E’ la provocatoria tesi dello studioso Mockler secondo il quale nel ‘400 italiano i soldati di ventura fanno del mestiere delle armi un’arte nobile quasi incruenta
di Edoardo Castagna
La guerra appaltata alle compagnie di ventura era diventata una sorta di grande torneo cavalleresco: un po’ per l’ovvio interesse dei mercenaria non ammazzarsi l’un con l’altro con eccessiva facilità, certo. Ma un po’ anche per evoluzione civile. Dalle bande di feroci mozzateste sorte nelle campagne inglesi e francesi nell’ultimo scorcio di Medioevo, la storia dei mercenari aveva percorso una lunga strada.
E fu nell’Italia del Rinascimento che trovarono non solo la loro mecca, com’è noto, ma anche l’ambiente ideale per evolversi e per fare del mestiere delle armi un’arte quasi nobile, a tratti elegante, e meno cruenta possibile.
Capitani di ventura che fecero carriera fino a divenire sovrani – i Francesco Sforza, i Federico da Montefeltro – si rivelarono squisiti signori rinascimentali, dal raffinato gusto artistico e dalla propensione al mecenatismo. Mockler passa dalla nascita delle libere compagnie, coincidente con il declino del feudalesimo nell’Europa nord-occidentale, all’età aurea del Rinascimento, non solo italiano; dalle guerre del Settecento, dove a essere mercenari furono intere nazioni (come la Prussia di Federico il Grande, a lungo in battaglia per conto e al soldo dell’Inghilterra) al mito della Legione straniera francese.
Approda infine ai mercenari del XX secolo, quando dopo la Seconda guerra mondiale trovarono una nuova fioritura prima nel Terzo mondo, poi nei contesti delle guerre asimmetriche, come l’Iraq e l’Afghanistan.
È stato solo nell’ultima fase di questa parabola che il termine “mercenario” – semplicemente il «devoto alla guerra», secondo il ritratto di Clearco tracciato da Senofonte – ha assunto quella connotazione negativa che porta con sé; per la precisione, dalla nascita del concetto di Stato-nazione.
«Fino alla Rivoluzione francese – nota Mockler – era sembrato logico e onorevole che il soldato professionista combattesse, mentre il normale cittadino se ne stesse a casa. Dopo, si considerò giusto che ogni uomo combattesse per il proprio Paese e sconveniente che qualcuno servisse sotto un’altra bandiera».
Simbolo della svolta secondo Mockler fu il massacro della guardia svizzera alle Tuileries nel 1792 quando il popolo prese le armi in nome della propria appartenenza nazionale e aggredì, vincendo, il soldato di professione senza bandiera.
A destare particolare impressione fu anche il fatto che in quell’occasione andò in frantumi anche la nomea di eccellenza militare degli svizzeri, che per secoli avevano disceso le impervie valli dei loro cantoni per combattere in ogni angolo d’Europa. Tanto che per contrastarli gli Asburgo organizzarono i famigerati lanzichenecchi, rimasti nella memoria collettiva come simbolo del mercenario più spregevole: gratuitamente violento, ignorante, barbaro, amorale.
È proprio a fronte di quest’immagine che Mockler tratteggia il suo elogio del mercenario italiano rinascimentale, additandolo perfino come modello, purtroppo mancato, di uomo universale: «Quante vite nel corso della storia umana – scrive commentando l’incruenta battaglia tra il Carmagnola e Piccinino – sarebbero state salvate, se ogni generale si fosse arreso una volta accortosi di essere circondato e quasi inevitabilmente sconfitto, se le guerre fossero state fatte cessare dal razionale computo delle probabilità di vittoria, compiuto da entrambe le parti?
Questi ultimi condottieri furono i più civili e i più umani di tutti i guerrafondai, ma le moderne nazioni, abituate come tribù barbare a giudicare la serietà di una guerra dai massacri che vi si svolgono, sono tanto folli da disprezzare tali prove di civiltà».
Anthony Mockler Storia dei mercenari. Da Senofonte all’Iraq Odoya, pag 328. Euro 18,00