La Voce – rubrica baffo verde –
28 agosto 1994
di Federico Fazzuoli
Tra pochi giorni i riflettori di tutto il mondo saranno puntati sul Cairo che ospiterà l’ottava Conferenza mondiale dell’Onu sulla Popolazione e lo Sviluppo. Sul tappeto il problema dell’aumento demografico: aumento che si concentrerà soprattutto nei Paesi più poveri, che già oggi non sono in grado di assicurare né cibo, né tantomeno benessere. Le cifre dicono che nel 2025 la Terra sarà popolata da 8 miliardi e mezzo di persone: 3 miliardi in più rispetto ad oggi.
Logica vorrebbe che i Paesi «portatori» di sviluppo sacrifichino una parte dei loro consumi per attenuare lo squilibrio tra Nord e Sud del mondo e favorire quindi la crescita delle nazioni povere. Ma l’egoismo domina. Tant’è che molte nazioni industrializzate, Stati Uniti in testa, così come molti esperti e commentatori, hanno creduto opportuno circoscrivere il problema alla sola limitazione delle nascite nel Terzo Mondo.
Il dibattito tra i vari governi sullo sviluppo del nostro pianeta si preannuncia dunque quanto mai acceso, aperto anche ai cosiddetti colpi bassi. Come quello che si apprestano a scagliare Tester Brown e Hai Kane. Per sostenere la necessità di limitare le nascite nel Terzo Mondo, i due ricercatori del glorioso World Watch Institute presenteranno al Cairo uno studio in cui si dice che, se la popolazione continuerà ad aumentare al ritmo attuale, la Terra in breve non sarà più capace di alimentare i suoi abitanti.
In particolare Brown evidenzia come nell’ultimo decennio il raccolto di grano sia aumentato in misura decisamente minore rispetto alla crescita della popolazione. «Nell’84 – sottolinea – c’erano in media 346 chili di grano per persona, mentre oggi ce ne sono 306, il 9% in meno». Ma c’è di più. I due studiosi si spingono a dire che non è ipotizzabile neanche una rivoluzione agricola capace di aumentare in maniera decisa la produzione. Si tratta di affermazioni di parte e per me false.
Brown infatti si dimentica di dire che il calo (effettivo) della produzione di grano è imputabile essenzialmente ad una scelta economica degli Stati Uniti che, per riportare i prezzi dei propri prodotti a livello di quelli mondiali, hanno introdotto già da molti anni il set-aside o congelamento delle terre. Così milioni di ettari di terreno sono stati abbandonati e gli agricoltori indennizzati. Sulla stessa strada si è successivamente incamminata anche l’Europa. Oggi basterebbero le sole eccedenze europee per garantire una dieta equilibrata a tutte le popolazioni che soffrono la malnutrizione.
E vengo alla seconda questione. Penso all’Africa, dove la crescita demografica è più alta, e dove un appropriato uso di nuove tecnologie agricole (già sperimentate con successo in Europa e negli Stati Uniti) potrebbe risollevare le sorti di tutti i Paesi classificati a basso reddito e a deficit alimentare. Non a caso la Fao ha varato di recente, in favore di queste nazioni, una serie di progetti basati su un uso più efficiente delle tecniche di coltura e sulla protezione delle risorse naturali.
Per non parlare delle biotecnologie che consentono una produzione maggiore con minori quantitativi di terra. Se poi spostiamo lo sguardo dalla produzione al consumo i margini di manovra si fanno ancora più vasti. Solo in Italia si consuma una quantità di cibo superiore di circa un terzo alle effettive necessità del nostro organismo. Senza contare gli sprechi che, come più volte sottolineato dall’Istituto nazionale della nutrizione, sono altissimi. E se a questo si aggiungesse anche un cambiamento nell’alimentazione (metto prodotti animali e più prodotti vegetali) le possibilità di sostentamento per tutti crescerebbero in misura ancora maggiore.
Basti pensare che 100proteine di carne vengono prodotte nutrendo l’animale con 600 proteine di soia: un alimento, questo buono anche per l’uomo. È dunque un problema politico e culturale. Nel nostro pianeta c’è ancora cibo per tutti. Sostenere il contrario significa voler pensare esclusivamente al proprio orticello.