Con Freud si iniziò a spiegare ogni comportamento con la sessualità. Poi, a cavallo del ’68, alcuni libri posero il piacere come solo criterio di scelta e invocarono la liberazione dall’autorità, in primo luogo familiare. Ora se ne pagano le conseguenze.
Lucetta Scaraffìa
Questa lettura fu per me sconvolgente: non solo per lo spregiudicato stile di descrizione di organi e di rapporti sessuali, ma soprattutto per la tesi che sottendeva, cioè che la repressione sessuale, in atto fin dall’infanzia, arrecasse danni psichici e provocasse nevrosi. Freud offriva risposte a domande che io non mi ero mai posta. Anche il libro di Cantoni insisteva, se ben ricordo, sulla naturale libertà sessuale dei primitivi, contrapposta alla morale repressiva in cui noi occidentali di matrice cristiana eravamo costretti a vivere.
Non lo sapevo, ma mi ero scontrata, priva di ogni preparazione, con la rivoluzione che avrebbe in pochi anni cambiato tutte le nostre vite, nutrendo la rivolta studentesca del 1968 e la rivoluzione femminista: la rivoluzione sessuale. Sono state infatti proprio le scienze umane – e in particolare psicologia/psicanalisi e antropologia – a fornire le giustificazioni teoriche per un cambiamento che era nell’aria da decenni, ma non si decideva a decollare realmente. E quei testi erano così autorevoli da essere messi in programma d’esame in quell’autunno del 1967.
La rivoluzione sessuale, infatti, figlia e sorella del ’68, è stata innanzi tutto una rivoluzione intellettuale: in quegli anni era esplosa la vendita di libri, soprattutto quelli di scienze umane. In ogni Paese si cominciò a tradurre l’opera omnia di Freud, che stava alla base di una nuova utopia, quella del piacere per tutti. Si stava facendo strada la convinzione che la vera rivoluzione sarebbe stata innanzi tutto sessuale.
Questo era il problema più sensibile, che toccava tutti in modo immediato: «Nel fondo dei suoi fantasmi, ogni persona, ogni uomo, ogni donna, era un rivoluzionario in potenza», scrive Tobie Nathan nella sua autobiografia, «bastava spiegargli che la ritenzione della sua pulsione sessuale produceva nevrosi e sintomi. Bastava spiegargli che questi sintomi soffocavano la sua creatività, inibivano la sua felicità, ed eccolo divenuto militante della rivoluzione in corso. Noi avevamo scoperto una leva universale. È così che pensavamo allora. E così che è andata avanti la rivoluzione del ’68».
Non dobbiamo sottovalutare l’importanza della psicologia, nuova scienza nata alla fine dell’Ottocento, nell’offrire quelle basi che si volevano scientifiche alle proposte rivoluzionarie: affrontare la questione sessuale dal punto di vista psicologico voleva dire applicare il metodo scientifico a ogni aspetto dell’esistenza umana, per scoprire le leggi che la regolavano, che dovevano essere leggi universali come quelle della fisica e della chimica.
Che la questione sessuale fosse un affare di psicologia lo aveva già capito a fine Ottocento il medico inglese Havelock Ellis, autore di un’opera di sette volumi intitolata Studies in the Psychology of Sex (1897-1928), apprezzata anche da Freud. Ma se molti fra psicologi e psichiatri avevano teorizzato la libertà sessuale come condizione necessaria per migliorare l’umanità e arrivare alla felicità – oltre a Havelock Ellis, Krafft-Ebing, Breuer, Forel – prima di Freud nessuno aveva esplicitamente postulato un legame tra sessualità e nevrosi.
Con Freud la psicanalisi ha avuto la presunzione di supplire a tutte le forme precedenti di conoscenza, di dare una spiegazione di ogni comportamento umano, e soprattutto di spiegare tutto con la sessualità. Proprio per questo Freud era stato paragonato dai suoi discepoli a Darwin, perché secondo loro c’era voluto coraggio per guardare in faccia la triste realtà sessuale e affrontare le resistenze da essa suscitate. I medici suoi contemporanei, infatti, avevano avanzato molte critiche alla sua insistenza univoca sulla sessualità, sostenendo che non si potevano ricondurre tutti i disturbi psichici a una causa sessuale.
La psicanalisi fu accettata con facilità nei Paesi anglosassoni, di matrice protestante – come l’Inghilterra vittoriana – dove la repressione sessuale era certamente più forte che nei Paesi cattolici, ma il problema dell’insistenza sull’origine sessuale delle malattie mentali portò alla rottura tra Freud e molti dei suoi migliori seguaci, a cominciare proprio da Jung. Curiosamente, ruppe con Freud anche un allievo viennese, Wilhelm Reich, che aveva portato alle estreme conseguenze la sua proposta, e che avrebbe conosciuto una straordinaria fortuna proprio negli anni Sessanta.
In quegli stessi anni la psicanalisi fu supportata, sempre sul tema sessuale, dall’antropologia: non è certo un caso che il famoso libro di Bronislaw Malinowski La vita sessuale dei selvaggi nella Melanesia nord-occidentale – che metteva in questione le regole repressive sulla sessualità presenti nella società inglese – fosse uscito nel 1929 con l’introduzione di Havelock Ellis, e che negli anni Trenta avesse riscosso uno straordinario successo la ricerca di Margaret Mead dedicata all’iniziazione sessuale degli adolescenti samoani. Il libro della Mead voleva provare che esistevano società senza proibizioni sessuali, totalmente libere, e proprio per questo prive di nevrosi.
Circa quarant’anni dopo, però, un ricercatore australiano tornato sul posto scoprì che l’antropologa era stata ingannata dai suoi informatori: le regole sessuali esistevano, ed erano rigide. Ma il libro ormai aveva sortito il suo effetto “liberante”.
A Wilhelm Reich dobbiamo l’espressione Rivoluzione sessuale, titolo di una sua opera del 1936, tradotta in italiano nel 1963, circa dieci anni prima di un suo libro analogo, La lotta sessuale dei giovani, e della traduzione della sua opera più conosciuta, La psicologia del fascismo. Si trattava, almeno per i primi due volumi, di pamphlet politici sulla base della teoria psicanalitica, che chiamavano i giovani a ribellarsi contro la repressione sessuale imposta dagli educatori, le religioni, i quadri politici. Alla repressione sessuale veniva addebitato ogni cattivo sentimento, in particolare l’aggressività: dietro ai soavi libertari figli dei fiori stava questo agguerrito austriaco, comunista, che aveva spostato sul piano sociale le scoperte che Freud aveva limitato alla sfera individuale.
La libertà sessuale assumeva così le caratteristiche di una vera e propria utopia: grazie alla fine della severa regolamentazione che tradizionalmente aveva accompagnato la vita sessuale, tutti sarebbero stati meno nevrotici e aggressivi. In un mondo di esseri umani felici e appagati, la violenza sarebbe diminuita e forse scomparsa, e così anche la prostituzione non avrebbe più avuto ragione di esistere.
Tutte le forme di utopia che hanno segnato la trasformazione del legame matrimoniale fra Ottocento e Novecento hanno promesso la fine della prostituzione, cosa del resto annunciata anche dalla rivoluzione socialista. Oggi però dobbiamo ammettere che il crescente numero di prostitute/i nelle strade delle nostre città e dei nostri paesi costituisce la prova evidente del fallimento di queste utopie. Ma nessuno pare prenderne atto, e la rivoluzione sessuale gode ancora, sorprendentemente, di buona stampa.
La fine della prostituzione – considerata l’ovvio risultato di una felicità diffusa, raggiunta attraverso la liberazione sessuale – era promessa anche da altri due guru della rivoluzione sessuale: l’entomologo, poi diventato sessuologo, Alfred Kinsey, autore di una meticolosa inchiesta sulla vita sessuale degli americani – pubblicata nel 1948 e tradotta in italiano nel 1955, con introduzione di un celebre psicanalista, Cesare Musatti – e l’inchiesta di W. Masters e V. Johnson, uscita negli Usa nel 1966 e tradotta nel 1968. Le inchieste si presentano come una conferma scientifica delle ipotesi psicanalitiche, e si propongono di giustificare, con la loro pretesa serietà, le proposte di abolizione delle regole sessuali.
Molti decenni dopo, una più attenta analisi dei dati raccolti e delle modalità di elaborazione di queste ricerche ha portato a dubitare del valore scientifico di questi lavori, a cui si aggiunge un’ombra morale sugli autori, rivelatisi prepotenti sfruttatori sessuali dei collaboratori sotto il velo della libertà. Ma ormai i libri avevano svolto il loro ruolo legittimando con la scienza i progetti di rivolta alle regole morali dominanti. Il fatto che fossero libri scientificamente insostenibili non ha prevalso sulla loro caratteristica principale: quello di essere i libri giusti al momento giusto, che dicevano quello che tutti volevano sentirsi dire.
Per questo sono serviti a giustificare operazioni come quella di Hugh Hefner (allievo di Kinsey), l’inventore di «Playboy», il magazine che mescolava immagini femminili erotiche con ottimi articoli scritti da intellettuali maschi, e che si diffuse rapidamente in tutto il mondo, e film che cominciavano a offrire esempi di “coraggiosi” che violavano le regole tradizionali e trovavano la felicità.
Si prospettava così un attacco culturale a quella che è l’istituzione che ha sostenuto e difeso queste regole, la famiglia, e in particolare l’autorità esercitata dalle generazioni più anziane sui giovani, dai maschi sulle donne. I tentativi di creare nuove forme di vita quotidiana, come le comuni e il libero amore, fallirono rapidamente, ma rimase in piedi la proposta distruttiva contro la famiglia.
Se il principio di piacere diventa l’unico criterio di scelta, infatti, la famiglia diventerà fungibile e ruotabile come ogni altro rapporto, perché il piacere deve essere continuo e la ricerca di chi lo procura sembra tendenzialmente svincolata da ogni legame. Infatti, se ogni membro della famiglia insegue un suo sogno di libertà erotica, si trova separato totalmente dagli altri. Per cui, nel suo sbocco finale, questo attacco alla famiglia, partito dalla coppia aperta, prende la forma di una fungibilità completa etero-omosessuale di tutti i suoi membri.
Se i libri sono stati fondamentali per questo cambiamento, non dobbiamo trascurare il fatto che questi profeti della rivoluzione sono tutti uomini: le donne si limitano a fiancheggiare i trattati di successo con scritti autobiografici, nei quali raccontano, qualche anno dopo, il loro personale percorso di liberazione, naturalmente sempre in toni entusiasti. E più in generale pagheranno questo impegno con una difficoltà crescente a vivere l’esperienza della maternità.
I medici autori di queste ricerche, a cominciare da Freud, sono letti come veri e propri maitres a penser, e sono la chiave di questa utopia che si propone di riportare il sesso alla natura, abolendo le regole. Senza accorgersi, però, che per realizzarsi la rivoluzione sessuale ha bisogno degli anticoncezionali, che praticano l’operazione più “antinaturale” che esista, cioè la separazione fra sessualità e riproduzione.
La sessualità desiderata è infatti quella ludica, senza rischi e responsabilità, una sessualità che necessariamente si colloca al di fuori della famiglia e, in fondo, anche al di fuori del rapporto eterosessuale. A guardar bene sono solo i gay a realizzate, senza supporti biotecnologici, l’obiettivo desiderato. È in questa rivalutazione del sesso senza riproduzione che si colloca l’accettazione della sessualità omosessuale, e la tendenza alla promiscuità anche da parte di persone che non si definiscono omosessuali. Se non si vede più la differenza, perché entrambe le sessualità escludono la riproduzione, diventa facile considerarle e praticarle allo stesso modo.
II politicamente corretto che ancora impera su questi argomenti impedisce di cogliere il fallimento delle promesse, la contraddittorietà degli assunti, la fallacia dei libri fondativi. Soprattutto la persistenza del mito della “naturalità” da riconquistare impedisce di vedere come il rapporto sessuale, sganciato dalla riproduzione, liberato da ogni regola che ne delimiti la funzione sociale, sia diventato un consumo come un altro.
La libertà di godere si confonde con la libertà di comprare, e il libero amore sollecita acquisti di biancheria intima, frequentazione di istituti di bellezza e palestre, turismo e serate in locali notturni, mentre il turismo sessuale è diventato uno dei principali business del mondo contemporaneo: sta a testimoniare, come la prostituzione a casa nostra, che la liberazione sessuale non ha mantenuto nessuna delle sue promesse di felicità.
Anzi, in questo modo ha aggravato lo sfruttamento fra esseri umani. Con risultati di peggioramento delle condizioni di vita, come lucidamente scrive lo scrittore francese Houellebecq: «Nelle nostre società, il sesso rappresenta un vero e proprio secondo sistema di differenziazione, del tutto indipendente dal denaro; e si comporta come un sistema di differenziazione altrettanto impietoso. Gli effetti di questi due sistemi sono del resto strettamente equivalenti. Così come il liberalismo economico senza freni, e per ragioni analoghe, il liberalismo sessuale produce dei fenomeni di pauperizzazione assoluta.
Alcuni fanno l’amore ogni giorno; altri cinque o sei volte nella loro vita, o mai. Alcuni fanno l’amore con decine di donne; altri con nessuna. E ciò che si chiama “legge di mercato”. In un sistema economico in cui il licenziamento è proibito, ognuno riesce più o meno a trovare il suo posto. In un sistema sessuale in cui l’adulterio è proibito, ognuno riesce più o meno a trovare il suo compagno di letto. In un sistema economico perfettamente liberale, alcuni accumulano fortune considerevoli; altri languono nella disoccupazione e nella miseria. In un sistema sessuale perfettamente liberale, alcuni hanno una vita erotica varia ed eccitante, altri sono ridotti alla masturbazione e alla solitudine».
Ma queste cose non si possono dire a voce alta. Così come non si può dire che la richiesta di matrimonio e filiazione da parte dei gay non appartiene al regno dei diritti, cioè a quell’allargamento dei diritti dell’individuo che, nella nostra società, sembra segnare il cammino luminoso del progresso umano. È invece da ascriversi alle conseguenze della rivoluzione sessuale, una rivoluzione fondata sull’utopia e travestita da teorie scientifiche false, una rivoluzione fallita, ma che è ancora così potente da imporre il silenzio sul suo fallimento
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Lucetta Scaraffia insegna Storia contemporanea presso l’Università “La Sapienza” di Roma, è editorialista de «L’Osservatore Romano» e collabora con varie testate. Si è specializzata in storia delle donne, con particolare attenzione alla religiosità femminile e ai rapporti fra la società occidentale e l’islam.