Il Timone n. 163 maggio 2017
Laici celebrano funerali in Germania: deriva di una patologia luterana. Invece devono vivere la Chiesa nel mondo. Concilio, Giovanni Paolo II e san Escrivà l’hanno indicato
di Andrea Zambrano
In Germania sono ormai i laici a celebrare i funerali. La motivazione è la solita: carenza di preti, che tocca punte drammatiche. Così le diocesi per far fronte ai più comuni uffici del ministero ecclesiastico hanno addestrato laici volontari per il rito, accompagnare la salma al cimitero e consolare i familiari. Il fedele viene privato d’ufficio e non per scelta della Santa Messa, che è l’atto di culto più fecondo che si possa fare per un’anima a Dio, ma a questo si risponde che i funerali senza la messa sono ammessi. Non è una motivazione sufficiente, però.
Questa novità viene da una terra che deve confrontarsi con le Confessioni protestanti fino ad assumerne le movenze. Ma è l’ennesimo tentativo di affidare al laico un ruolo che non gli è proprio, snaturando così anche la sua missio nella Chiesa. È uno degli aspetti più estremi del montante clericalismo del laicato, patologia strisciante poco analizzata e affrontata. Un clericalismo non solo pratico, ma di mentalità, che ha conseguenze drammatiche non solo nell’identità del laico, ma anche in quella del chierico, che per reazione sta assumendo pose sempre più laicali in un disorientamento di ruoli e missioni.
Suffragettismo laicale
Desiderio di affermazione nell’assumere funzioni clericali; smodato gusto ad essere attori di primo piano nelle cerimonie liturgiche; ma anche la pretesa di parlare a nome della Chiesa, come i tanti “Enzo Bianchi” che si atteggiano ad autorità teologica quando non sono nemmeno ordinati, dimenticando che il laico è solo titolare di opinioni: è quello che il sacerdote Giambattista Torello ha definito “suffragettismo laicale” tipico di chi vive nella Chiesa per spirito di rivolta o di concorrenza.
Basta guardare molte messe dove il laico è protagonista: cammina, si agita nel fare questo e quello durante la celebrazione arrivando in casi estremi a fare l’omelia, tenere per mano il sacerdote durante il Padre Nostro, proclamare parti di preghiere eucaristiche e addirittura autocibarsi del Corpo di Cristo. Sono solo alcuni esempi di una malattia tollerata dagli stessi preti, quando non incoraggiata, che non si verifica solo durante la messa, ma anche nella vita comune quando nelle comunità è il laico “che fa il prete”.
Una malattia che Papa Francesco ha definito “elite laicale” e che San Josemaria Escrivà ha affrontato fino ad augurarsi un “sano anticlericalismo, che nasce dall’amore per il sacerdozio e che non consente che il semplice fedele o il sacerdote si servano di una missione sacra per ottenere vantaggi temporali“. E proprio ad un sacerdote dell’Opus Dei, l’opera che ha dato dignità alla santificazione del laicato nella Chiesa, Il Timone ha chiesto di inquadrare il fenomeno.
La missione dei laici è nel mondo
«Il punto di partenza è sapere che i laici hanno una specifica missione nella Chiesa – spiega Padre Javier Lopez Diaz dell’Università della Santa Croce – che consiste anzitutto nella loro libera e responsabile azione all’interno della vita civile nella quale devono essere il lievito di vita cristiana. Questa è la specifica missione data al laico dal Concilio Vaticano II con la Costituzione Lumen Gentium: santificare il mondo dal di dentro».
Il testo “attuativo” della funzione laicale è Apostolicam Actuositatem, che codifica l’apostolato del laicato in campi di attività precisi: le comunità ecclesiali, la famiglia, i giovani, l’ambiente sociale, l’ordine nazionale e internazionale. Ma successivamente anche San Giovanni Paolo II con la Christifideles laici laici ha dato un contributo importantissimo alla loro promozione all’interno della Chiesa, inquadrando i campi e affidando loro un alto compito, nel mondo e nel corpo ecclesiale, di aiutare i sacerdoti nel loro cammino spirituale e pastorale. Finanche quello di correggerli con carità quando ritengono che si stiano compiendo degli errori.
Sempre però tenendo distinti ruoli e specificità. «Infatti – prosegue Lopez Diaz – i laici edificano la Chiesa quando compiono il loro dovere in famiglia, nei rapporti professionali e sociali. E questa è una missione ecclesiale di primissimo piano, derivante dal battesimo». Ma molti sacerdoti dimenticano questo: «Dimenticano che un laico cristiano quando santifica la sua famiglia come un padre che educa i figli, quando lavora con competenza e promuove il progresso sociale, sta compiendo la sua missione. Si tende a pretendere che il laico, finito il lavoro, debba iniziare a santificarsi solo quando va in parrocchia per aiutare il parroco a fare questo o quello. Non è così, o meglio, non per tutte le attività è così».
Due sacerdozi, due missioni
Si arriva così alla deformazione di far fare ai laici ciò che è proprio del sacerdote. Invece non si accetta che la vocazione laicale è completa in se stessa, il grave errore è far tendere tutti i fedeli ad una sorta di diaconato implicito per tutti. È questo il principale abuso: «Il diacono permanente non è un laico, appartiene alla gerarchia ecclesiastica ed è colui che aiuta il presbitero nelle funzioni sacre: nella distribuzione della comunione, nei battesimi, matrimoni e allora sì, nei funerali. Questi sono compiti dei diaconi, ma non tutti possono e devono essere diaconi».
Un fenomeno, assicura Lopez Diaz, che si ritrova anche nella moda di affidare ai laici la distribuzione della comunione a messa: «Si può fare solo quando non c’è un numero di sacerdoti sufficienti o quando il celebrante è impedito, in tutti gli altri casi è un abuso, eppure si pensa che questo sia il miglior modo per integrare il laico nella missione della Chiesa, invece il laico si integra quando fa il suo compito che è santificare le attività temporali».
Tutti siamo partecipi di un sacerdozio regale o comune, come dice San Pietro, ma questo è diverso dal sacerdozio ministeriale. «Oggi invece si chiama “sacerdozio universale”, ma è l’errore in cui incorse Lutero, che, negando il sacerdozio ministeriale, ha incluso tutti nel medesimo sacerdozio, il quale però è ontologicamente diverso tra chierico e laico».
Il clericalismo nasce dunque da Lutero, «perciò il Concilio Vaticano ha distinto le due funzioni nell’ottica della cooperazione organica: il sacerdozio ministeriale sa che non può compiere la missione della Chiesa da solo, mentre i laici non possono fare nulla senza il sacerdozio ministeriale».
C’è però una mentalità laicale che fa bene anche al prete e che si caratterizza «per l’amore alla libertà. Per questo San Josemaria voleva, unita all’anima sacerdotale, una mentalità laicale. È un et-et che vale anche per il laico, purché sia chiara quale è la sua anima sacerdotale specifica. Perché l’anima sacerdotale (anche del laico) senza mentalità laicale degenera in clericalismo e la mentalità laicale senza la anima sacerdotale può degenerare in laicismo».
Per saperne di più
Colloqui con Monsignor Escrivà (cap 47) Ares, Milano,2009
Giambattista Torello Impazziti di Luce Ares 2017
Angelo Pellicioli Rinnovare la liturgia nella fede Fede e Cultura, 2017