pubblicato su Il Giornale
di Irina Sirotinskaja
Varlam Tichonovic Shalamov è una di quelle rare persone – ancora più rare tra gli scrittori – nelle quali le virtù della responsabilità e moralità non hanno carattere declaratorio ma attivo. Egli riteneva che la responsabilità dello scrittore consistesse precisamente nella verità artistica della propria opera. Diceva spesso: «Lo scrittore è giudice del tempo». Un giudice però che non pronunciava la propria parola da una tribuna (come si sono deprezzate, oggi giorno, le parole!). Lo scrittore fa passare il vissuto per la propria anima, il cuore, l’intelletto, attraverso tutto se stesso – la memoria dell’anima e la memoria del corpo, come in un crogiolo dal quale, nel fuoco del talento, scaturisce una parola di verità. Parole di verità-memoria, verità-realtà, verità-giustizia.Adesso mi occupo dei testi di Shalamov, ma prima c’è stata la nostra conoscenza, e amicizia, che è durata 16 anni.
E per me è assolutamente evidente che Varlam Tichonovich, sia come uomo che come scrittore, è stato proprio un esempio morale nel senso che ho detto. Poco più che ragazzo, a 21 anni, si è messo sulla strada della giusta lotta, partecipando a dimostrazioni antistaliniste. Non però controrivoluzionarie. Era a Stalin che attribuiva la distruzione del partito e la violazione dei principi del socialismo. Richiamato all’ordine con una condanna a 3 anni di lager a Vishera (Urali settentrionali) considerò che per la sua vita fosse un esordio fortunato: essendosi rifiutato di rispondere alle domande dell’inquirente era stato rinchiuso in una cella di isolamento del carcere Butyrki ed era felice perché non aveva minimamente tradito nè se stesso nè i propri compagni.
Non appena varcato il portone del lager, egli scrive una lettera al Comitato centrale del Partito comunista e alla Ogpu sul fatto che le repressioni allontanano dal popolo il partito che in tal modo diventa un partito di burocrati. Si comporta come ritiene sia giusto, anche se nel lager è solo, circondato da delinquenti comuni e «guardie bianche». Questo ragazzo, anche senza l’appoggio di persone che la pensino come lui, compie egualmente quello che ritiene il proprio dovere.
Quel primo lager impartì al giovane una lezione rigorosa.
«Che cosa mi ha dato Vishera? Una straordinaria fiducia nella mia forza reale. Messo di fronte a una difficile prova, senza amici o correligionari, l’ ho superata, sia da un punto di vista tisico che morale. Mi reggevo saldamente in piedi e la vita non mi faceva paura».
In questo modo si temprava il carattere dell’uomo e del futuro scrittore. Nel suo futuro c’era la Kolyma, l’Ogpu gli avrebbe concesso solo cinque anni di vita in libertà.
Profondamente sensibile, vicino alle sofferenze della gente e determinato ad opporsi a un mondo nel quale avrebbe visto le vette dell’animo umano e i baratri degli umani vizi: tale era Shalamov quando si avviò per i sentieri di morte della Kolyma.
Nelle note “Ciò che ho visto e capito nel Lager” egli scrive: «La straordinaria fragilità della cultura, della civiltà umane… L’uomo si trasformava in una bestia feroce nel giro di tre settimane – tre settimane di estenuante lavoro, freddo, fame e percosse… O forse diventa una belva quando gli mettono in mano un fucile e gli permettono di ammazzare degli innocenti… Sono orgoglioso di aver deciso fin dall’inizio, fin dal 1937, che non avrei mai fatto il caposquadra, se questo significava avere potere di vita e di morte su un’altra persona e dover mettere la mia volontà al servizio dei capi, opprimendo altre persone, ch’erano poi dei detenuti come me… Le mie risorse sia fisiche che spirituali, in questa grande prova, si sono rivelate più forti di quanto pensassi e sono orgoglioso di non essere stato la causa della morte o di un prolungamento di condanna di alcuno, di non aver mai scritto delazioni di sorta…».
Altrove, anche in racconti come «La carriola», egli individua la forza che gli dà la volontà di resistere. «Lo Stato e l’individuo si incontrano faccia a faccia sulla passerella del giacimento d’oro nella forma più vivida e manifesta, senza che ci siano di mezzo artisti o letterati, i filosofi o economisti, e neppure gli storici. All’esortazione “su, forza!” il detenuto risponde con ogni suo muscolo “no”. Ed è questa la resistenza fisica e spirituale… Per lo Stato che mi ha rinchiuso innocente in un lager e che mi ammazza col freddo, la fame, le percosse – io per uno Stato del genere non mi sforzerò certo di lavorare. Al lavoro, beninteso, ci andrò (perché quelli che si rifiutano di lavorare li fucilano), ma lavorerò male. Ed è questa la mia “personale resistenza”, la quale ha anche propiziato una resistenza di tipo spirituale permettendomi di preservare in me, contro la depravazione della prigionia, il principio umano». Nei lager si potevano incontrare dei giusti. Ad esempio, Fèdor Loskutov, un medico, la cui intercessione (della quale lo scrittore non aveva saputo nulla) presso le «autorità» malavitose aveva salvato la vita allo scrittore condannato dal «tribunale dei ladri».
Lavorando (ormai dopo il 1947) all’accettazione dell’ospedale, Shalamov rimandava indietro i delinquenti-simulatori. Oppure, per fare solo un altro nome, il fisico e detenuto Georgij Demidov, il quale capiva con chiarezza quel che stavano facendo di loro e nel lager si comportava con dignitosa fermezza.
Scriveva Shalamov: «Io non credo nella letteratura in questo senso, non credo cioè ch’essa possa emendare l’uomo; l’esperienza della letteratura russa, ispirata a sentimenti umanitari, ha portato, proprio sotto i miei occhi, ai patiboli del XX secolo. Io non credo alla possibilità di distogliere chicchessia, prevenendolo, dal ripetere gli errori del passato. La storia si ripete e qualsiasi eccidio del 1937 può essere reiterato. E allora perché, nonostante questo, scrivo? Scrivo affinché qualcuno leggendo i miei racconti, familiarizzandosi con la mia prosa, molto lontana dalla menzogna, possa ricavare per la propria vita lo stimolo anche a fare solo un po’ più di bene. L’uomo deve fare qualcosa». (Dai «Taccuini»)
Del suo mestiere di scrittore pensava: «L’arte esige che vi sia conformità tra l’azione e la parola detta, e un vivo esempio può convincere altri viventi a uniformarsi ad esso – non necessariamente nel campo dell’arte, ma in un altro qualsiasi. Sono questi i compiti morali da porre – e niente di più. Non si deve ammaestrare la gente». (Dai «Taccuini»)
Ho conosciuto bene Varlam Tichonovic e posso dire in tutta coscienza: di fronte a una persona come lui ci si dovrebbe vergognare a vivere in modo indegno, a mostrarsi deboli, sarebbe impossibile essere spietati e malevoli, e menzogneri. Non per niente Solzhenicyn ebbe a chiamarlo «sua coscienza».
La propria strada nella vita egli la trova nella verità senza compromessi né abbellimenti dei Racconti di Kolyma, che la gente deve conoscere per sforzarsi di vivere secondo le leggi della giustizia e del bene. Bisogna che sia avvertita: la ripetizione del terrore è possibile, lo sterminio di persone pacifiche e innocenti è possibile. (Lo vediamo anche ai nostri giorni).
«Ma se l’ hai visto coi tuoi occhi, devi dire la verità per quanto spaventosa sia». (Lettera a Solzhenicyn, novembre. 1962, a proposito della sua rappresentazione «alleggerita» dei lager). Come scrittore egli ritiene indispensabile scrivere solo la verità senza attenuarla in alcun modo e per nessuno scopo – nè per superare la censura nè per compiacere i «paladini dei diritti civili» in Occidente. Solo questo esigono i milioni di morti: la verità.
Lui non si definiva un giusto (anche se indubbiamente lo era), di sé diceva soltanto: «Anche se non m’hanno mai affrancato, dacché sono adulto sono sempre stato libero (racconto «li non convertito»). Questa libertà interiore, preservata nell’inferno di ghiaccio, gli ha permesso di mantenersi fedele alla verità e al vero e diventare scrittore, testimone e giudice del suo tempo. Varlam Tichonovic, sembra, ha conosciuto tutte le forme di violenza che lo Stato può esercitare sull’uomo: 10 anni di vita libera su 75.
E quest’uomo ha potuto scrivere «dacché sono adulto sono sempre stato libero». E non si è mai ritenuto un martire. Malato, cieco, si sentiva anzi un Vincitore! Come ha scritto in uno dei suoi ultimi quaderni di versi: «Non ho poi vissuto tanto male! Questi difficili giorni! E sull’epoca pur tremenda! Sono stato vincitore…».
A prevalere era la consapevolezza della forza del proprio talento e della verità di ciò che aveva scritto, la superiorità sull’epoca che non era riuscita a fare di lui né un giocattolo della politica né uno schiavo dei bisogni economici. Se adesso ripenso a lui, mi si erge davanti in tutta la sua titanica statura – grande scrittore e grande uomo – che è stato capace di preservare i principi della gioventù fino agli ultimi suoi giorni in un ospizio per anziani.