi istituzionali è un “lusso” che non possiamo più permetterci. Il problema è storicamente stato all’attenzione della migliore Destra nazionale fin dai primordi dell’attuale sistema sindacatocratico. Una sorta di “antefatto” del dibattito attuale, infatti, è stata oltre sessant’anni fa la proposta di una regolamentazione legislativa del diritto di sciopero promossa dal movimento civico-culturale Civilità Italica che, fra il 1950 ed il 1951, si adoperò, in “sponda” all’allora ministro democristiano Achille Marazza (1894-1967), per finalizzare un progetto di legge regolamentativo dello sciopero. Approvato dal Consiglio dei Ministri durante il sesto gabinetto De Gasperi (gennaio 1950-luglio 1951), tale progetto si arenò in seguito, e non fu più discusso in Parlamento a causa della forte opposizione delle sinistre parlamentari e sindacali.
Nel saggio pubblicato nel 1951 sulla rivista del movimento d’ispirazione cattolica e anti-comunista, l’avv. Marazza, che era allora Ministro del Lavoro e della Previdenza sociale, obbiettò polemicamente a tutti «quei sindacalisti che respingono ogni disciplina del diritto di sciopero», innanzitutto perché la Costituzione che pochi anni prima aveva elaborato anche lui aveva sancito un «[…] diritto di sciopero e non una libertà di sciopero». Per questo motivo, aggiungeva Marazza, «[…] l’esercizio dello sciopero non può non essere giuridicamente disciplinato. Naturalmente il legislatore sindacale non potrà prevedere, pena l’incostituzionalità, istituti o procedimenti che riescano praticamente a menomare o addirittura a sopprimere tale diritto dei lavoratori. Tocca pertanto al legislatore fissare i limiti entro i quali lo sciopero possa svolgersi, mantenendo il suo carattere di lotta economica: e nell’affermare la necessità di vietare lo sciopero con fine politico appare opportuno determinare i casi in cui lo sciopero diventa legittimo per fini contrattuali» (Problemi della legge sindacale, in Civiltà Italica. Mensile di studi politici economici sociali, anno I, n. 5 – 1° dicembre 1950, pp. 341-348).
Per prevenire i disservizi, il disordine e gli scioperi selvaggi, assieme al fenomeno connesso dei sindacalisti politicizzati, sarebbe anche indifferibile una legge nazionale dedicata ai doveri sindacali. E non blateriamo di “pericoli alla democrazia” perché si tratta di un modello già adottato, per esempio, da una consolidata patria di libertà come la Gran Bretagna. Nel Regno Unito un organo pubblico, il Government Certification Officer, ha per esempio il compito di tenere ufficialmente gli elenchi degli iscritti a sindacati e associazioni datoriali, assicurandosi che non agiscano in frode né l’uno verso l’altro né all’interno della loro stessa organizzazione rispetto ai loro iscritti, e infine di esercitare il diritto di accesso ai loro bilanci e conti patrimoniali.
Ha scritto al proposito Oscar Giannino, «Annualmente, grazie al Certification Officer, i lavoratori e i cittadini britannici sanno tutto delle retribuzioni di centinaia di sindacalisti, territoriali e nazionali, di ogni categoria e incarico… Oltre ai compensi sindacali, il Certification Officer ha diritto di conoscere anche bonus e benefit, comprese le macchine di servizio con autista. E come si vede dalla reazione dei media ai dati annuali, l’intero paese ha così elementi per conoscere direttamente i dati e farsi le sue idee, su come e quanto le Trade Unions paghino i propri dirigenti» (Perché propongo la trasparenza all’inglese per i sindacati italiani, in “Leoni Blog”, 16 agosto 2015). Facciamo il paragone con l’Italia, e giudichiamo cosa sia meglio per noi.