La Roccia n. 5 settembre-ottobre 2015
Ettore Gotti Tedeschi, economista, presidente in Italia di una banca internazionale, già presidente dello lor, l’Istituto per le opere di religione. È soprattutto conosciuto per avere contribuito in modo importante a diffondere l’idea che l’inverno demografico, cioè il fatto che in Italia dagli anni ’70 nascano sempre meno bambini, non sia una delle tante problematiche che affliggono il Bel Paese, ma sia la questione che ha originato la crisi economica che stiamo vivendo e dalla quale non si riesce a uscire, volendo negarne le vere origini. Gli abbiamo chiesto qualche indicazione per comprendere la crisi economica che sembra attanagliare l’Europa.
a cura di Marco Invernizzi
Una causa morale e culturale, dunque, all’origine della crisi economica… Ci spieghi come è pervenuto a questa convinzione.
Mi misi a studiare le tendenze dell’impatto economico e finanziario sulla crisi demografica. Erano gli anni 70 del secolo scorso e la crisi demografica in Occidente, almeno in Italia, non era ancora visibile, né era percepita. Eppure, un modello culturale neomalthusiano cominciò a circolare e a diventare di moda nella cultura italiana e occidentale. Mi resi conto, progressivamente, che questo impatto sarebbe stato epocale, cioè cominciai a percepire che la crisi scaturita dal crollo della natalità in Occidente avrebbe provocato dei cambiamenti radicali nella vita pubblica ed economica delle nazioni.
Chi si opponeva a questa visione del mondo emergente veniva escluso dagli ambienti importanti e trattato come un retrogrado. Fu il caso di Colin Clark (1905-1989), lo studioso anglo-australiano che entrò in conflitto con la Fao, l’organizzazione delle Nazioni Unite per l’alimentazione e l’agricoltura, spiegando, attraverso i suoi studi di statistica, che la sovrappopolazione era un mito infondato da un punto di vista scientifico. La tesi contro cui combatté Clark era sostanzialmente contenuta nel mito della sovrappopolazione, lo cominciai a studiare soprattutto l’impatto finanziario e sui risparmi di questa tesi, che avrebbe creato problemi monetari creditizi per il sistema bancario (e perciò con gravi ripercussioni sugli investimenti e sullo sviluppo).
Chi alimenta la base monetaria del sistema bancario, che poi permette di aiutare le famiglie e le imprese con l’elargizione del credito, è il flusso di liquidità generato dalle imprese e dalle famiglie, a sua volta generato dalla crescita reale del prodotto interno lordo (pil) di una nazione. Ma il pil aumenta realmente soltanto se cresce la popolazione, mentre decresce con la diminuzione della popolazione. Le eccezioni riguardano la crescita di esportazioni o una maggiore produttività, esattamente il caso opposto di ciò che avvenne.
Ancora negli anni 70 la popolazione italiana risparmiava il 25% circa dei guadagni, mentre oggi questa quota si è ridotta al 5%. Un popolo di risparmiatori si è trasformato in un popolo di consumatori, perché il centro della società è diventato l’individuo al posto della famiglia. Il fenomeno di trasformazione dell’Occidente intero (Usa ed Europa, anche se in contesti differenti) in un’area di consumatori sempre meno produttori e invece dei Paesi asiatici (dove si trasferirono le produzioni) in Paesi produttori e non ancora consumatori, è l’origine di questo nuovo ordine economico mondiale, di cui sembra non vogliamo renderci conto appieno.
Un sistema economico basato sui consumi, di fronte alla diminuzione del pil, ha bisogno di far crescere i consumi e per fare questo deve trasferire i risparmi in consumi. Questo è precisamente quello che è avvenuto in questi trent’anni: una progressiva eccitazione dei consumi individuali attraverso una pubblicità sempre più sofisticata, favorita dal fatto che il single, per definizione, è un consumatore rispetto alla famiglia che, invece, tende a risparmiare.
Ma la crisi non si è fermata…
E infatti le banche sono state costrette a inventarsi i prodotti derivati per fare fronte a questa crisi, cioè per trovare uno strumento finanziario che permettesse di creare “artificialmente” quei flussi di liquidità necessari a finanziare la crescita necessaria dei consumi, indispensabile a sostenere la crescita del pil in mancanza di crescita della popolazione.
Ma in che cosa consistono questi prodotti derivati e in che modo hanno avuto un ruolo importante nella crisi del 2008?
Il derivato è un valore finanziario che dipende da un altro valore sottostante, che normalmente è un valore reale. Tecnicamente sono prodotti legati a previsioni di andamento dei mercati, opzioni di acquisto o vendita, compensazioni fra operazioni, ecc. In parole meno tecniche sono modelli (di per sé corretti) per creare redditività, liquidità, ecc. In parole semplicissime, soprattutto quando questi prodotti sono lasciati alla libertà della creatività dei banchieri, i derivati equivalgono alla “moltiplicazione dei pani e dei pesci” senza un vero miracolo.
I pani e pesci moltiplicati sono la finanza necessaria, soprattutto quando questa è inferiore alle necessità di un sistema che sostiene con il debito una struttura economica insostenibile.
Per fare fronte alla crisi si è spostata la produzione industriale nei paesi in via di sviluppo, in particolare in Asia, dove il costo della manodopera è molto più basso
Si tratta del fenomeno della delocalizzazione, che però ha di fatto portato alla deindustrializzazione dei Paesi occidentali, che hanno spostato la loro produzione all’estero. E contemporaneamente ha creato uno sviluppo economico troppo accelerato in Paesi in via di sviluppo. E questo ha creato altri problemi di squilibrio socioeconomico e ambientali, quelli che papa Francesco rileva in Laudato sì. Se si volesse fare un’analisi opportuna sullo squilibrio ambientale che si è prodotto negli ultimi decenni potremmo scoprire che anch’esso è dovuto al crollo, per ragioni egoistiche, della popolazione nel mondo occidentale e non invece alla crescita della stessa nel resto del mondo. Ma i consiglieri del Papa nella stesura dell’enciclica si son ben guardati dallo spiegarglielo…
Nel frattempo la popolazione occidentale è invecchiata.
Crescita zero della popolazione significa che il numero di abitanti resta magari anche uguale, ma cambia la struttura della popolazione, cambia la sua composizione, diminuisce proporzionatamente il numero dei giovani che producono, diminuisce il numero di famiglie che si formano, crescono invece esponenzialmente i vecchi che vanno in pensione e rappresentano un onere sociale sempre più alto per un contributo sempre più basso. Per fare fronte a questo problema, gli Stati, in particolare quello italiano, hanno ritenuto di aumentare di molto l’imposizione fiscale, che oltretutto è andata a gravare sulle famiglie, favorendo invece i single.
Anche questa è una conseguenza diretta della scelta culturale di privilegiare l’individuo come base portante del corpo sociale rispetto alla famiglia. Tuttavia la crescita della imposizione fiscale (quasi raddoppiata in Italia tra il 1975 e il 2005) non ha soltanto ridotto il reddito delle famiglie, ma anche quello delle imprese, che conseguentemente hanno ridotto sempre più gli investimenti. Delocalizzazione da una parte e riduzione degli investimenti produttivi dall’altra spiegano perché oggi abbiamo un 35% di disoccupazione giovanile… Ma non è finita qui. Per compensare questi fenomeni si è incoraggiato il consumismo a debito delle famiglie, che da risparmiatrici che erano sono diventate indebitate e sempre meno indipendenti…
Che cosa potrebbe fare uno Stato per aiutare la soluzione della crisi demografica, per esempio in Italia?
Dovrebbe anzitutto prendere atto che la crisi è antropologica, prima che economica e finanziaria. E di conseguenza cercare dei modelli che possano ispirare una soluzione, non tanto tecnica, ma appunto culturale. Da questo punto di vista la Chiesa ha fatto il suo dovere, con il suo Magistero sociale che, dalla Rerum novarum (1891) in poi, racconta agli Stati come provare a uscire dalla crisi: in particolare nella prima enciclica di papa Francesco, la Lumen fidei (2013), si possono trovare molti spunti importanti.
Chiaramente la Chiesa non fornisce soluzioni tecniche, ma nel suo insegnamento c’è una saggezza che potrebbe ispirare soluzioni adeguate e soprattutto la convinzione che non si esce dalla crisi cambiando gli strumenti, ma mutando i criteri di giudizio dell’uomo, in sintesi la sua cultura, quella che spiega il senso della vita… La Chiesa ha fatto il suo dovere, ha parlato con il suo Magistero, ma non è stata ascoltata, neppure da molti preti. L’uomo contemporaneo, che ha perso il senso della vita e quindi il senso delle proprie azioni, in quel Magistero potrebbe trovare quel punto di riferimento che cerca disperatamente, anche se magari in modo inconscio.
Un’ultima domanda, di estrema attualità: che cosa è successo in Grecia e quali conseguenze potrebbero derivare da questa crisi che sembra intaccare l’Unione Europea?
Una spiegazione sostenibile non è semplice in poche righe. Potrei rispondere che la Grecia entra nella globalizzazione accelerata con un ruolo minimo, entra nell’euro essendo molto debole, senza strategie economiche industriali e produttive, con un debito già alto e altri fattori di debolezza. Nel 2008, quando la crisi fa boom negli Usa e questi devono nazionalizzare il debito delle famiglie americane (utilizzato per dieci anni per drogare la crescita del pil) al fine di salvare dal fallimento le banche, il debito Usa incrementato viene collocato in gran parte su Paesi che sottoscrivevano il debito greco (e anche quello italiano…).
Il debito greco comincia a costare più caro (a causa degli spread generati dagli apprezzamenti delle agenzie di rating americane). La Grecia, già debole e senza strategia politica ed economica, non regge. L’Europa fa finta di non capire ciò che sta succedendo, e così siamo arrivati a oggi. Questo spiega perché alla fine Tsipras si è rivolto a Obama e quest’ultimo è intervenuto dimostrando che il problema della Grecia non è unicamente europeo.