La decisione del tribunale di Firenze
solleva problemi veri
di Francesco D’Agostino
La notizia interessa in prima battuta i giuristi, cui spetta il compito di valutare la correttezza della decisione fiorentina. Ma è evidente che il cuore della notizia più che giuridico, è politico-sociale: sono non poche, almeno sei, le proposte di legge depositate in Parlamento per introdurre anche in Italia il divorzio “veloce”, riducendo drasticamente il periodo minimo di tempo legalmente previsto per poter avanzare la richiesta di scioglimento del matrimonio.
È facile prevedere che a seguito di questo evento si riaprirà il dibattito sul periodo di separazione (attualmente tre anni) che da noi è necessario che sia trascorso per ottenere il divorzio. Ed è altrettanto facile prevedere che questo dibattito tornerà ad acquistare la solita coloritura libertaria: nessuno obbliga una coppia a divorziare, ma perché impedire, a chi invece abbia preso atto anche in tempi brevissimi del fallimento irrimediabile del proprio matrimonio, di ottenere lo scioglimento del vincolo? Per i suoi fautori, la pretesa di formalizzare il divorzio “veloce” è né più né meno che una pretesa di libertà.
L’argomentazione, però, non funziona. Essa si fonda su di un equivoco insanabile: quello secondo il quale, poiché la sostanza del matrimonio sarebbe essenzialmente privata, la gestione del vincolo andrebbe demandata alla volontà insindacabile dei membri della coppia. È vero, invece, esattamente il contrario. I rapporti strettamente privati possono avere una rilevanza psicologica e umana mediocre o altissima, ma in ogni caso la loro rilevanza giuridico-sociale è sempre zero.
Il matrimonio, invece, non è un rapporto privato, ma pubblico; il mero fatto che il diritto lo istituzionalizzi dimostra quanto profondo sia l’interesse pubblico al fatto che i matrimoni “esistano” e che “durino”. È per questo che il diritto assegna agli sposi uno status socialmente riconosciuto e (malgrado la possibilità del divorzio) “resistente”; uno status a tal punto giuridicamente formalizzato e registrato, che solo l’intervento di un giudice è legittimato ad alterarlo. La differenza tra un’unione libera e un’unione matrimoniale è tutta qui ed è una differenza immensa.
Ecco perché il matrimonio, come si insegna agli studenti del primo anno di giurisprudenza, non può ammettere né termini né condizioni: la sua è una pretesa in qualche misura definibile come “assoluta”: né più né meno che quella di attivare tra i coniugi una relazione “totale”. È per questo che, anche solo intuitivamente, siamo tutti convinti che ipotizzare un matrimonio a termine (ad esempio di solo qualche mese) o sottoporre il matrimonio a una condizione (ad esempio la nascita di un figlio maschio) non solo è illegale, ma è ingiusto e ingiustificabile, perché contraddice l’identità stessa del matrimonio, riducendolo a un vincolo funzionale a interessi o ad aspettative individuali.
Non si tratta di negare che in ogni matrimonio si diano interessi e aspettative, ma di riconoscere che queste, se si danno, possiedono un rilievo esclusivamente privato e circoscritto: non possono e non devono essere tali, cioè, da qualificare la natura sociale e totale del rapporto. È per questo che ciò che si nasconde dietro la richiesta di legalizzazione dei divorzi “veloci” non è semplicemente un’istanza di semplificazione burocratica delle procedure di scioglimento del matrimonio.
C’è piuttosto l’intenzione (esplicita o implicita, poco importa) di ridurre al minimo o addirittura dissolvere la dimensione temporale del vincolo coniugale, rendendone quindi la durata priva di significato giuridicosociale. Il che comporta, inevitabilmente, un ulteriore e decisivo passo verso la riduzione del matrimonio a una dimensione strettamente privata.
Se questa è la posta in gioco oggi (e io ne sono perfettamente convinto) onestà vorrebbe che venisse pubblicamente discussa: trucchi e scorciatoie, come appunto il divorzio veloce zapateriano, non sono degni di una società che voglia riflettere seriamente sul destino delle proprie istituzioni sociali fondamentali.
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