Altro che caccia alle streghe. dietro alla scuola di via quaranta si staglia l’ombra di una delle più pericolose tendenze islamiste, che ha fatto la storia del terrorismo in vari paesi arabi
di Rodolfo Casadei
L’altra è Livia Turco, che in un comunicato stampa di qualche giorno fa ha definito la “scuola” «un’esperienza educativa che aveva laicamente cominciato a confrontarsi con la cultura, i programmi, i valori della scuola italiana».
Spieghiamo allora ai lettori chi sono gli agnellini islamici di via Quaranta che i teo-con vogliono sacrificare, e fra loro in particolare l’imam della moschea di viale Jenner nonché iniziatore della scuola Abu Imad al Masri (ma il vero nome è Al Husseini Ali Erman) e il cosiddetto direttore della scuola, Ali Sharif, uno che vive in Italia da 30 anni ma che parla l’italiano peggio di Schumacher. E spieghiamo il luminoso esempio di laicità che da loro ci viene.
Cominciamo col giudizio che su via Quaranta ha espresso un islamico, l’ex presidente dei Giovani musulmani d’Italia Khalid Chaouki (simpatizzante di sinistra che ha mobilitato la partecipazione degli immigrati alle primarie dell’Unione): «La verità è che la scuola islamica Al Fajr è nata in un contesto molto particolare. Il direttore stesso della scuola Ali Sharif è stato indagato per terrorismo, la scuola di riferimento della struttura è la rigida salafiyya con forti elementi jihadisti.
Viale Jenner e via Quaranta sono stati per anni un crocevia dei maggiori predicatori che giustificavano le violenze contro i civili in Algeria e in Egitto. Figuriamoci se accetterebbero una soluzione come la scuola paritaria, che permetterebbe ai 500 studenti di integrarsi… Purtroppo in alcuni circoli dell’islam italiano si insegna l’opposto. La differenziazione dai non musulmani è la parola d’ordine, la paura della contaminazione porta alla ghettizzazione volontaria».
Cosa vogliono i salafiti
Tutto giusto alla virgola. C’è solo da aggiungere che anche Abu Imad è indagato per terrorismo, anzi è un plurindagato. Lui e Sharif sono salafiti, e i salafiti che vivono in Europa, come ha scritto Gilles Kepel, il più noto islamologo europeo (collaboratore di Le Monde e Repubblica), sono divisi fra “quietisti” e “jihadisti”, ma su una cosa sono tutti d’accordo: «vorrebbero una sorta di apartheid volontario, o il ritiro dei fedeli in una specie di ghetto mentale per evitare le “perversioni” dell’ambiente europeo» (Fitna, guerra nel cuore dell’islam, Laterza 2004, p. 241); nelle scuole si battono per il velo «poichè segna la perpetuazione di un controllo comunitario sul proprio gregge, e la rottura mentale con i valori di un ambiente considerato corruttore dell’islam, ossessionati come sono dai rischi della “cristianizzazione” ed altre deviazioni che minacciano la loro prole, come il canto, la danza, la promiscuità dei sessi, le attività sportive, o gli insegnamenti di biologia che contraddicono la Rivelazione divina» (cit., p. 268).
Che razza di scuole laicamente dialoganti possano istituire persone che la pensano a questa maniera, è facile immaginarlo. E infatti quando ancora non era scoppiato il bubbone, e non era necessario prodursi in contorsionismi verbali, Abu Imad aveva dichiarato a Magdi Allam: «Noi torneremo in Egitto, perché dovremmo far studiare i programmi scolastici italiani? Noi non vogliamo rinunciare alla nostra identità islamica. Diciamo sì a un rapporto con la società italiana, ma siamo contrari all’integrazione» (Magdi Allam, Bin Laden in Italia – Viaggio nell’islam radicale, Mondadori 2002, p.72).
Questa storia del ritorno in Egitto che giustificherebbe la separatezza della “scuola” di via Quaranta fa un po’ sorridere, quando si considera che né Abu Imad, né Ali Sharif potranno mai tornare in Egitto, se non al prezzo di finire dietro le sbarre. Entrambi, infatti, provengono da Gama’a Islamiya, organizzazione islamista nata negli anni Settanta nelle università egiziane che negli anni Ottanta e Novanta ha abbracciato la lotta armata.
Abu Imad ha conosciuto la prigione insieme a centinaia di suoi camerati all’indomani dell’assassinio del presidente Sadat nel 1981, tutti accusati di complicità ideologica con gli assassini. Da allora il cammino di Gama’a Islamiya è stato un crescendo di violenza e di orrore in nome del jihad contro i musulmani apostati e contro gli infedeli.
Turisti, poliziotti, cristiani copti (a centinaia) e intellettuali laici sono stati negli anni i bersagli dell’organizzazione. Fra i loro delitti più famosi ci sono l’omicidio dello scrittore Farag Foda, accusato di apostasia, e l’eccidio di Luxor nel 1997, dove furono massacrati 58 turisti e 4 egiziani.
La guida spirituale di Gama’a Islamiya era lo sceicco cieco Omar Abdel Rahman, il mufti degli assassini di Sadat, cioè colui che aveva emesso la sentenza teologica e giuridica (fatwa) che giustificava la loro azione e che era diventato famoso anche per un’altra fatwa: quella che autorizzava le rapine di gioiellieri e orefici copti (e, all’occorrenza, il loro omicidio) per finanziare il jihad. Si sa poi com’è finito: gli americani lo hanno condannato all’ergastolo per il primo attentato al World Trade Center, quello del 1993.
Il pentito che accusa Abu Imad
Cose del passato, direte voi. Per quel che riguarda Abu Imad, la star dell’assemblea dei genitori di via Quaranta al liceo Einstein, no di certo. Insieme ad altre 34 persone è stato rinviato a giudizio per associazione a delinquere finalizzata all’arruolamento di volontari, al procacciamento di armi e documenti falsi, all’espatrio di clandestini e per estorsione ai danni di alcune macellerie islamiche. Siccome l’inchiesta è stata condotta prima che entrassero in vigore le leggi antiterrorismo più recenti, non ha molto da temere.
I suoi collaboratori Abdelhalim Remadna e Yassine Chekkouri, rispettivamente segretario-factotum e bibliotecario del centro islamico di viale Jenner, sono stati condannati il primo a sette anni e mezzo e il secondo a quattro anni all’inizio del 2004 a causa delle loro attività al servizio del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento.
Però fa una certa impressione leggere le dichiarazioni di collaboratori di giustizia come il tunisino Riad Jelassi, militante del Gruppo salafita per la predicazione e il combattimento, condannato a quattro anni e mezzo per ricettazione, traffico d’armi e di documenti falsi: «Abu Imad ci affascinava perché era una cosa nuova sentire dal vivo parlare di pensieri estremisti. Noi fino a quel momento eravamo abituati a vedere solo videocassette e faceva effetto sentire quelle cose dette di fronte a noi in arabo classico. Questo tipo di cassette egiziane in Tunisia le guardavamo di nascosto perché la loro vendita era assolutamente proibita. Invece in quella prima occasione l’imam ci parlò personalmente dei nemici di Dio, del jihad, del dovere di conoscere la religione, e del motivo per cui si è nati: combattere. (…) Lui ti fa sempre sognare. Ma non ti chiede niente. Sarai tu, raggiunto il livello di cottura, a chiedere di fare il viaggio del kamikaze. Il compito di Abu Imad è quello di farti il lavaggio del cervello, di farti diventare mentalmente spirito e spiritualmente shaid (martire, ndr). In moschea l’ultima cosa che fai alla sera prima di tornare a casa è sentire i suoi discorsi. (…) Davamo ragione a Abu Imad e io mi addormentavo sognando il paradiso. Non vedevo l’ora di andarci. Quando mi alzavo ero incazzato perché ero ancora vivo, passavo la giornata con la speranza che il giorno successivo me ne sarei andato».
Beh, che dire: speriamo che Abu Imad non abbia mai fatto lezione in via Quaranta.