Si alla vita no all’eutanasia
Pubblichiamo tre interventi del Vescovo emerito di Carpi (Mo) Mons. Francesco Cavina su InFormazione cattolica
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InFormazione cattolica 21 dicembre 2021
L’utilizzo disumanizzante delle tecnologie nelle fasi critiche o terminali della vita mette in pericolo i più deboli
Mons. Francesco Cavina
[Vescovo emerito di Carpi (Modena)]
La Chiesa guarda con speranza e attenzione al progresso delle tecnologie biomediche, che hanno accresciuto enormemente le capacità della medicina in questi ultimi decenni, considerando provvidenziale e prezioso l’utilizzo di queste scoperte. Tuttavia, rimane attenta ad offrire il giusto discernimento morale per evitare un utilizzo sproporzionato e disumanizzante delle tecnologie, soprattutto nelle fasi critiche o terminali della vita umana, come evidenziato recentemente dalla Lettera della Congregazione per la Dottrina della Fede Samaritanus Bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita (cap. I).
La riflessione sul fine vita non dovrebbe prendere spunto da una dottrina o da una speculazione astratta, ma dalla consapevolezza che tutti dovremo attraversare l’ultimo tratto della nostra esistenza terrena.
Mi riferisco al passaggio da questa vita a quella eterna. I tempi e i modi sono stabiliti da Dio. A noi non è data la facoltà né di stravolgerli né di anticiparli. Nelle parabole e negli insegnamenti evangelici notiamo che l’iniziativa è sempre del Padre.
È Lui che ci raggiunge. Noi siamo chiamati ad accogliere (la sua venuta) e ad essere pronti: «Vegliate dunque, perché non sapete in quale giorno il Signore vostro verrà» (Mt, 24, 42). E ancora: «Beato quel servo che il padrone, arrivando, troverà ad agire così!» (Mt, 24, 46).
È dunque Lui che viene, nell’ora che ha stabilito. Eppure, mai come oggi, la morte è anticipata. Prendiamo ad esempio la legge sul consenso informato e sulle DAT-Disposizioni Anticipate di Trattamento (l. n. 219 del 31 gennaio2018).
Nel testo viene affermato che ogni persona «ha il diritto di revocare in qualsiasi momento […] il consenso prestato, anche quando la revoca comporti l’interruzione del trattamento. Ai fini della presente legge, sono considerati trattamenti sanitari la nutrizione artificiale e l’idratazione artificiale, in quanto somministrazione, su prescrizione medica, di nutrienti mediante dispositivi medici» (art. 1, comma 5).
Nella legge la somministrazione di acqua e di cibo vengono considerati come “trattamenti sanitari” che possono essere interrotti su richiesta del paziente.
Domandiamoci: quali sofferenze può patire il paziente lasciato morire di fame e di sete? Già nel 1986 una équipe di medici specialisti, su incarico di un giudice del Massachusetts (Stati Uniti), che aveva autorizzato il distacco del sondino naso-gastrico da un paziente in stato vegetativo, stilò un documento che descriveva la morte per disidratazione come agonia atroce.
A questo punto vale la pena di ricordare come san Giovanni Paolo II, nella Lettera apostolica Salvifici doloris (1984), chiarisca in modo illuminante come la vera compassione, se da una parte «promuove ogni ragionevole sforzo per favorire la guarigione del paziente», dall’altra «aiuta a fermarsi quando nessuna azione risulta ormai utile a tale fine».
Di qui il rifiuto dell’accanimento terapeutico, il quale non è il rifiuto del paziente e della sua vita, ma rifiuto di intraprendere o decisione di interrompere una terapia sproporzionata ai fini del sostegno alla vita o del recupero della salute.
La sospensione della terapia, tuttavia, non deve fare venire meno la cura della persona: l’idratazione, la nutrizione, l’igiene ed altresì aiuti adeguati e proporzionati alla respirazione…
Mi diceva un’infermiera che lavora in un hospice che è importante fare controllare un occhio, un orecchio, un ginocchio anche quando il malato è quasi giunto al termine della vita, perché il compito centrale di chi lavora nelle cure palliative è accompagnare ed aiutare a rimanere vivi fino alla fine, dentro ad una dignità insita nella persona umana.
Tale precisazione si rende oggi indispensabile alla luce dei numerosi casi giudiziari che negli ultimi anni hanno condotto alla desistenza curativa – e alla morte anticipata – di pazienti in condizioni critiche, ma non terminali, a cui si è deciso di sospendere le cure di sostegno vitale, non avendo ormai essi prospettive di miglioramento della qualità della vita.
Concludo questa mia prima riflessione sul tema del fine vita richiamando un importante discorso di Papa Francesco sulla necessità che i cristiani affrontino e cerchino di correggere il contesto socioculturale attuale, poiché «sta progressivamente erodendo la consapevolezza riguardo a ciò che rende preziosa la vita umana. Essa, infatti, sempre più spesso viene valutata in ragione della sua efficienza e utilità, al punto da considerare “vite scartate” o “vite indegne” quelle che non rispondono a tale criterio» (Papa Francesco, Discorso ai partecipanti all’Assemblea Plenaria della Congregazione per la Dottrina della Fede, 30 gennaio 2020).
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InFormazione cattolica 22 dicembre 2021
Se una persona giunge a chiedere la morte, cosa vuole veramente?
Mons. Francesco Cavina
La vita umana è sempre un bene intangibile e un valore inalienabile, e anche quando la persona giunge a chiedere la morte, occorre domandarsi cosa cela quel grido.
Il 28 febbraio 2014 in Belgio è stata promulgata la legge che approva l’eutanasia per i minorenni, senza limiti di età. In un articolo apparso su un quotidiano belga un genitore ha dichiarato: «I genitori migliori sono quelli che lasciano andare i propri figli».
Ma è proprio così! Esiste una grande differenza tra lasciare andare il figlio e ucciderlo. Il neuro pediatra francese Alain de Broca, fondatore dell’Associazione per la promozione delle cure palliative in pediatria, segue giorno e notte centinaia di bambini con malattie incurabili, fornendo loro cure che tolgono il dolore e permettono loro una qualità della vita altrimenti impossibile.
Ebbene, in un’intervista ha dichiarato: «In tutta la mia vita non ho mai sentito un bambino che abbia chiesto di essere lasciato morire perché soffriva troppo». Ed ha aggiunto: «L’eutanasia non è una cura, ma soltanto un termine per mettere fine alla vita dei malati. Di fatto in questo modo si sceglie di rinunciare a occuparci di loro»(Il Sussidiario.net, 4 dicembre 2013).
Se un bambino non ha mai chiesto l’eutanasia, qualcuno deve suggerire loro questa possibilità.
Ma è immaginabile un mondo in cui sono i genitori a proporre ai loro figli di morire?I migliori genitori sono quelli che si prendono cura dei loro figli fino alla fine!
È giunto il tempo di ascoltare chi ha vissuto sul campo l’esperienza della prossimità a chi soffre. Tra le personalità più autorevoli e credibili troviamo la straordinaria figura dell’infermiera britannica Cicely Saunders (1918-2005), poi divenuta medico e fondatrice del primo hospice, il St. Cristopher a Londra. Questa straordinaria donna ha posto le basi della nostra moderna terapia del dolore e delle cure palliative.
In particolare, la Saunders ha intuito che liberare la persona malata dal dolore e dalla sofferenza significa comprendere che dolore e sofferenza non hanno solo una dimensione fisica, bensì anche emotiva, psicologica, sociale e spirituale. È ciò che lei definisce il dolore totale, davanti al quale ci può essere solo la risposta di un amore totale che si rende presenza.
Il paziente terminale deve anzitutto continuare a vivere la relazione, come elemento costitutivo della sua natura: relazione coi suoi cari, con chi lo assiste e, non da ultimo, deve avere la possibilità di coltivare la sua relazione con Dio.
Cicely aveva scoperto che l’indicazione più preziosa per accompagnare la persona nel suo ultimo tragitto terreno è racchiusa nelle parole di Cristo nel Getsemani: Vegliate con me. Scriveva: «Il nostro fondamento più importante per il St. Christopher è la speranza che nel vegliare possiamo imparare non soltanto come rendere i pazienti liberi dal dolore e dalla sofferenza, come capirli e non abbandonarli mai, ma anche come stare in silenzio, come ascoltare, come esserci. Nel comprendere ciò capiamo che il vero lavoro non è affatto nostro» (Vegliate con me, EDB, p. 44).
Alla luce di tutto questo pensiamo al dramma di tanti malati che hanno vissuto l’agonia della solitudine e dell’abbandono nei reparti Covid degli ospedali, spesso fino al punto di non poter ricevere il conforto dei sacramenti.
L’esperienza e l’eredità lasciata da Cicely e da tanti altri come lei, ci insegna il vero significato del prendersi cura del paziente, incarnando l’autentica compassione.
Concedere il diritto di richiedere l’eutanasia o il suicidio assistito per garantire il rispetto dell’autonomia del singolo, o per regalargli un gesto di “pietà” come spesso si sente dire, o permettergli una “morte degna”, significa aprire le porte ad una cultura disumanizzante che considera il paziente soggetto isolato, esasperandone l’autonomia, staccandolo da ogni relazione di aiuto.
Si tratta di quella cultura dello scarto denunciata tante volte da Papa Francesco, la quale si pone in totale antitesi al valore della solidarietà e all’esigenza del vero amore.
La vera solidarietà, infatti, rende solidale col dolore altrui, non sopprime colui del quale non si può sopportare la sofferenza.
Il gesto dell’eutanasia appare ancora più incomprensibile perverso se viene richiesto dal coloro che – come i parenti – dovrebbero assistere con pazienza e con amore il loro congiunto o dai medici che per la loro specifica professione, dovrebbero curare il malato anche nelle condizioni terminali più penose (cfr. Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 25 marzo 1995, n. 66).
Ma un paziente che giunge a chiedere la morte, in realtà che cosa sta dicendo? Non è forse il suo un grido che va interpretato? ù
Una richiesta di aiuto che deve essere decodificata? L’esperienza della dottoressa Sounders e di molti altri, conferma che «le suppliche dei malati molto gravi, che talvolta invocano la morte, non devono essere intese come espressione di una vera volontà di eutanasia; esse, infatti, sono quasi sempre richieste angosciate di aiuto e di affetto. Oltre le cure mediche, ciò di cui l’ammalato ha bisogno è l’amore, il calore umano e soprannaturale, col quale possono e debbono circondarlo tutti coloro che gli sono vicini, genitori e figli, medici e infermieri» (Congregazione per la Dottrina della Fede, Samaritanus Bonus sulla cura delle persone nelle fasi critiche e terminali della vita, cap. V, 2).
In conclusione, chi assiste e si prende cura del malato è chiamato sempre a donare sé stesso in termini di presenza amica, di compagnia forte e benevola, di prossimità umana.
Chi ama non lascia solo (“autonomo”) il bisognoso, ma gli rimane accanto condividendo, per quanto gli è possibile, il suo dolore, sostenendo la sua debolezza.
Perché solo chi si trova amato, capito e accompagnato nell’ultimo tratto della sua vita, non solo difficilmente giungerà a chiedere l’eutanasia, ma troverà la serenità che solo l’abbandono alle cure dell’amore può dare, diventando lui stesso dono per l’altro.
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InFormazione cattolica 23 dicembre 2021
Il fine vita e il senso autentico del dono della libertà
Mons. Francesco Cavina
Riflettere sul fine vita implica considerare il senso autentico del dono della nostra libertà, il grande sogno dell’umanità, ricevuto da Dio sin dagli inizi, ma particolarmente minacciato nell’epoca moderna.
La cultura individualista in cui siamo immersi ci presenta infatti la libertà come la capacità di scegliere indifferentemente una cosa o l’altra, come possibilità di autodeterminarsi. Sono libero se non dipendo da nessuno, se posso fare tutto quello che voglio.
In realtà, l’esperienza insegna che l’uomo non è un assoluto e che isolarsi e comportarsi solo secondo la propria volontà è contrario alla verità del proprio essere. Infatti, l’uomo è un essere in relazione e solo accettando questa nostra relazionalità entriamo nella verità.
Se io mi assolutizzo, divento nemico dell’altro, non posso più convivere e tutta la vita diventa crudeltà, diventa fallimento.
Gesù ci ha detto: «Conoscerete la verità e la verità vi farà liberi» (Gv 8,3 2). La prima realtà da rispettare per essere liberi è la verità, perché la libertà contro la verità non è vera libertà. La libertà cresce e si perfeziona quando l’uomo si apre a Dio e all’ascolto della rivelazione divina per accoglierla.
Ora Cristo, pienezza della rivelazione di Dio, con la sua vita e non solo con le parole rivela che la libertà si realizza nell’amore, cioè nel dono di sé. La libertà, dunque, è dire di sì all’amore di Dio e all’amore del fratello. La vera libertà in definitiva è sapere la strada per raggiungere al vero bene.
Per cercare di tradurre in senso esistenziale questa visione della libertà riporto la storia di due persone, un uomo e una donna, molto distanti per stile di vita, ma ambedue segnati dal dramma della sofferenza.
Entrambi giovani, certamente pieni di sogni e di progetti da realizzare.
Lei si chiamava Benedetta Bianchi Porro (1936-1964). La sua storia è più silenziosa, ma di recente è riemersa con forza e dolcezza. Durante la celebrazione del 14 settembre 2019 presso la cattedrale di Forlì è stata dichiarata beata. Aveva diciassette anni quando era già iscritta all’Università. Nove anni più tardi volle rispondere a una lettera pubblica di un giovane, Natalino, che gridava il suo dolore e la sua disperazione.
«Caro Natalino, sulla rivista “Epoca” è stata riportata una tua lettera. Attraverso le mani, la mamma me l’ha letta. Sono sorda e cieca, perciò le cose, per me, diventano abbastanza difficoltose. Un morbo mi ha atrofizzata, quando stavo per coronare i miei lunghi anni di studio: ero laureanda in medicina a Milano. Poi il male mi ha completamente arrestata quando avevo quasi terminato lo studio: ero all’ultimo esame. […]
Fino a tre mesi fa godevo ancora della vista; ora è notte. Però nel mio calvario non sono disperata. Io so che in fondo alla via Gesù mi aspetta. Prima nella poltrona, ora nel letto che è la mia dimora ho trovato una sapienza più grande di quella degli uomini. Ho trovato che Dio esiste ed è amore, fedeltà, gioia, certezza, fino alla consumazione dei secoli. Fra poco io non sarò più che un nome; ma il mio spirito vivrà qui fra i miei, fra chi soffre, e non avrò neppure io sofferto invano. […] Le mie giornate non sono facili; sono dure, ma dolci, perché Gesù è con me, col mio patire, e mi dà soavità nella solitudine e luce nel buio. Lui mi sorride e accetta la mia cooperazione con Lui.
Ciao, Natalino, la vita è breve, passa velocemente. Tutto è una brevissima passerella, pericolosa per chi vuole sfrenatamente godere, ma sicura per chi coopera con Lui per giungere in Patria. Ti abbraccio».
Benedetta morirà il 23 gennaio 1964. La sua storia ci insegna che vera forza consiste nel saper accettare fino alla fine la propria vita, anche quando le capacità motorie vengono meno o la nostra possibilità di comunicare viene eclissata. Lei ha scoperto la via della libertà e dell’amore. Non la via dell’autodeterminazione fino a scegliere come e quando morire, ma la via della luce che la invitava ad aprirsi alla verità di una promessa di bene.
E così non è rimasta schiacciata sotto il peso della croce, ma si è affidata al mistero d’amore di un Dio crocifisso che ha cercato lo sguardo della Madre nel momento estremo della sua agonia.
Maria è stata una presenza forte e silenziosa che ha certamente trasmesso al Figlio una materna consolazione, la consolazione di colei che ha saputo fare del dolore dell’Altro il suo dolore.
Concludo con queste parole della giornalista Eugenia Roccella, che condivido totalmente, tratte da un articolo apparso sul quotidiano Avvenire il 24 novembre 2021: «Mentre le terapie intensive tornano a riempirsi per il Covid si cerca di far passare la morte autoprocurata non come una scelta libera e tragica, che una comunità solidale deve cercare di evitare, ma come un diritto. Dobbiamo decidere se vogliamo un Paese dove la morte è un diritto del singolo, a cui essere indifferenti, o se l’Italia deve restare il Paese dove il Presidente della Repubblica premia la carabiniera Martina capace di passare tre ore su un ponte, accanto a una donna che aveva già scavalcato il parapetto, convincendola a non buttarsi. Questo è il Paese che amiamo».
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