Roccella sfida un tabù e un riflesso pavloviano
di Eugenia Roccella
Che fosse inevitabile ricorrere all’aborto, ci sembra più che scontato. Può una ragazzina undicenne essere madre? No. E può una donna che abbia subito una violenza sessuale, accettare la gravidanza frutto di quella violenza? No. La reazione è immediata, chi ha figli ha i brividi immaginandosi alle prese con un dilemma etico così forte, e l’aborto è la prima, l’unica soluzione che viene in mente.
Cancellando la gravidanza, ci sembra di cancellare qualcosa della violenza, almeno le sue conseguenze durature; pensiamo a una giovane vita rovinata, niente studi, niente adolescenza, ma impegni, responsabilità troppo grandi, costrizioni. E poi, quell’esserino sempre lì a ricordare l’offesa patita, simbolo vivo dell’invasione, del dolore. Se, come ha scritto una volta Annalena Benini in un’inchiesta sul Foglio, un figlio a diciott’anni è “una fucilata”, a undici anni, dopo uno stupro, è un’esecuzione.
L’operazione istintiva che compiamo è di spostare il luogo dello scandalo, che non è più la violenza sessuale, ma la gravidanza. L’aborto ci consente di rimuovere lo stupro, ci illude di riparare il male, traslato nella vita che nasce. L’aggressione così può tornare tra parentesi, essere un inciso, qualcosa da dimenticare, ricominciando la vita di prima. Sappiamo che nessuno può ricostruire un’infanzia perduta, che le tracce dell’orrore resteranno, ma intanto l’effetto più evidente di quell’orrore, il figlio, almeno non c’è più
Ma perché siamo sicuri che a undici anni un aborto sia meno traumatico di un parto? Perché un figlio ci sembra immediatamente una iattura, una condanna a vita?
Ho avuto a lungo con me una ragazza di Capoverde, abusata appena adolescente, e rimasta incinta. Per mantenere la sua bimba, la ragazza era venuta poi a lavorare in Italia, e la sua unica angoscia era che l’uomo che l’aveva violentata potesse un giorno illegalmente portargliela via.
Non c’era nesso, per lei, tra la violenza subita e la figlia: la bambina era vissuta anzi come un risarcimento, un bene segreto e tutto suo, un recupero della dignità calpestata. La competenza materna nasce presto, si alimenta anche dei vuoti femminili, dell’attenzione che abbiamo avuto e di quella che ci è stata negata; si nutre dell’amore ricevuto, ma anche dell’umiliazione e dell’abbandono.
Alle bambole diamo carezze e sgridate, in continuità creativa con la linea che connette ogni donna alla propria madre, non come una semplice ripetizione di quello che ci è stato offerto. La maternità è una risorsa potente, che può far perdere l’equilibrio e può farlo ritrovare, che ci mette alla prova, costringendoci a sperimentare le nostre capacità.
Di fronte al concreto venire al mondo di un figlio molto desiderato possiamo sentirci disperatamente inadeguate e sole, sprofondando nella depressione; e un figlio venuto per caso può farci sentire forti in modo inaspettato, non più sole, consapevoli di saper proteggere una creatura interamente affidata a noi. Nella cura dell’altro possiamo curare anche il nostro male, dare significato alla traiettoria esistenziale, magari tragica, che ci ha condotto fino a lì.
Essere biologicamente pronte a diventare madri non vuole certo dire esserlo psicologicamente, e una bambina resta una bambina. Ma le differenze culturali esistono, e una undicenne latinoamericana (ma anche, talvolta, del meridione italiano) ha spesso già responsabilità familiari, fa da madre vicaria ai fratelli più piccoli.
Ricordo il mio sgomento di liceale romana quando in Sicilia una mia amica a tredici anni si fidanzò in casa, a quattordici si maritò ed ebbe il primo figlio. Oggi ha aperto un’erboristeria, e consiglia alle amiche creme di bellezza naturali. Aspira a diventare nonna il più presto possibile, perché nella sua famiglia ci si è sempre sposate presto, si diventa nonne e bisnonne.
A noi questo appare come un furto di infanzia, ma se le ragazzine europee e americane fanno sesso giovanissime, non per il loro piacere personale ma per spirito gregario o per competere ad armi pari all’interno del gruppo di coetanee, la nostra reazione è assai meno scontata. La maternità precoce è molto più scandalosa del sesso precoce, infinitamente più di un eventuale aborto.
Anzi: reclamiamo la diffusione della pillola del giorno dopo nelle scuole come una conquista di civiltà, come se l’unica cosa in grado di turbare un’adolescenza spensierata fosse il rischio di concepire.
Però continuiamo a ripetere, come una litania in una lingua di cui abbiamo smarrito il senso, che l’aborto per la donna è un trauma. Ma chi, oggi, lo crede davvero? Chi davvero pensa che l’aborto sia una ferita fisica e simbolica, qualcosa che tocca profondamente il cuore dell’identità di genere?
L’interruzione di gravidanza è stata da sempre il lato oscuro della maternità, che è fatta anche di rifiuti, crudeltà, angosce. Oggi sta diventando altro, un elemento della dilagante cultura dell’anti-materno. In molti casi (disabilità della madre o del figlio, violenza, età troppo giovane) l’aborto è la scelta corretta, in pratica obbligata, mentre la nascita diventa una forma di disobbedienza, una maternità “selvaggia”.
Quello della ragazzina colombiana è un caso limite, ma è significativo che l’unica risposta che sappiamo immaginare sia l’aborto. Certo, l’aborto può essere una liberazione, ma anche un’offesa aggiuntiva, come la maternità può essere un’invasione insopportabile, oppure una catarsi.