27 settembre 2015
di Roberto Marchesini
Alice Sabatini, Miss Italia 2015: “[Mi sarebbe piaciuto vivere nel] 1942… per vedere realmente la Seconda Guerra Mondiale, visto che i libri parlano pagine e pagine… beh, la volevo vivere. Però tanto so’ donna, tanto il militare non l’avrei fatto, sarei rimasta a casa con la paura di…”. Questa frase è rimbalzata ovunque nel web, prono come al solito all’indignazione telecomandata (“Siamo passati da «Vorrei la pace nel mondo» a «Vorrei vivere la guerra»”). Poi Alice ha avuto modo di spiegarsi (meglio: ha dovuto giustificarsi) e ha mostrato uno spessore umano maggiore di molti che l’hanno sbeffeggiata sui social network: «La mia bisnonna ha vissuto quel periodo. La sera della finale ero agitata perciò, quando mi hanno chiesto del periodo storico in cui avrei voluto vivere, ho pensato subito alla mia bisnonna Augusta».
Ciò che colpisce della frase di Miss Italia non è il fatto che avrebbe voluto avere una conoscenza più approfondita delle vicende vissute dalla sua bisnonna (cosa che le fa onore), quanto questa parte: «Tanto so’ donna, tanto il militare non l’avrei fatto».
Alice Sabatini ha detto una cosa ovvia, ma di quelle esplosive: la guerra è sempre stata cosa da uomini. Toccava agli uomini uccidere e farsi uccidere in guerra, almeno fino a quando il femminismo non ha aperto questa possibilità anche alle donne (clicca qui). All’uomo toccava anche fare il poliziotto, il carabinere, insomma: quei lavori nei quali bisogna essere disposti a farsi male al posto degli altri.
All’uomo erano riservati anche i cosiddetti lavori pesanti, o pericolosi: minatore, muratore, manovale, contadino… Per questo motivo veniva servito a tavola, e a lui veniva riservato il boccone migliore. Non per sudditanza, o servilismo. Era una mera questione pratica: era necessario nutrire colui che, con la sua fatica fisica, procurava il sostentamento della famiglia. Questo, infatti, era il compito del padre di famiglia, il suo dovere: provvedere al mantenimento di chi gli si era affidato. È comprensibile che, con l’introduzione del lavoro femminile, questa tutela dell’integrità fisica di chi, con il proprio corpo, permetteva la sopravvivenza di tutti, abbia perso di significato. Mi accorgo di aver usato il tempo passato, e mi correggo.
Le “quote rosa” prevedono un minimo di presenze femminili in alcuni settori (politici, economici…). Ma solo nei posti di potere: liste elettorali, consigli d’amministrazione, ruoli dirigenziali… Nessuno reclama le quote rosa nei cantieri edili, in miniera, in settori dove non c’è potere ma solo fatica fisica. Questi posti restano appannaggio degli uomini, e nessuna femminista o ideologa di genere ha nulla da ridire. Le situazioni nelle quali occorre la fatica fisica, il lavoro pesante, restino pure sessisti. Anche il munus del mantenimento della famiglia è rimasto maschile, e nessuno rivendica parità di diritti. La disoccupazione maschile e femminile non è vissuta allo stesso modo, perché gli uomini sanno che il sostentamento dei familiari pesa sulle loro spalle. Se qualcuno ne dubita, approfondisca il tema degli assegni di mantenimento nelle sentenze di divorzio e separazione: anche qui nessuno si sbraccia per la “parità tra i sessi”.
Vogliamo poi parlare del rapporto con i figli? Sappiamo benissimo (vedansi i lavori di Osvaldo Poli e di Claudio Risè) che al padre non viene riconosciuto alcun ruolo educativo: egli ha il solo compito di fecondare la donna, fino a quando la Scienza (maiuscolo) non avrà trovato il modo di permettere alle donne di concepire senza l’intervento maschile. Vogliamo ricordare che la legge 194/78, che legalizza l’aborto, non prende nemmeno in considerazione l’opinione del padre?
Insomma: ci crediamo proprio alla favoletta di quanto sia piacevole essere maschio e di quanto sia duro ed umiliante essere donna? Io prenderei in considerazione una ipotesi alternativa.
Nel corso dei secoli, accanto alla nobiltà “di spada”, sorse la cosiddetta “nobiltà di toga”. Consisteva, la seconda, in una nuova classe sociale costituita da borghesi arricchiti che avevano acquistato un titolo nobiliare. Aspiravano, i borghesi arricchiti, ad un salto sociale: la nobiltà. Il punto è che la “nobiltà di spada” considerava la propria posizione come un dovere, non un beneficio. Il loro munus era appunto quello della spada, cioè della difesa armata, fino alla morte, delle persone che gli erano state affidate. Per questo gli erano state affidate terre e proprietà, per questo potevano riscuotere tributi: venivano mantenuti perché, nel momento del bisogno, si sacrificassero. Noblesse oblige, la nobiltà è un dovere, si diceva.
Ma i borghesi arricchiti non aspiravano esattamente a questo: aspiravano a vivere tra gli agi, nel lusso, senza dover più lavorare. Volevano la botte piena e la moglie ubriaca. Erano snob, cioè sine nobilitate: avevano terre e castelli, ma non ciò a cui aspiravano, la nobiltà. Bene, l’impressione è che il femminismo abbia compiuto la stessa operazione, ossia trasformato il compito della virilità in un beneficio, ignorando il sacrificio che essa comporta.
Ad Alice Sabatini, quindi, i complimenti: sia per aver dimostrato una profondità che i “bimbominkia” che affollano i social network non hanno; sia per averci ricordato che il sesso è un compito, un dovere, e non un gioco.