Il ritiro delle forze internazionali farebbe bene alla popolazione afghana? Cosa ne sarebbe delle donne e della già precaria sicurezza? Viaggio nel paese che a dodici anni dalla caduta del regime talebano vuole proseguire sulla via del cambiamento.
da Herat (Afghanistan) Rodolfo Casadei
Dentro, i saluti ufficiali sono terminati e un pranzo del tutto ordinario è iniziato: il governatore Daud Shah Saba ha ricevuto i ministri della Difesa tedesco, italiano e afgano con le loro delegazioni, loro hanno risposto ciascuno con un discorso. «Sono qui a Herat per la seconda volta in un mese per due motivi», ha detto il ministro italiano Mario Mauro.
«Per onorare la memoria del capitano Giuseppe La Rosa, un uomo orgoglioso di quello che stava facendo in Afghanistan, e per mettere a punto i termini della nuova missione, che alla fine del 2014 darà il cambio ad Isaf. Sono certo che il Parlamento italiano, che tanto ha sostenuto la rinascita dell’Afghanistan, non farà mancare il proprio appoggio neanche in futuro».
Poche ore prima i tre ministri della Difesa, insieme al comando italiano e allo Stato maggiore afghano del settore di Herat, si sono riuniti in una sala dell’aeroporto militare proprio per discutere i futuri assetti di “Resolute Support”, la missione militare che dal 2015 prenderà il posto di Isaf. Il 5 giugno a Bruxelles i ministri della Difesa dei paesi Nato hanno dato il semaforo verde al nuovo impegno, che implica un numero ridotto di militari sul posto e compiti di addestramento e supporto alle forze afghane, responsabili in esclusiva della sicurezza nel paese e delle operazioni militari che si rendessero necessarie.
Italia e Germania hanno dichiarato la loro disponibilità a dare il loro contributo a partire dai Comandi regionali di cui sono state responsabili negli ultimi otto anni: quello dell’Ovest per la prima, quello del Nord (con capitale Mazaar-e-Sharif) per la seconda. Sul ridispiegamento delle truppe girano cifre: i tedeschi scenderebbero dagli attuali 4.300 a 600-800 soldati, gli italiani passerebbero dagli attuali 3.200 a 500-700. Ma naturalmente saranno i parlamenti a decidere, e quello italiano, come dimostra la vicenda degli F35 negli ultimi giorni, non sembra tanto ben disposto, mentre quello tedesco riprenderà in mano la questione dopo le elezioni politiche di settembre.
Al tavolo dei giornalisti italiani siede una donna sulla quarantina avvolta in un chador nero sopra una veste porpora satinata. Gli occhi bistrati tristi, le labbra quasi serrate. Esce dal suo mutismo per rispondere alle domande dell’inviata del Tgl, Marilù Lucrezio: «In termini di sicurezza, le cose per le donne vanno peggio oggi di qualche anno fa. Se ci abbandonate, per noi sarà durissima». Chi parla così è Maria Bashir, procuratore capo di Herat, l’unica donna in Afghanistan a ricoprire un incarico di tale livello.
È stata nominata quasi sette anni fa. Quando la designazione fu resa nota, un mullah predisse che il nuovo procuratore non sarebbe durato un mese. La accompagnava una fama mobilissima per alcuni, esecrabile per altri: aveva tentato di far condannare per omicidio il marito di Nadia Anjuman, la poetessa afghana morta per le percosse ricevute dal consorte.
Da vice-procuratore Maria Bashir ne aveva ordinato l’arresto: le ferite alla testa erano indizio di morte violenta. Al processo l’uomo, ricercatore universitario, aveva ammesso un’aggressione alla donna, ma aveva insistito che il suo decesso era il risultato di un suicidio. La Corte gli aveva creduto e l’aveva condannato a una pena mite.
La piaga dei matrimoni forzati
«Sono ingabbiata in questo angolo, pieno di malinconia e di dolore… le mie ali sono chiuse e non posso volare… sono una donna afghana e devo piangere». Per aver scritto e letto in pubblico questa poesia Nadia incontrò la morte. E la morte oggi continuano a trovare molte delle centinaia di donne che ogni anno si danno fuoco per sfuggire a una vita di abusi fisici e psicologici, di matrimoni forzati in giovanissima età con mariti violenti, poligami, drogati. Per il reparto ustionati dell’ospedale di Herat ogni anno passano decine di casi, quasi tutti con esito infausto.
Maria Bashir interviene incriminando per rapimento le famiglie che organizzano matrimoni di spose bambine (l’età legale per le nozze è 16 anni) e convincendo le donne che sopravvivono ai tentativi di suicidio a denunciare i mariti o gli altri parenti che le hanno maltrattate fino a spingerle al gesto estremo. Questo impegno le è valso minacce di morte a ripetizione e, poco più di un anno dopo la sua nomina, un attentato contro i suoi figli allora bambini: ai piccoli fortunatamente non accadde nulla, ma le guardie incaricate di proteggerli rimasero gravemente ferite in un’esplosione. In seguito i tre figli di Maria sono stati mandati a studiare in Europa, mentre lei e il marito vivono, naturalmente, sotto scorta.
Dodici anni dopo la caduta del regime talebano, l’Afghanistan è ancora un paese dove il 58,8 per cento delle donne è costretto a matrimoni forzati (non semplicemente combinati) e il 52,4 per cento è oggetto di violenza fisica in famiglia nel corso dell’anno (il dato sale all’87,2 per cento se si considerano le violenze psicologiche e il sesso sotto costrizione). Si fa un po’ fatica a crederlo, eppure prima le cose andavano peggio.
Il ministro Mario Mauro fa lo stesso discorso sia ai militari italiani di Camp Arena durante la cerimonia di commemorazione del capitano La Rosa che ai dignitari afgani riuniti nel palazzo del governatore di Herat: «Quando è cominciata la missione Isaf, frequentavano la scuola in Afghanistan 900 mila studenti, tutti maschi. Oggi ci sono quasi 7 milioni di studenti e il 35 per cento sono ragazze. Da quando è cominciata Isaf sono stati costruiti 120 ospedali. Il 70 per cento della popolazione ha accesso ai servizi sanitari, mentre prima era solo il 30 per cento. Io credo che per queste ragioni noi abbiamo fatto la cosa giusta».
Altri numeri si potrebbero aggiungere. Per esempio che nel 2001 in Afghanistan c’erano solo 20 mila insegnanti, tutti maschi, mentre oggi sono 200 mila e di questi 60 mila sono donne, e che nello stesso periodo il numero delle scuole è cresciuto da 3.400 alle 16 mila di oggi. Che il Pii prò capite è andato moltiplicato per quattro in questi dodici anni. Che la speranza di vita alla nascita è cresciuta di 3 anni passando da 46 a 49 anni.
Che 18 milioni di afghani hanno accesso alle comunicazioni telefoniche, contro 1 milione nel 2001. Numeri ai quali, per onestà, andrebbero affiancati anche altri meno lusinghieri, come quelli che dicono che la mortalità infantile afgana è ancora la più alta del mondo, che la speranza di vita alla nascita è la quarta più bassa nel mondo, che un quinto delle bambine iscritte a scuola non si presentano mai in classe, e che poche continuano gli studi dopo la quarta elementare.
Non c’è dubbio alcuno: i 60 miliardi di dollari di aiuti internazionali che l’Afghanistan ha ricevuto dal giorno della sconfitta dei talebani fino ad oggi avrebbero potuto essere spesi meglio, la corruzione e l’insicurezza di vaste aree del paese hanno condotto a sprechi e inefficienze la cui responsabilità politica e morale ricade tanto sul governo Karzai che sulla guerriglia talebana.
Ma resta il fatto che la strada imboccata dall’Afghanistan negli ultimi dodici anni è irreversibile: anche se la Nato e gli Usa abbandonassero completamente a se stessi il governo afghano e i suoi cittadini, non si tornerebbe in breve tempo all’Emirato dei talebani; la guerra civile infurierebbe per anni sul.modello siriano, ma i tempi andati non tornerebbero.
«Non è solo questione di sviluppo economico», dice il governatore Saba. «Qui in questi anni sono nate istituzioni democratiche, è cresciuta la società civile, si è formato lo Stato di diritto, giovani e donne hanno assunto posizioni di rilievo nelle leadership civili, soprattutto nelle realtà urbane. Non abbiamo soddisfatto le grandi necessità dell’Afghanistan, questo è sicuro, ma ci siamo mossi nella giusta direzione e da lì non torneremo indietro».
A impedire che l’Afghanistan torni indietro non ci sono solo avvocati e cantanti, giornalisti e attivisti dei diritti umani: ci sono anche 350 mila uomini in armi dell’Ana, l’esercito afghano, dell’Ancop e dell’Alp, i due corpi di polizia afghana. È vero che fra loro ci sono infiltrati e soprattutto teste calde che con frequenza inquietante rivolgono le armi contro i loro istruttori occidentali (l’anno scorso il 15 per cento dei caduti della coalizione internazionale è stato causato da attacchi di elementi delle forze di sicurezza afghane), e che nel 2012 hanno avuto più di 1.000 caduti negli scontri coi ribelli. Ma il loro livello di combattività e di efficienza va aumentando costantemente, così come l’assunzione diretta di responsabilità.
«Abbiamo già assunto la guida della maggior parte delle operazioni in questo settore», dice il generale Jahid, comandante in capo del corpo d’armata del Comando regionale ovest. «Per noi la quinta e ultima fase del processo di transizione riguarda solo una piccola parte nel sud della nostra regione. L’aumento delle perdite afghane rispetto all’anno scorso è dovuto esattamente al fatto che ormai quasi tutte le operazioni sono condotte da noi.
Anche il nemico subisce perdite, molto maggiori delle nostre, ma questo nessuno lo scrive. Certo, dobbiamo migliorare per quanto riguarda la nostra capacità di disinnescare mine e ordigni improvvisati. Non abbiamo ancora l’equipaggiamento adatto e l’addestramento sufficiente. Stiamo lavorando su questa parte per poter diminuire le perdite».
La forza dei generali
Jahid e i suoi vice, i generali Muhaiuddin e Zaiar Sha che gli stanno sempre a fianco, sembrano i selezionati di un casting per un film sulla guerra in Afghanistan. Gli americani vanno dicendo che i militari afghani formati dalla Nato sono molto più combattivi dei loro equivalenti iracheni, e il semplice impatto visivo sembrerebbe confermare la loro valutazione. Le statistiche poi sembrano dare ragione a Jahid: le forze afghane sono già responsabili della sicurezza dell’87 per cento della popolazione, in 312 degli oltre 400 distretti in cui è suddiviso il territorio, e conducono circa l’85 per cento di tutte le operazioni militari.
A una nostra domanda su quanto territorio afghano sia ancora controllato dalla guerriglia il ministro della Difesa Bismillah Mohammadi risponde ottimisticamente «solo quattro distretti, e il recente attacco in Nuristan è stato respinto».
Secondo altre fonti i distretti virtualmente in mano ai ribelli sarebbero tredici, quelli nei quali la violenza è particolarmente concentrata diciassette. Non tanti ma nemmeno pochi. I talebani riescono comunque a tenere alta la pressione con ripetute incursioni di pochi elementi su Kabul, sede del potere, come quella di martedì scorso.
Ma sentono l’affanno: non sono più sicuri che il ridimensionamento della presenza militare occidentale alla fine del 2014 sia garanzia di un loro successo militare in breve tempo. Da qui l’idea di una trattativa di pace fra gli uomini del mullah Ornar e quelli del presidente Karzai, che doveva iniziare a Doha (Qatar) nella terza settimana di giugno, con tanto di benedizione Usa.
Ma la malaugurata idea dei talebani di addobbare il loro ufficio politico come un’ambasciata, con tanto di targa “Emirato islamico dell’Afghanistan” e bandiera talebana bianca con i versi del Corano in nero, ha mandato all’aria, almeno per il momento, ogni negoziato.
Anche perché appena sei giorni dopo è stato tentato un assalto al palazzo presidenziale a Kabul. «Coi talebani negoziamo se sospendono gli atti violenti, accettano la Costituzione e rinunciano all’alleanza con al Qaeda», dice il ministro Mohammadi. Solo sul terzo punto c’è stata un’apertura. Tuttavia già all’indomani degli attacchi di Kabul i presidenti Karzai e Obama hanno confermato la necessità del processo di pace e di riconciliazione.
Mario Mauro puntualizza la posizione dell’Italia, che per difendere la libertà dell’Afghanistan ha sacrificato la vita di 53 suoi soldati, sull’argomento: «La trattativa non può essere imposta alle autorità e al governo afghano, ma deve essere guidata da essi. Abbiamo aiutato in questi anni il popolo afghano a costruire uno Stato di diritto: è importante che i progressi in questo Stato di diritto continuino, anche mentre si procede verso la riconciliazione nazionale. Ciascuno di noi può aiutare l’Afghanistan, nessuno di noi può decidere al posto dell’Afghanistan».