di Alfredo Cattabiani
Mi pare utile un sintetico commento alla polemica fra Cesare Viviani e Gilberto Finzi sulla cortesia che è uno dei fondamenti del vivere armonico perché consiste nel predisporre l’animo altrui alla benevolenza e al buon umore. E’ un atto di suprema civiltà e anche conveniente, come ci ricordano due proverbi: «La cortesia ci conserva gli amici» e «La cortesia ci procura amici e la verità cruda ci procura l’odio».
Nell’antichità era chiamata in vari modi: urbanitas, civilitas, humanitas. Urbanitas perché si contrapponeva alla rozzezza e alla ruvidezza del “villano”, di colui che abitava nella villa; civilitas per sottolineare che l’affabilità, la semplicità di maniere, e la cortesia erano tipiche del cuius consapevole della sua dignità di cittadino romano; e infine humanitas, che ci sembra il termine latino più felice per definire quell’intreccio di amabilità, benevolenza, educazione, cultura, affabilità, dolcezza, educazione del signore che dal medioevo venne chiamato “cortese” (da corte) e di cui ci ha dato un ritratto compiuto nel Cinquecento Baldesar Castiglione con «Il libro del Cortegiano».
La cortesia infatti non consiste semplicemente nelle buone maniere. E’ qualcosa di più profondo, come mi ricordò in seconda media un padre gesuita déll’Istituto sociale di Torino. Nell’atrio della scuola, campeggiavano due imponenti comici di legno, sovrastate rispettivamente dalle scritte «Albo dell’istruzione» e «Albo della educazione». Ogni mese incorniciavano i nomi, scritti in bella calligrafia floreale, di quegli allievi che si erano distinti nei due campi perché la buona educazione era considerata dai padri gesuiti pari alla istruzione.
«Perché non limitarsi a segnalare la buona condotta, come nelle pagelle?», obiettai un giorno al padre spirituale. «Perché», mi rispose enigmaticamente, «la buona creanza, come ha scritto san Vincenzo de Paoli, è metà della santità, e prima di lui san Francesco de Sales ha spiegato che la compitezza è il primo gradino della santità».
Fui sconcertato da quella criptica definizione che mi sembrava troppo intellettualistica; finché un giorno, durante la ricreazione, volli riprendere il discorso. «Vedi», mi rispose allusivamente, «per diventare una persona cortese è necessario un primo fondamentale passo: controllare le proprie pulsioni; sicché un’aurea regola comanda che tutti i gesti e i comportamenti che turbino l’armonia interiore vengano banditi; e insegna anche massime come: “Commiserarsi è infame”, “Compiacersi di aver ragione è odioso”, “Avere troppa coscienza di se stessi è sgradevole”.
Quella lezione continuò con la citazione di un brano di un cistercense, il piemontese cardinal Giovanni Bona che, vissuto nel XVII secolo, aveva tracciato il profilo mondano di un santo: «Pronto all’omaggio, tacito agli affronti, verecondo verso gli onori, difficile a indignarsi, affabile, trattabile, lieto e moderatamente giocondo, socievole senza disprezzo, grato, benefico, attraente». Certo, non è facile giungere a tanta perfezione per chi non abbia la vocazione alla santità.
Ma un primo laico gradino lo si potrebbe salire cominciando a disciplinare il nostro io, a considerare gli altri non come strumenti per il nostro piacere, a provare interesse e rispetto per chiunque s’incontri cercando di farlo sentire a suo agio. È questa benevolenza nei confronti degli altri la fonte dell’autentica cortesia che si esprime mediante le buone maniere ma non vi si esaurisce, anche perché i codici di comportamento variano secondo i luoghi e le epoche.