In Italia si spendono (male) 83mila miliardi per l’istruzione, il 97% per il personale cresciuto nell’era dell’Ulivo-Cgil. I ricchi/privati? Ci fanno risparmiare 8mila miliardi l’anno
di Francesco Nembrini
Accanto, un’altra missiva denuncia il caso della custode cardiopatica di un liceo che rischia il licenziamento per l’impossibilità a svolgere le sue mansioni. Siamo alla ben nota tecnica del caso pietoso, che strumentalizza brutalmente qualche situazione particolare per difendere gli interessi corporativi di chi teme come la peste una sola cosa: di essere chiamato a rispondere di fronte al suo datore di lavoro, cioè alla cittadinanza intera, del proprio operato.
Facciamo due conti
Se giocare sul sentimentalismo è semplice, le cifre non sono facilmente strumentalizzabili. Dicono che la verità è esattamente il contrario. È proprio la difesa di un sistema ferocemente garantista a provocare un’emorragia finanziaria insostenibile, che impedisce di retribuire dignitosamente chi invece svolge il proprio compito con impegno e passione. Non è facile fare i conti in tasca a viale Trastevere.
Ci ha provato un gruppo di ricerca dell’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema dell’Istruzione (Invalsi). La prima osservazione è «la precarietà nella disponibilità di informazioni statistiche aggiornate». Perché a spendere per il sistema scuola non è solo Roma, ma sono anche regioni, province e comuni, sovente con criteri e voci di bilancio differenti.
Per avere un quadro complessivo occorre dunque sommare dati non sempre omogenei, per di più riferiti ad anni diversi (un arco che va dal 1999 per il Ministero al 1996 per i comuni). I ricercatori dell’Invalsi comunque non si sono lasciati scoraggiare, e lo scenario che emerge è da brivido. Nel 1999 il Ministero ha speso complessivamente 62.547 miliardi di vecchie lire. Se a questa cifra si aggiungono i 5.258 miliardi spesi dalle regioni, i 2.953 delle province, gli 11.988 dei comuni, i 200 del Ministero dell’Interno e gli 81,5 delle comunità montane si raggiunge l’astronomica cifra di 83.027,5 miliardi.
Che divisi per gli 8.755.834 alunni che frequentavano in quell’anno le aule italiane danno una media di 9.482.534,7 vecchie lire pro capite. Una cifra da capogiro. Ma che diventa ancora più significativa se paragonata con altri due dati.
Da un lato con la spesa pro capite degli altri paesi Ocse, che si rivela quasi ovunque inferiore alla nostra (grafico 1). Dall’altro con i costi della scuola non statale, mediamente inferiori dal 30 al 40% (grafico 2; sono gli ultimi dati disponibili. Il dato dello Stato comprende la sola spesa del Ministero, quindi in realtà il divario è maggiore). Il confronto smentisce due luoghi comuni della battaglia dell’opposizione: 1. che in Italia per l’istruzione si spenda poco; 2 che i finanziamenti alla scuola non statale tolgano risorse a quella dello Stato.
Caro Augias ma lei lo sa che…
In Italia non si spende poco, si spende male. Non lo dicono solo i dati Ocse, che documentano che nel nostro Paese se ne va in stipendi il 97% della spesa, a fronte di una media Ocse dell’81% (Il Sole 24 Ore Scuola, 8/9/2000). Lo hanno detto i governi di sinistra.
Pochi lo sanno, ma nella finanziaria del 1998 l’Ulivo aveva messo in previsione una riduzione del 4% del personale in tre anni. Ebbene: nel 2001 i dipendenti di viale Trastevere erano aumentati del 5,75%! (grafico 3). Mentre sono diminuiti sia gli alunni sia le classi, il numero degli insegnanti ha continuato a crescere.
Con il risultato che il rapporto alunni/insegnanti è passato da 9,44 a 9,16 (un insegnante ogni 9 alunni, mentre le medie europee si attestano attorno a 14-16 (valore calcolato sul personale di ruolo – il valore corrispondente in Italia è 10.2, vedi grafico 4). C’è di più. La legge 124/99 stabiliva il passaggio di circa 72.000 bidelli e segretarie dagli enti locali allo Stato.
Ebbene, al termine del processo, in virtù della ridefinizione degli standard, lo Stato si è trovato ad avere assunto 132.000 persone: 60.000 stipendi in più per garantire i medesimi servizi. Anzi, meno. Sempre la finanziaria del 1998 prevedeva infatti la possibilità per le scuole di appaltare la pulizie a imprese esterne. In teoria a costo zero, riducendo il numero dei bidelli.
In realtà, come si è visto, i bidelli sono aumentati, mentre un primo calcolo stima i costi per l’esternalizzazione dei servizi a oltre 1000 miliardi per il periodo settembre 2001-dicembre 2002. È per queste scelte rovinose dell’Ulivo, caro Augias, che lo Stato non ha i soldi per pagare la gita al povero maestro Burrosi, non per i presunti tagli della Moratti. Che vuole solo eliminare gli sprechi, condizione indispensabile per poter dare agli insegnanti che lo meritano stipendi dignitosi.
Le scuole dei “ricchi” fanno risparmiare 8mila miliardi l’anno
La scuola non statale non è un onere, è un risparmio. Qualcuno dice che la scuola non statale costa meno perché è di qualità inferiore. Salvo poi lamentarsi nelle okkupazioni delle condizioni “cadenti, fatiscenti” della scuola di Stato contrapposte al “lusso” delle “scuole dei ricchi”.
La verità è che le “scuole dei ricchi” non spendono di più, spendono meglio. Se questo semplice fatto fosse accolto senza pregiudizi potrebbe derivarne una rivoluzione copernicana. Immaginiamo che una percentuale significativa, diciamo il 32%, come è nella media europea, degli alunni dello Stato passasse alla scuola libera: se anche lo Stato ne pagasse integralmente i costi, risparmierebbe, cifre del grafico 2 alla mano, più di 8.000 miliardi l’anno.
Un risparmio netto, da destinare come vuole agli stipendi, alle strutture, all’aggiornamento… Si apre qui, tra l’altro, uno spiraglio interessante per liberarsi del pretestuoso arroccamento dei nemici della libertà sul famoso «senza oneri per lo Stato»: per lo Stato finanziare la scuola non statale, semplicemente, non è un onere: è un risparmio.
Un sistema realmente pluralista è un vantaggio per tutti. Compresi la signora Rina e il maestro Burrosi, di cui Augias tanto (strumentalmente) si preoccupa.