di Mario Palmaro
Un sacerdote cattolico può negare l’assoluzione a un penitente? Sembrerebbe di no, almeno a leggere certa stampa laica. A Treviso una donna, determinata a sposare civilmente un uomo divorziato, si è vista rifiutare l’assoluzione dal confessore. Apriti cielo: la Repubblica, usando le tinte fosche del dramma, descrive la signora che esce “dal confessionale con le lacrime agli occhi”, e parla di “fedele trevigiana messa alla porta”.
In primo luogo, l’uomo moderno è stato abituato a ragionare con le categorie dei diritti, abolendo completamente la prospettiva dei doveri. In questa visione distorta, Dio non ha diritti, mentre l’uomo detiene i cosiddetti diritti civili, che implicano la perfetta sovrapposizione tra desiderio e sua realizzazione. Se un fedele desidera confessarsi, significa che desidera l’assoluzione: ergo, qualcuno gliela deve dare. Il fedele è come un consumatore, la Chiesa eroga un servizio a richiesta. Il fedele è un cliente, che com’è noto, ha sempre ragione anche quando ha torto. Ovviamente, questa non è più la Chiesa, ma la sua caricatura; e tuttavia, i maitre à penser della cultura laica esigono dal Papa e dai preti questa “attualizzazione” del cattolicesimo alle esigenze della modernità.
Seconda osservazione: quando parlano di dottrina cattolica, i giornali laici dimostrano un’ignoranza enciclopedica, alimentata da un atteggiamento pretestuoso: tutto serve per gettare una cattiva luce sul cattolicesimo e, soprattutto, sulla sua esigente morale in materia sessuale e familiare. Se il confessore avesse rifiutato l’assoluzione a un evasore impenitente, quelli di Repubblica l’avrebbero portato in trionfo, perché per loro “divorziare è bello”, mentre non pagare le tasse è imperdonabile.
Terza, fondamentale considerazione: se questi falsi scandali contro la Chiesa stanno diventando sempre più frequenti, lo dobbiamo all’esistenza di un “cattolicesimo senza dottrina”. Un cattolicesimo che ha deciso di abolire alcuni spezzoni delle verità insegnate della Chiesa, con la scusa che “tanto queste cose la gente le sa”, argomento perfetto per fare in modo che la gente smetta di saperle. Ma ogni volta che una verità cattolica viene taciuta o non viene testimoniata, lo spazio di libertà della Chiesa si riduce. Se, ad esempio, per decenni si abolisce la categoria teologia del “castigo di Dio”, quando poi un buon cattolico la rispolvera, subisce il linciaggio mediatico.
Se si ripete per decenni che l’inferno è vuoto, quando poi qualcuno torna a parlare della salvezza delle anime viene chiesta la sua perizia psichiatrica. Se taluni sacerdoti sviliscono la confessione, trasformandola in una chiacchierata dal lieto fine garantito, ecco che il prete che rifiuta l’assoluzione per mancanza del proposito di non più peccare viene messo in croce dai media. Man mano che la Chiesa rinuncia a ribadire opportune et importune soprattutto le verità più scomode, il mondo moderno erode il territorio della libertas Ecclesiae e la riduce al silenzio.
Come sempre, insomma, l’apologetica fronteggia due minacce: da un lato, l’animosità dei nemici della Chiesa; dall’altro, lo stato confusionale interno al mondo cattolico, incarnato da quei cattolici che hanno pensato fosse buona cosa sostituire – metaforicamente – i tarallucci al pane azimo delle ostie. Come se la Chiesa fosse stata fondata da Cristo perché tutto finisse, appunto, a tarallucci e vino. Come se i cristiani fossero stati chiamati a portare nel mondo zucchero piuttosto che sale. Una religione dell’amore, ma senza il sacrificio.
Un cattolicesimo rappresentato, più che da Roma, da Woodstock, dove i confessori assolvono tutti, a prescindere. E dove Gesù perdona la peccatrice, ma le raccomanda di tornarsene a peccare come e più di prima. Per fare contenta Repubblica.