da L’Occidentale 13 Novembre 2018
La storia di Leone
di Renato Tamburrini
Intorno ai bambini “il cristianesimo — la forza che ha sorretto e reso grande la nostra civiltà — non esiste più. E non esiste perché il sacro è stato divorato a grandi morsi fuori e dentro la chiesa, e quello che rimane spesso non è altro che una vestigia identitaria nostalgica o un abito esterno che si indossa per tradizioni sociali. Il cattolicesimo non viene più visto come una chiave di lettura del mondo ma, nel migliore dei casi, come una succursale dei servizi sociali o di qualche laica Ong”. Così Susanna Tamaro sul Corriere della sera del 12 ottobre descrive il contesto nel quale vive anche Leone, il protagonista dell’ultimo romanzo di Paola Mastrocola pubblicato da Einaudi, in libreria dal 16 ottobre.
Mastrocola, classe 1956, torinese con padre abruzzese, ha cominciato a scrivere nel 1977; si è laureata in Lettere nel 1980 e a lungo ha alternato la sua attività di scrittrice con l’insegnamento scolastico e la ricerca universitaria nel campo degli studi italianistici, fino a dedicarsi alla scrittura full time e con notevole produttività. Rispetto alla rappresentazione politicamente corretta della nostra società e ai suoi miti progressisti non è certo la prima volta che racconta storie controcorrente, e con protagonisti davvero imperdonabili.
E neppure si è sottratta a dichiarazioni pubbliche scomode, specialmente sul tema della scuola, sottofondo del suo romanzo Una barca nel bosco (premio Super Campiello 2004), in cui aveva affrontato di petto il nodo della dequalificazione dell’insegnamento. E’ la storia di Gaspare Torrente, un ragazzo che si trasferisce al Nord per frequentare un Liceo adeguato al suo grande talento per gli studi e alle sue aspirazioni, ma incontra la derisione dei compagni e la mediocrità degli insegnanti, nella cornice di un sistema scolastico che punta sempre più verso il basso e ignora i migliori: tema che ritorna nel pamphlet La scuola raccontata al mio cane, sempre del 2004.
Tre anni dopo, con Più lontana della luna, è la volta di una ragazza degli anni 70 che, invece di partecipare al movimento studentesco, insegue l’amore ideale vagheggiato nella poesia cavalleresca. Nel 2013 va in scena la fuga dalla palude accademica: in Non so niente di te un ragazzo ventottenne avviato a una brillante carriera di economista di colpo abbandona gli studi. Per tre anni finge di fare un dottorato e invece si rifugia nella campagna inglese a pascolare pecore, per poter studiare meglio, fuori dal clima competitivo e utilitarista dell’università di oggi.
Leone è un altro imperdonabile, ma cambia lo spartito. La madre-Katia- è una normale nostra contemporanea: separata, lavora in un supermercato, ha ricevuto una rimossa mezza educazione cattolica, e vive il suo trantran abbastanza infelice senza aperture e senza domande sul trascendente: si è pure sposata in chiesa, ma né lei né l’ex marito hanno attribuito una qualche importanza all’evento.
Vive con il figlio di sei anni in un paese ormai trasformato in periferia di una grande metropoli: un paesaggio perfetto per il quadro della scristianizzazione light, in cui la religione è diventata personalmente e socialmente insignificante, senza che ci sia neppure un’ostilità dichiarata. Non c’è la religione, non c’è neppure il problema, tutto è anestetizzato.
Ed è in questo contesto che accade l’evento imprevisto, quello che mette a soqquadro il trantran, potremmo quasi dire l’esorcismo che mette in fuga l’incantesimo dell’ottundimento post-cristiano. Katia un giorno si accorge che di tanto in tanto Leone all’improvviso si mette a pregare; e non recita preghiere generiche o vagamente new age, ma proprio quelle della tradizione cristiano-cattolica: Padre nostro, Ave Maria, Angelo di Dio e -incredibile- anche il Credo mandato a memoria.
Comincia un’accorata ricerca dell’origine di questa stranezza; Katia a un certo punto viene anche convocata a scuola, dove la maestra e la preside emettono la sentenza: «Suo figlio che prega, esula». Come dice l’autrice, con una espressione che non è sfuggita all’acuto Riccardo Ruggeri (Italia Oggi, 30 ottobre) «esula deriva da esilio, a noi gli esuli piacciono solo esotici, non quelli nostrani».
Katia cerca aiuto nell’ex marito, nelle colleghe, ma nessuno capisce fino in fondo il suo disagio e la sua paura per la derisione e l’emarginazione sociale a cui va incontro il bambino. A un certo punto la verità viene a galla, e si scopre che Leone semplicemente ha imparato le preghiere dalla nonna a cui era molto affezionato e ha cominciato a recitarle da solo dopo la sua morte. La vicenda si srotola trovando man mano una sua spiegazione abbastanza verosimile, ma nell’insieme la storia conserva il sapore di una fiaba metropolitana nel tempo della nostra distratta contemporaneità.
Il finale, quasi una parabola, lo lascio ai lettori, che spero saranno numerosi.