Pubblicato sul Corriere della Sera
22 Aprile 2004
Rispetto dei diritti e legge del taglione
di Piero Ostellino
Il dibattito sulla (parziale) depenalizzazione del reato di eccesso di legittima difesa corre due rischi. Il primo è di ridursi a una competizione fra chi, con la depenalizzazione, intende fare qualche concessione ai commercianti che, esasperati dalle continue rapine, inclinano a farsi giustizia da soli (a colpi di rivoltella), e chi respinge tale prospettiva con la difesa della sacralità della vita e con l’esigenza di eliminare innanzi tutto le cause sociali che sarebbero «a monte» di questo tipo di criminalità.
Il secondo rischio è di impantanarsi in una disputa fra chi cercherà di individuare i casi in cui l’eccesso di legittima difesa non dovrebbe più configurarsi come reato e chi ne negherà la rilevanza, opponendosi alla loro depenalizzazione. Così, nessuno si chiederà se i due schieramenti non riflettano, invece, due concezioni, profondamente diverse, della società in termini di cultura politica. L’una individualistica; l’altra comunitaristica.
Nella tradizione giusnaturalistica, che sta a fondamento delle società individualistiche, gli inalienabili diritti naturali soggettivi di ogni individuo sono tre: il diritto alla vita, il diritto alla libertà, il diritto di proprietà. La proprietà privata ha rappresentato storicamente un rifugio contro l’arbitrio del Principe quando gli altri diritti del cittadino – fra i quali, appunto, quelli stessi alla vita e alla libertà – non erano ancora garantiti istituzionalmente.
Così, nelle società individualistiche, il diritto di proprietà è posto eticamente sullo stesso piano, se non addirittura a fondamento, degli altri due, fino a legittimare chi se ne senta minacciato a difenderlo con la forza, sparando, se ne ritenga il caso, a chi sia penetrato sul suo «terreno». Nessuno, qui, senza passare per matto agli occhi della stragrande maggioranza del suo prossimo, oserebbe dire che «la proprietà è un furto» e definire «esproprio proletario» una comune rapina. Non altrettanto succede nelle società di cultura comunitaristica.
Qui, è addirittura accaduto – è il caso del terrorista Cesare Battisti – che un autore di «espropri proletari» abbia ucciso la vittima di un cosiddetto esproprio solo perché si era opposta a farsi rapinare. Ciò nell’allucinante convinzione di aver riparato, in tal modo, a un’ingiustizia. Ma, su un piano diverso, accade anche che a sentirsi vittime di un’ingiustizia siano – e con qualche ragione in più – i commercianti che hanno reagito all’aggressione, uccidendo i rapinatori, e che perciò sono incriminati dalla magistratura per eccesso di legittima difesa.
Se, infatti, si pone al primo posto, secondo tradizione comunitaristica, la sacralità della vita, è evidente che l’eccesso di legittima difesa resta un reato, che non ha alcuna giustificazione. (Così come, sul versante del rapporto fra il diritto alla vita e quello alla libertà, sembrò lecito chiedersi se valesse la pena di «morire per Danzica», o non fosse «meglio rossi che morti»).
Ma se si parte, invece, dal fatto che a violare un diritto naturale soggettivo – quello di proprietà, la cui difesa la tradizione giusnaturalistica e la cultura politica delle società individualistiche considerano legittima quanto quella del diritto alla vita e alla libertà – è stato il rapinatore, allora, le cose si complicano maledettamente. Non si tratta più di correlare semplicemente la reazione alla minaccia. Ma di decidere in quale società vivere. Che non autorizzi la legge del taglione, ma che neppure consideri il diritto di proprietà un fastidioso accidente.
postellino@corriere.it