L’Inkiesta 1 Febbraio 2018
Quest’anno ne compie 50, ma con la sua etica soggettivistica e libertaria il ’68 ha distrutto i valori che l’hanno fondato a sinistra gettando le basi per il trionfo dell’odiato capitalismo
di Alessio Postiglione
La fantasia al potere è arrivata. Comici, saltimbanchi, nani e ballerine. Difficile non scorgere nell’attuale mediocrazia che domina la politica e qualsiasi altro ambito della vita italiana un inveramento, magari distorto, di certi principi del ‘68. Nell’anno del cinquantenario, che una classe di ex giovani che ha fatto fuori brillantemente i padri, senza lasciare manco un trapuntino ai figli, si appresta a celebrare per festeggiare la presa del potere, si palesano le contraddizioni di una rivoluzione sui cui meriti, oggi, avanziamo parecchi dubbi.
Il ‘68, a lungo salutato come una “rivoluzione progressista” – anche per le brillanti carriere che molti protagonisti di quella stagione hanno fatto – oggi appare, non solo come un momento di crisi dell’Occidente, ma della stessa Sinistra che ne doveva incarnare l’anima più profonda.
Dalla sinistra comunitaria, alla sinistra individualista e liberale, al punto che il filosofo marxista francese Jean Claude Michéa ha parlato di “sinistra fase suprema del Capitalismo”, per spiegare come quei valori libertari e anti autoritari del ‘68, lungi dall’emancipare l’Uomo, abbiano favorito le dinamiche più perverse e “biopolitiche” del Capitalismo.
L’enfasi libertaria del ‘68, infatti, ha finito per legittimare il liberismo, puntellando l’individualismo ostile a freni e inibizioni della “Milano da Bere”. Vietato vietare è il mantra del mercato che deve ricondurre alle logiche di profitto ogni ambito della vita, a incominciare dal privato, di cui Simone De Beauvoir legittimò l’esproprio con il suo celebre “il privato è pubblico”.
L’ultrademocraticismo livellante ha condotto verso la scuola che non boccia, favorendo la tabula rasa culturale di un Paese affetto da analfabetismo funzionale: l’uno vale uno nasce qui, e dall’odio di classe di quegli italiani profondamente ostili alla competenza e al “culturame”, come lo chiamava il duce. Il libertinismo e la liberazione sessuale hanno spianato la strada al capitalismo totale desiderante, che fa del primato dei bisogni indotti la sua ragione d’essere.
L’anti autoritarismo si è trasformato in rigetto dell’autorità. Lo smantellamento dell’etica protestante del Capitalismo, come la chiamava Weber, e la distruzione di ogni formazione sociale, sono servite per assoggettare ogni ambito di vita alle logiche dell’economia. La dissoluzione di ogni legame comunitario o istituzione tradizionale – famiglia, Chiesa, Stato – accusati di fascismo, è servita a spianare la strada a un Capitale che, per funzionare, ha bisogno di basarsi su di un iperindividualismo totale, che fa della retorica dell’uomo libero, artefice di se stesso, la propria pietra angolare.
Paradossalmente, quando famiglia e morale borghese diventano un impaccio per l’espansione della sfera economica, ecco che il capitalismo di destra sposa la morale libertaria di sinistra. Una sinistra dei valori, non più legata alla base materiale che l’ha prodotta.
Il ‘68, a lungo salutato come una “rivoluzione progressista” – anche per le brillanti carriere che molti protagonisti di quella stagione hanno fatto – oggi appare, non solo come un momento di crisi dell’Occidente, ma della stessa Sinistra che ne doveva incarnare l’anima più profonda
Per questo, l’imbroglio più grande lo hanno perpetrato i gruppettari che con il ‘68 hanno preso il potere: fatti fuori i padri, questi “eterni giovani” – come il giovanilismo sessantottino impone – sono passati da “Servire il popolo” a servirsi del popolo: ogni spazio è stato occupato, come richiedeva la palingenesi rivoluzionaria, e che i propri figli vadano pure a fare i camerieri con PhD in Spagna. Pasolini lo capì quando decise di parteggiare per i poliziotti-borgatari che le presero dagli studenti figli di papà a Valle Giulia: tanto a loro, il papà il posticino glielo trovava sempre.
Ma il ‘68 è stato, soprattutto, la fine della sinistra, quella popolare. Alle istanze delle classi operaie – comunità, fabbrica, “solidità” in un mondo di incertezze – la sinistra liberale ha proposto l’oppio della postmodernità: identità liquide, enfasi sulla competizione globale, le rose senza il pane. Col ‘68, insomma, è nata una nuova sinistra, non più legata alle classi subalterne, ma all’universo valoriale e aspirazionale di un ceto colto e agiato, interessato all’espressione del sé e incapace di capire le paure dei poveri che, dopo il caso fake-news, vengono anche accusati di non saper votare più “bene”.
Viva il ‘68, dunque, a patto di riconoscere che la libertà e il primato dell’individuo sono un valore per i forti, non per le classi subalterne che chiedono protezione dal mercato, non competizione nel mercato.
Alla fine, infatti, ai proletari, si sarebbe detto un tempo, non è restato che votare Trump o Salvini.
Ancora convinti di festeggiare il ‘68?