L’affido condiviso si rivela un flop
Maria Lombardi
ROMA – «Caro papà, mi sono iscritta su facebook per seguire la tua vita, per sapere cosa fai e come vivi senza me. Perché non vieni più a scuola a prendermi? Perché devo sentirmi sola e umiliata dalla tua indifferenza?». Così scrive una figlia di 15 anni che si sente ex, proprio come la madre.
Solo che lei non ha deciso nulla. Non ha firmato nessuna carta in tribunale e fatica a capire perché adesso si ritrova con un genitore soltanto.Come tanti figli costretti a rinunciare a una metà della vita: un milione e mezzo in dieci anni i bambini e i ragazzi coinvolti nelle liti. Poco o niente è cambiato con l’affido condiviso.
La legge 54 del 2006 che avrebbe dovuto segnare la rivincita dei padri – quasi sempre tagliati fuori dalla famiglia dopo la rottura – e il tanto sperato trionfo della «bigenitorialità»: mamma e papà che si prendono insieme cura dei figli, dividono tempo, spese e impegno anche se non sono più marito e moglie. Un fallimento, dicono a distanza di qualche anno, avvocati e psicologi.
«Quella legge è una scatola vuota priva di contenuti», Gian Ettore Gassani, presidente dell’Ami (l’associazione avvocati matrimonialisti italiani) ha dedicato al naufragio della normativa più di un capitolo del suo libro sul mondo dei matrimoni che finiscono in tribunale, «I perplessi sposi» (Aliberti editore).
Eppure l’affido condiviso è applicato nell’ottanta per cento dei casi in Italia, altrove in Europa funziona benissimo. «Ma la nostra cultura ancora tradizionalista e l’atteggiamento conservatore della magistratura e degli addetti ai lavori- aggiunge Gassani – hanno impedito finora il compimento delle nuove regole». …. .
Così l’affidamento condiviso è stato finora un contentino dato ai padri. «Nella sostanza però i tempi concessi al genitore che non vive con il figlio sono sovrapponibili a quelli di quando era in vigore l’affidamento a un solo genitore», spiega Gassani. Un paio di pomeriggi a settimana, un week-end ogni due, il mese di vacanza.
Sono 950mila i padri che riescono a vedere i figli solo un giorno a settimana. Così le nuove norme diventano «una presa in giro» e chi non vive in casa – come prima, nella maggior parte dei casi il padre – resta confinato nel ruolo di accompagnatore al luna-park o al cinema. Tanto più che le sanzioni per chi ostacola gli incontri «sono rare, simboliche e del tutto inutili». Tante volte la scelta è affidata ai figli, anche piccoli: «vuoi vedere papà?» oppure «vuoi vedere mamma?». come se un bambino potesse decidere.
«Purtroppo nel nostro paese esiste la cultura del matrimonio ma non quelladella genitorialità», Maria Beatrice Toro .psicologa e psicoterapeuta, è esperta di mediazione. «Capita di proporla a qualche coppia particolarmente in contrasto e di sentirsi rispondere: ma io non quello non voglio parlare. Il che tradisce una visione che mette al centro l’adulto e non il bambino.
Se si accetta un percorso di questo genere è per evitare danni fisici e psichici ai figli non per se stessi». Difficile farlo capire a genitori «sempre più adolescenti che regrediscono, soprattutto nel primo anno della separazione, verso la litigiosità, si lasciano in modo indecoroso, vanno via da casa con un senso di ribellione nei confronti del partner come giovani in cerca di affermazione della propria identità.
Non è un caso «se la violenza in famiglia è in aumento», dice Gassani, Violenza invisibile, «solo nel 7 per cento dei casi si arriva alla denuncia». Così come cresce la schiera dei nuovi poveri, padri che una separazione ha mandato sul lastrico, 90mila solo a Roma. «Chi dorme in macchina, chi ha comprato un camper, chi vive con 300 euro al mese e non può vedere i figli perché non ha dove ospitarli», aggiunge il presidente dell’Ami. Proprio come il protagonista della miniserie di Raiuno.
«Il diritto di famiglia è un malato terminale senza regola certe – commenta Gassani – si dovrebbe stabilire che un genitore non può versare per il mantenimento più del 50 per cento della busta paga. Bisogna tutelare i figli ma anche i padri». In 250mila vivono in condizioni di indigenza, «da barboni, impossibilitati ormai a essere genitori».