Dall’America a casa nostra aumentano le donne che interrompono due, tre, anche più di quattro gravidanze. E non sono povere, ignoranti e immigrate. L’analisi di Borgna e un’inedita indagine italiana
di Benedetta Frigerio
Nell’intervista apparsa sull’ultimo numero di Tempi, la Vilar conferma che, secondo le ultime ricerche, la metà delle donne che hanno abortito in Canada e in America lo hanno fatto anche sei o sette volte e gran parte di loro è istruita e benestante. Le rare e poco pubblicizzate statistiche sulla “recidiva” degli aborti costringono a non sottovalutare il fenomeno circoscrivendolo a pochi casi eccezionali.
Perché se è vero che «le dipendenze, le nevrosi e i comportamenti ripetuti compulsivamente sono sempre esistiti, la loro diffusione massiccia e le forme che assumono non possono essere slegate dal contesto culturale in cui viviamo», spiega a Tempi Eugenio Borgna, psichiatra e libero docente di Clinica delle malattie nervose e mentali a Milano.
L’ossessione del controllo
La presenza della nuova piaga è emersa per la prima volta in una ricerca pubblicata nel 2004 relativa alla popolazione del Nord America. Del milione e mezzo di aborti dichiarati negli States nell’anno in cui sono stati effettuati gli studi, la metà era successiva a una o più interruzioni volontarie di gravidanza precedenti. Quasi il 20 per cento delle donne era invece al terzo aborto, il 10 aveva interrotto la gravidanza addirittura quattro volte o più. E mentre il 40 per cento delle recidive era diplomato e il 39 laureato, una percentuale simile confessava apertamente di non utilizzare alcun metodo contraccettivo.
Un dato che smentirebbe la presunta correlazione fra l’accesso e la conoscenza della contraccezione e il contenimento dell’aborto, come confermano anche i risultati del tutto simili ottenuti dalle ricerche sulla popolazione canadese svolte nel 2005 dalla University of Western Ontario sulla scia delle pubblicazioni americane.
Il Vecchio Continente, invece, sembra non voler prendere atto della tendenza, visto che le pubblicazioni europee più recenti risalgono ai primi anni Novanta, quando ancora i numeri di recidiva non destavano troppe preoccupazioni. In Italia, però, nel 2009 la rivista scientifica Ostetricia e Ginecologia, con un articolo ignorato dalla stampa, ha sollevato il problema, seppur minimizzando e accentuando il fatto che la maggioranza dei casi di recidiva si riscontra fra le straniere.
Ma il dato, relativo al 2007, resta grave se si tiene conto che il tasso di abortività delle italiane è più basso in generale di quello delle straniere. Si legge che fra le recidive italiane (21,5 per cento), il 18 per cento ha fatto ricorso all’interruzione di gravidanza per ben tre volte, mentre l’11 ha abortito anche più di quattro volte.
Nel corso di alcune indagini svolte a Ginevra (i cui risultati sono citati da Ostetricia e Ginecologia) è emerso poi che fra le cause del fenomeno vi sono problemi di personalità volubile, «una triade psicologica» caratterizzata da «una tendenza alla depressione, un grande senso di dipendenza e una forte passività. Soprattutto quest’ultima, associata ad un frustrante desiderio di essere più intraprendenti e più capaci di controllo» della propria vita. Dagli studi ginevrini viene inoltre escluso che le differenze culturali ed economiche siano fattori incidenti sulla tendenza a ripetere l’aborto.
I numeri allarmanti di Mentova
Nel suo libro Irene Vilar si definisce una ex “aborto-dipendente”. E se ci fosse anche questo aspetto patologico nelle tendenze rilevate dalle ricerche?
Borgna rifugge le semplificazioni: «Il rifiuto della maternità è una forma di controllo della propria vita, ma è un atto responsabile e volontario. Dire che l’aborto è un disturbo rischia di farci concludere che non c’è responsabilità in chi lo compie. C’è un aspetto di libertà che rimane». Ma il ricorso all’aborto non rischia di diventare un comportamento compulsivo epocale come l’anoressia? «I comportamenti ossessivi ripetuti sono sempre esistiti (penso a nevrosi come il gioco d’azzardo o l’alcolismo), anche se ora sono aumentate le percentuali dei disturbati e questo è da attribuire all’insicurezza dilagante e alla mancanza di un’educazione affettiva adeguata, come conferma Vilar».
Queste nevrosi, «già presenti sin dall’antichità», hanno assunto nuove dimensioni e caratteristiche per via di fattori culturali specifici, «per via di un iper-individualismo, che rifiuta l’alterità in nome della libertà, propagandato massicciamente negli anni Sessanta. La forte enfasi sul corpo tipica della nostra epoca fa sì che ci giochiamo la nostra identità attraverso quest’ultimo. Così oggi se ci si vuole esprimere o dire qualcosa lo si fa molto di più attraverso la fisicità. Se poi la nostra identità è fragile, per sentirci adeguati dobbiamo adattare il nostro corpo a quello propagandato come “migliore” dai mezzi di comunicazione, ovvero quello evanescente».
Se il combinato tra l’ossessione del corpo e l’identità fragile influisce sui nuovi disturbi alimentari, «è stata la cosiddetta liberazione sessuale, lo slogan secondo cui “il corpo è mio e lo gestisco io”, a spingerci a credere che per essere liberi e affermarci bisogna sbarazzarsi degli altri, figli compresi».
Borgna lega poi il rifiuto della contraccezione a una forma di ribellione estrema per cui si arriva ad accettare un dolore maggiore piuttosto che adottare precauzioni: «L’aborto – conferma lo psichiatra – è usato sempre più come metodo contraccettivo perché il fatto di non accettare alcun vincolo è arrivato all’esasperazione. Così anche la contraccezione, che doveva servire a liberare la donna dalla maternità, oggi è sentita come una forma di schiavitù del proprio corpo». Siamo intrappolati in noi stessi, come il mitologico Narciso.
«Il rifiuto ossessivo dell’essere madri è da attribuirsi proprio al narcisismo, all’incapacità di accettare l’altro da sé, che legata alla repulsione per la contraccezione si esprime di conseguenza nella ripetizione dell’aborto. Il problema del rifiuto della maternità, però, sta a monte ed è presente anche nella donna che abortisce una sola volta. Anche se magari poi impara a evitare la gravidanza con altri mezzi e nasconde più facilmente il suo disagio».
A breve saranno pubblicati i risultati di alcune analisi concluse nel 2010 e relative alla Provincia di Mantova. I dati raccolti testimonierebbero che la tendenza riscontrata in America e Regno Unito esiste anche in Italia. Le donne che hanno abortito volontariamente più di due volte (42 per cento) sarebbero il doppio di quelle che lo hanno fatto una volta sola (22). Ci sarebbe inoltre parità fra recidive straniere e italiane, in gran parte donne coniugate (44 per cento) e diplomate o laureate (37).
Chissà se a questa allarmante ricerca seguirà un’indagine nazionale più approfondita.