La Fao – l’organismo delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura – ha spiegato l’attuale «emergenza fame» citando cause strutturali dovute alle errate politiche di sviluppo adottate dai Paesi ricchi. Ma quali soluzioni possono essere proposte dopo anni di errori?
di Ettore Gotti Tedeschi
Negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso alcuni organismi internazionali avevano proposto analisi e avanzato previsioni catastrofiche sul problema della crescita demografica incontrollata e della fame nel mondo. Anche allora la fame dei Paesi poveri creò allarme, ma la soluzione proposta dal pensiero dominante fu neomalthusiana: bisognava cioè frenare la crescita della popolazione.
Si ignorarono invece le proposte fatte da prestigiosi esperti ed economisti – come Colin Clark, l’ideatore del concetto di prodotto interno lordo – secondo i quali la produzione mondiale di cibo poteva soddisfare non 6, ma ben 36 miliardi di abitanti. E ciò attraverso l’uso razionale – con sistemi intensivi e ridotti, anziché estensivi o collettivistici – delle colture e grazie alla sconfinata capacità produttiva del mercato.
Già allora era chiarissimo che il problema della fame non era economico o ecologico, bensì politico, e legato al timore della crescita demografica dei Paesi più poveri, la cui popolazione doveva essere limitata nel numero piuttosto che sostenuta e sfamata non in modo assistenzialistico ma con cambiamenti strutturali a favore dello sviluppo interno.
Dopo trent’anni il problema si è addirittura accentuato. Secondo alcuni l’aumento dei prezzi dei cereali sarebbe dovuto alla crescita di domanda nei Paesi emergenti più popolosi, alla produzione dei biocarburanti, alle variazioni climatiche, ai sussidi economici garantiti alla produzione nei Paesi ricchi. La crisi sarebbe cioè dovuta alla dinamica di domanda e offerta del mercato influenzato dai Governi occidentali e dal loro miope egoismo.
In realtà le cose non stanno esattamente così. Il prezzo dei beni alimentari – le cosiddette commodity verdi – si direbbe piuttosto influenzato da fenomeni speculativi avviati da investitori internazionali che, abbandonati i prodotti finanziari senza più margine di profitto, hanno concentrato il loro interesse sulle commodity, cioè su petrolio e alimentari.
Secondo alcuni operatori specializzati, quasi il 70 per cento delle transazioni che hanno fatto crescere i prezzi del cibo sono finanziarie.
Si è cioè «finanziarizzato» il bene agricolo creando un’altra bolla speculativa che potrebbe esplodere fra alcuni mesi, come già è avvenuto per il settore immobiliare. I prezzi dei prodotti agricoli nel mondo sono quindi decisi nelle Borse. Solo per una parte più marginale – anche se non trascurabile – la loro crescita è dovuta alla maggiore richiesta, ai biocarburanti e agli interventi pubblici.
Sarebbe però delittuoso permettere che le turbative speculative minaccino la sicurezza alimentare. Per evitare che ciò avvenga bisognerebbe regolamentare subito l’uso degli strumenti finanziari sulle commodity verdi. Sarebbe poi necessario disciplinare le politiche dei dazi sui prodotti alimentari provenienti dai Paesi in via di sviluppo, sostenendovi sistemi agricoli piccoli e intensivi. Sarebbe inoltre utile sostenere le produzioni agricole che utilizzano le biotecnologie vegetali, con un minore uso di acqua, concimi chimici e pesticidi.
Si garantirebbe così produttività a basso costo, favorendo la capacità di esportazione dei Paesi più poveri e soddisfacendo il loro bisogno interno.