di Giuseppe Savagnone
Il recente varo, da parte della Commissione degli esperti, delle indicazioni curricolari per la nuova scuola di base, fornisce una significativa occasione per chiedersi dove stia andando la scuola italiana. E non solo quanto all’organizzazione delle singole discipline, bensì in rapporto all’idea di uomo che, più o meno direttamente, sta dietro questa organizzazione e la ispira. Su di essa vale la pena interrogarsi, mentre ancora si è in corso d’opera, per evitare, domani, di trovarsi di fronte al fatto compiuto e di dover rimpiangere di non aver visto chiaro fin dall’inizio.
Su questo sfondo il Programma, presentato dal governo al Parlamento e da quest’ultimo approvato, evidenzia un obiettivo generale: «I curricoli così organizzati mirano a raggiungere, durante e a conclusione di ogni ciclo, la durevole acquisizione di competenze, intese come la capacità di padroneggiare e di utilizzare le conoscenze in un contesto dato».
Questo riferimento alle competenze può lasciare alquanto perplesso chi si sarebbe aspettato, anche a questo livello, un più diretto riferimento alla crescita della persona. E la perplessità aumenta quando si legge, poco dopo, nello stesso Programma, che «perciò, anche per rapportarsi ai sistemi europei dell’istruzione, si dovrà rivolgere particolare attenzione nel costruire i curricoli alle competenze essenziali di base per una cittadinanza consapevole.
Tra queste spiccano certamente quelle linguistiche e matematiche: il controllo degli strumenti linguistici, e anzitutto della lingua nazionale, e degli strumenti matematici è la chiave d’accesso a ogni sapere posseduto in modo sistematico e critico.
La «crescita della persona umana» sembra ridursi, in ultima istanza, attraverso la mediazione del concetto di «competenza». al «controllo degli strumenti linguistici e degli strumenti matematici», su cui – avvertiva qualche mese fa, in un’intervista, il responsabile del Consiglio Nazionale di Valutazione, prof. Vertecchi (uno degli ispiratori della riforma) – sarà effettuata la valutazione dell’efficacia educativa delle scuole. «Contano le conoscenze, le abilità, le competenze acquisite (di capacità di lettura, di comprensione del testo, padronanza del lessico, capacità di compiere operazioni di tipo logico-matematico (…). Un esempio estremo: non importa tanto che uno studio i “fioretti di san Francesco” o il “Novellino”: conta che capisca».
Un’obiezione sorge spontanea: veramente la cultura è solo un saper utilizzare degli strumenti, indipendentemente dai contenuti e dalle finalità a cui essi si rivolgono? Veramente l’importante è soltanto che un alunno impari a leggere un testo, indipendentemente dal fatto che questa attitudine si realizzi attraverso il contatto con i «Fioretti» francescani, oppure con il «Mein Kampf» di Hitler? E’ indifferente per la scuola il contenuto delle cose che si imparano e che, assimilate, determinano gli orientamenti e la fisionomia della personalità? E il senso dell’educazione si può ridurre al possesso di strumenti da usare con perfetta efficienza?
Queste domande aleggiavano, quando si è passati alla concreta definizione dei curricoli, cominciando da quelli della scuola di base. Già la fretta con cui si è proceduto è stata un indizio inquietante. In meno di un mese – dal 9 gennaio al 7 febbraio di quest’anno – la Commissione incaricata aveva concluso questa prima parte dei suoi lavori. Prefigurando, anzi, anche le future scelte per la secondaria. Nel caso di alcune discipline, infatti – per la storia, ad esempio si e fatta una scelta che coinvolge fin da ora i primi due anni del ciclo successivo, del quale ancora non si è mai discusso.
Se poi dal profilo procedurale – assai discutibile, come è facile vedere – si passa a quello sostanziale, i motivi di perplessità si aggravano ulteriormente. Certo, si può salutare come una giusta apertura alle nuove esigenze culturali il rafforzamento dello studio delle lingue straniere, della matematica, dell’educazione artistica, come pure l’introduzione a pieno titolo dell’informatica. Ma alcune scelte appaiono estremamente gravi e confermano i timori che emergevano dalla lettura del Programma.
Ancora una volta, il caso più vistoso quello della storia. L’inizio dello studio di questa disciplina è stato previsto al quinto anno della scuola di base, con un primo approccio al passaggio dal paleolitico al neolitico. Nel corso del sesto anno – l’attuale prima media, quando gli alunni hanno undici o dodici anni – il curricolo prevede lo studio della civiltà greca, di quella romana, di quella medievale, dello sviluppo delle società africane e degli imperi americani precolombiani (Maya, Atzechi, Inca). Al settimo anno, infine, si farà il mondo moderno fino al Settecento. Nella, premessa si avvertiva che «il completamento del curricolo di storia dalla rivoluzione industriale ai giorni nostri si realizzerà nelle prime due classi della scuola secondaria»
Alcune considerazioni. Fino a qualche anno fa storia greca, storia romana e storia medievale venivano studiate rispettivamente al primo, al secondo e al terzo anno della scuola secondaria superiore. Ora si trovano. compresse insieme ad altri argomenti – in un unico anno, e per di più quando gli alunni, per la giovane età, non avranno modo, se non molto limitatamente, di percepirne gli aspetti più significativi e profondi.
E’ chiaro che una simile proposta. è in evidente contrasto con tante assicurazioni che la riforma della scuola non avrebbe indebolito il rapporto dei nostri giovani con le radici classiche e cristiane della nostra civiltà. Tanto più che, dedicando i primi due anni della secondaria a concludere il processo storico con lo studio dell’Ottocento e del Novecento. non sembra possibile attivare una rivisitazione. secondo una scansione cronologica. di quanto si è studiato nelle classi precedenti. La sola possibilità logica – anche se c’è chi lo nega – ci sembra che questi ultimi tre anni vengano destinati a ricerche tematiche, facile preda di derive ideologiche da parte sia dei professori che degli alunni.
Siamo davanti, insomma, a un progressivo declinare del progetto iniziale, di valorizzazione della persona. in quello, assai più ristretto, di fornire agli alunni delle competenze di ordine strumentale, che rendono superflua la meditazione accurata della grande lezione del passato meno prossimo, a favore dello studio dell’età moderna e contemporanea.
Ci eravamo chiesti quale modello di uomo uscisse fuori dal quadro della riforma scolastica. Lasciamo al lettore il compito di dare una prima risposta, alla luce di quanto detto. I lavori, però, non sono ancora finiti. E, soprattutto, c’è il grande vaglio del giudizio che l’opinione pubblica, e soprattutto le scuole, daranno di queste proposte. Il momento è delicato. Vietato distrarsi.