Pubblichiamo una riflessione che il cardinale Angelo Scola arcivescovo di Milano ha preparato per i lettori di Avvenire sul tema del Discorso alla città e alla diocesi che il porporato terrà oggi alle 18 in occasione della celebrazione vigiliare di sant’Ambrogio.
Cardinale Angelo Scola,
arcivescovo di Milano
Non si può tuttavia negare che l’Editto di Milano sia stato una sorta di “inizio mancato“. Gli avvenimenti che seguirono, infatti, aprirono una storia lunga e travagliata. Nel rapporto tra Stato e Chiesa insorsero presto due tentazioni reciproche: per lo Stato quella di usare la Chiesa come instrumentum regni e per la Chiesa quella di utilizzare lo Stato come instrumentum salvationis (Cf. ibid., 136).
La storica, indebita commistione tra il potere politico e la religione può rappresentare un’utile chiave di lettura delle diverse fasi attraversate dalla storia della pratica della libertà religiosa. Basta scorrerne l’indice lungo la storia dalla pratica della libertà religiosa delle principali tappe in questi diciassette secoli che ci separano dall’Editto di Milano per cogliere i nodi fondamentali della questione.
Un primo passo, che è bene ricordare, è l’evoluzione della legislazione imperiale fino ad assumere il cristianesimo come “religione dello Stato” nei confronti degli eretici, prima, e in senso assoluto poi. Furono, infatti, i disordini sociali legati al fenomeno degli eretici a inficiare il quadro di “libertà religiosa” e “laicità dello Stato” che l’Editto di Milano aveva inaugurato.
Il Medioevo fu poi tempo di tensioni tra l’Impero e la Chiesa e di lotta per la libertas Ecclesiae: tensioni che si risolveranno talora in favore del potere politico, talora in favore di quello ecclesiastico.
Lo sviluppo della Riforma protestante, nelle sue variegate espressioni (valdese, luterana, calvinista e nella forma propria della comunità anglicana) ebbe nella storia europea, in un certo senso, un esito paradossale. Lungi dal favorire una ripresa della “libertà religiosa” condusse ad un irrigidimento della commistione tra potere politico e religione che sfocerà nelle guerre di religione.
Per risolvere tale situazione, nelle paci di Augusta (1555) e di Westfalia (1648), venne riconosciuto il principio “cuius regio, eius et religio”. Principio che, almeno nelle sue linee di fondo, domina la storia dello Stato moderno. In tale quadro giuridico si va sempre più affermando, al posto dell’idea di “libertà religiosa”, quella di “tolleranza” (in base alla quale l’indifferentismo religioso resta comunque impensabile) e, successivamente, quella di una configurazione cosiddetta agnostica dello Stato.
Su tale terreno prendono forma sia la pretesa dello Stato etico, che condurrà ai totalitarismi del XX secolo, sia le varie forme di riduzione dello spazio democratico al mero rapporto tra Stato e singolo cittadino, nell’ignoranza, non di rado a volte totale, della società civile e di tutti i soggetti sociali che la abitano
In questo orizzonte moderno occorre affrontare la comprensione del contenuto e delle espressioni sulla “libertà di coscienza” del magistero pontificio lungo il secolo XIX e fino alla promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae al termine del Concilio Vaticano II.
È un fatto innegabile che i Papi, nel contesto della modernità, hanno condannato il sistema di “libertà di coscienza e di culti” nato dalla Dichiarazione francese del 1789. Si trattava però – in questa sede si può solo precisarlo – di opporsi fermamente all’affermazione dell’autonomia assoluta dell’individuo e della società nei confronti di Dio e della Sua Chiesa, ma il Magistero non negò all’uomo nei confronti dello Stato la libertà nella ricerca della verità (Cf. G. Del Pozo Abejón, La Iglesia y la libertad religiosa, BAC, Madrid 2007, 133). La situazione cambiò profondamente con la promulgazione della dichiarazione Dignitatis humanae.
Quali sono le novità fondamentali dell’insegnamento conciliare? Il Concilio, alla luce della retta ragione confermata e illuminata dalla divina rivelazione, non si riferisce genericamente, in quel contesto, alla libertà morale nei confronti della verità o di un valore, ma alla libertà giuridica nell’ambito dei rapporti tra le persone e nella vita sociale.
Si tratta, inoltre, di un diritto negativo che stabilisce adeguatamente i limiti dello Stato nell’ambito della libertà religiosa, ambito in cui lo Stato e i poteri civili non hanno competenza diretta. Così inteso il diritto alla libertà religiosa implica l’immunità di coazione in un duplice senso: l’uomo ha diritto a non essere costretto ad agire contro la sua coscienza e a non essere impedito ad agire in conformità con essa. L’affermazione della libertà religiosa crea così «una zona di sicurezza che garantisce l’inviolabilità di uno spazio umano» (Ibid., 219).
Il limite all’esercizio di questo diritto viene posto in riferimento «all’ordine pubblico informato a giustizia» (DH 2). In questo modo, con la dichiarazione conciliare venne superata la dottrina classica della tolleranza per riconoscere che «la persona umana ha il diritto alla libertà religiosa», e che tale diritto «perdura anche in coloro che non soddisfano l’obbligo di cercare la verità e di aderire ad essa» (DH 2).
A dire di Nikolaus Lobkowicz, già rettore della Università di Monaco di Baviera e presidente dell’Università cattolica di Eichstätt, «la straordinaria qualità della dichiarazione Dignitatis humanae consiste nell’aver trasferito il tema della libertà religiosa dalla nozione di verità a quella dei diritti della persona umana. Se l’errore non ha diritti, una persona ha dei diritti anche quando sbaglia. Chiaramente non si tratta di un diritto al cospetto di Dio; è un diritto rispetto ad altre persone, alla comunità e allo Stato» (N. Lobkowicz, Il faraone Amenhotep e la Dignitatis Humanae, in Oasis 8 (2008) 17-23 , qui 18).