Tempi.it 21 febbraio 2018
La lezione di mons. Crepaldi sulla “Civiltà della vita e legislazioni che la minacciano”. «Bisogna pregare, lasciarsi convertire e usare la testa. Purtroppo oggi sempre meno cristiani lo fanno»
di Rodolfo Casadei
«Una diffusa mentalità dell’utile, la cultura dello scarto che oggi schiavizza i cuori e le intelligenze di tanti, ha un altissimo costo: richiede di eliminare esseri umani, soprattutto se fisicamente o socialmente più deboli. (…) Le cose hanno un prezzo e sono vendibili, ma le persone hanno una dignità, valgono più delle cose e non hanno prezzo. Tante volte ci troviamo in situazioni in cui quello che costa di meno è la vita. Per questo l’attenzione alla vita umana nella sua totalità è diventata negli ultimi tempi una vera e propria priorità del Magistero della Chiesa, particolarmente a quella maggiormente indifesa, cioè al disabile, all’ammalato, al nascituro, al bambino, all’anziano, che è la vita più indifesa».
Così papa Francesco esprimeva la sua preoccupazione per le tendenze in atto durante la sua udienza ai ginecologi cattolici il 20 settembre 2013. In questi quasi cinque anni le cose sono decisamente peggiorate in Italia, con l’approvazione di una serie di leggi contrarie al bene comune e dannose per i soggetti più deboli come la legge sul testamento biologico di impianto eutanasico, la liberalizzazione della pillola dei cinque giorni dopo, le unioni civili, la legge sulla buona scuola che ha aperto le porte all’educazione genderista, il divorzio veloce; mentre altre proposte aspettano in Parlamento: la legge sulla liberalizzazione delle droghe leggere e quella per l’introduzione della maternità surrogata.
Tutti esempi di quelle “colonizzazioni ideologiche” che papa Francesco ha denunciato più volte. Ha ricordato questi fatti Roberto Respinti in apertura del primo incontro della serie “Civiltà della vita e legislazioni che la minacciano” organizzato a Milano dal Centro Studi Rosario Livatino. Relatore unico: mons. Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste ma soprattutto direttore dell’Ufficio per i problemi sociali e del lavoro presso la Conferenza episcopale italiana e sottosegretario del Pontificio Consiglio della giustizia e della pace negli anni Novanta. In tale veste è stato il curatore del Compendio della dottrina sociale della Chiesa che fu pubblicata nel 2004.
Umile, sorridente e tranquillo, mons. Crepaldi non ha risparmiato i giudizi taglienti fra una citazione e l’altra di Carl Schmitt e di Thomas Hobbes, di Jürgen Habermas e di Ernst-Wolfgang Böckenförde, di Massimo Cacciari e di Cornelio Fabro. La crisi giuridica oggi si sostanzia nell’ingiustizia legale, cominciata quando è stato proclamato il diritto a nuovi diritti. Prima di allora lo Stato tollerava gli atti contrari alla vita, adesso li promuove.
L’esempio classico è quello delle legislazioni sull’interruzione della gravidanza: nate per dare una risposta a casi drammatici e con molte limitazioni, sono diventate nel tempo molto lassiste perché l’aborto è diventato un “diritto”. In Francia è stata pure votata una legge che punisce chi cerca di dissuadere le donne che hanno deciso di abortire. L’aborto da male tollerato è diventato un diritto, e lo Stato fa di tutto per promuoverlo, per educare le nuove generazioni a considerarlo un diritto.
Crepaldi ha spiegato a grandi linee come si sia arrivati alla situazione attuale. La progressiva secolarizzazione del sistema giuridico ha fatto sì che esso si emancipasse dalla questione dei suoi contenuti e si attestasse sul principio di neutralità. Thomas Hobbes e Carl Schmitt convergono nell’idea che lo Stato è un’istanza assoluta secolarizzata, ed è la forma più intensiva di unità politica. Lo Stato ha il proprio ordine in se stesso, e non fuori di sé. Perciò non tollera disobbedienza, non ammette obiezioni di coscienza di nessuna sorta.
Certo, lo stato liberaldemocratico, lo Stato di diritto sembra andare al di là della visione totalitaria di Hobbes e Schmitt, ma si basa pur sempre sull’asserzione che legalità e legittimità coincidono: la legge in democrazia coincide con la volontà contingente del popolo, cioè della sua maggioranza. In passato ci si poteva ribellare a una legge affermando che era opera di un tiranno, oggi non più: la maggioranza trasforma ogni sua azione, per il fatto stesso di essere maggioranza, in diritto e legalità.
L’idea di Stato e di diritto da Hobbes a Schmitt nasce dall’esigenza di garantire la pace e l’unità del corpo politico dalle guerre di religione (in senso specifico e in senso lato). Ma come è accaduto che la legge che si voleva neutrale rispetto alla questione della natura umana (cioè della verità dell’uomo) si sia trasformata in legge apertamente al servizio della contronatura?
A essere non negoziabili oggi non sono più i princìpi non negoziabili della Chiesa cattolica, ma il diritto all’aborto, al matrimonio per tutti indipendentemente dal sesso, alla fecondazione assistita in tutte le sue forme.
La risposta alla domanda sta in un’affermazione del grande giurista tedesco Böckenförde: «Lo Stato liberale secolarizzato vive di presupposti che non è in grado di garantire. Questo è il grande rischio che esso si è assunto per amore della libertà. Da una parte esso può esistere come Stato liberale solo se la libertà, che esso garantisce ai suoi cittadini, si regola dall’interno, vale a dire a partire dalla sostanza morale del singolo e dall’omogeneità della società. D’altre parte, se lo Stato cerca di garantire da sé queste forze regolatrici interne attraverso i mezzi della coercizione giuridica e del comando autoritativo, esso rinuncia alla propria liberalità e ricade – su un piano secolarizzato – in quella stessa istanza di totalità da cui si era tolto con le guerre civili confessionali».
Per ovviare al problema, è stato proposto che lo Stato liberale laico viva e operi “come se Dio esistesse”. Lo ha chiesto Kant, lo ha richiesto Joseph Ratzinger nella sua conferenza al monastero di Subiaco 18 giorni prima di essere eletto papa, si è detto sostanzialmente d’accordo Jürgen Habermas nei suoi dialoghi con Benedetto XVI.
Massimo Cacciari nel suo Il potere che frena ha richiamato la figura del Katechon, potere terreno che trattiene il mondo dalla disintegrazione nell’attesa del ritorno di Cristo. Ma la verità è che, abbandonate le idee di natura e diritto naturale, e la loro fondazione trascendente, vivere “come se Dio ci fosse “ è una posizione insostenibile. E questo si riflette sui sistemi giuridici e sulle leggi: oggi le legislazioni contro la vita mirano a riplasmare la natura umana escludendo Dio dal mondo.
Nello stesso discorso di Subiaco, Ratzinger metteva in guardia da una cultura illuminista razionalista che si creda autosufficiente e rifiuti le sue radici, che sono nel cristianesimo: «Questa filosofia (razionalista positivista – ndr) non esprime la compiuta ragione dell’uomo, ma soltanto una parte di essa, e per via di questa mutilazione della ragione non la si può considerare affatto razionale. Per questo è anche incompleta, e può guarire soltanto ristabilendo di nuovo il contatto con le sue radici. Un albero senza radici si secca…».
Tutto questo non implica alcun confessionalismo. Divenuto Benedetto XVI, nel suo discorso al Bundestag tedesco papa Ratzinger ha sottolineato che mai il cristianesimo ha preteso di rapportarsi direttamente alla politica, ma è sempre passato attraverso il diritto naturale. Ed è a quello che bisogna tornare, ha concluso mons. Crepaldi, senza rinunciare all’apertura al suo fondamento trascendente.
Il moderatore Respinti ha chiesto al relatore come si dovrebbe riproporre il diritto naturale oggi, in una situazione mutata anche rispetto a quella più recente a causa degli sviluppi rapidissimi di tutte le tecnologie. Crepaldi ha risposto che non bisogna avere fretta nell’individuare il nuovo “come”, e che è molto più importante conservare la certezza nei princìpi non negoziabili, anche se non lo si vuole più chiamare così.
Resta il fatto che la società buona nella prospettiva della dottrina sociale della Chiesa contempla che siano contenuti indisponibili la vita, la famiglia basata sul matrimonio fra uomo e donna, la libertà di educazione, la giustizia e la solidarietà sociali. A chi dice che ognuno deve essere libero di regolarsi come vuole, e per esempio se vuole togliersi la vita deve poterlo fare con l’aiuto dello Stato, Crepaldi risponde che i princìpi non negoziabili non sono valori, ma princìpi: da essi prende inizio la società, senza di essi la società non può iniziare. Senza beni definiti indisponibili, la convivenza sociale è impossibile.
«Se si smette di parlare di questi princìpi, il contributo culturale dei cattolici diventa irrilevante. Non si tratta, come accusa qualcuno, di mostrare i muscoli; bisogna pregare, lasciarsi convertire e usare la testa. Ma purtroppo oggi sempre meno cristiani lo fanno».