Una ex manager della struttura, queer e di ultrasinistra, ha deciso di denunciare il centro: «Le medicine che bloccano la pubertà hanno spinto sempre più minori a cercare di togliersi la vita. E i ragazzi pentiti del cambio di sesso erano trattati come appestati»
di Giuliano Guzzo
Un altro caso Tavistock and Portman? Dopo la chiusura, annunciata lo scorso luglio a seguito dei noti scandali, del Centro per l’identità di genere di Londra – un riferimento anche internazionale per i minori che s’identificano come trans -, una nuova vicenda scuote in queste ore le cronache, stavolta americane. quella del Transgender center della Washington University presso il St. Louis Children’s Hospital sul quale il procuratore generale del Missouri, Andrew Bailey, ha disposto un’indagine.
Attraverso un comunicato stampa diramato giovedì scorso, Bailey ha dichiarato di aver avviato le indagini sul centro pediatrico già da un paio di settimane, ordinando ai medici la sospensione della somministrazione di bloccanti della pubertà e ormoni ai pazienti. Anche il Dipartimento dei servizi sociali, l’Agenzia statale per le licenze, il senatore repubblicano Josh Hawley e la stessa Washington University si stanno ora occupando del caso. Che è nato da una denuncia ben circostanziata: quella contenuta in una dichiarazione giurata di 23 pagine di Jamie Reed, ex case manager presso il Transgender center, dove ha prestato servizio dal 2018 al novembre 2022.
Chiariamo subito che la Reed è tutt’altro che una conservatrice: 42 anni, originaria di St. Louis, in un articolo scritto su Thefree press si presenta come «una donna queer politicamente alla sinistra di Bernie Sanders»; è sposata con un uomo transgender, con cui cresce i suoi due figli biologici e tre adottivi. Parliamo insomma di una lontana anni luce dal bigottismo, pienamente parte del mondo Lgbt.
Ciò nonostante, la Reed ha deciso di farsi avanti con una denuncia che è eufemistico definire esplosiva, tanti e tali sono gli abusi e le irregolarità che segnala. Tanto per cominciare, la donna sottolinea la clamorosa assenza di protocolli. A suo dire, nel Transgender center del St. Louis Children’s Hospital -dove solo negli ultimi due anni sono stati trattati oltre 600 bambini- regna infatti la totale anarchia terapeutica.
Se n’è accorta osservando casi inquietanti di ragazzi trattati come trans anche se non lo erano. Come quello di «un giovane che soffriva di un intenso disturbo ossessivo-compulsivo che manifestava col desiderio di tagliarsi il pene dopo essersi masturbato. Costui non aveva «manifestato disforia di genere ma assumeva ormoni. Ho chiesto al dottore quale protocollo stesse seguendo, ma non ho mai avuto una risposta», racconta la Reed, secondo cui i medici, anche nei casi di disforia di genere, riconoscono come si tratti spesso di «false autodiagnosi» eppure procedono lo stesso coi trattamenti.
In tutto ciò, a colpire la donna è stato il comportamento tenuto con i genitori dei pazienti del Transgender center. «Durante la mia permanenza al Centro», afferma nel suo affidavit, «ho visto coi miei occhi gli operatori sanitari mentire ai genitori dei pazienti sul trattamento, o sulla mancanza di trattamento, e sugli effetti del trattamento fornito ai loro figli». A proposito di famiglie, «in diverse occasioni» i medici dell’ospedale di St. Louis pare abbiano «hanno continuato a prescrivere la transizione medica anche quando un genitore ha dichiarato che non dava il suo consenso». Il tutto non senza conseguenze per i pazienti.
«Ho visto i bloccanti della pubertà peggiorare i risultati della salute mentale dei bambini», continua infatti il documento della Reed, la quale racconta anche che «i bambini che non avevano contemplato il suicidio prima d’essere sottoposti alla somministrazione dei bloccanti della pubertà, l’hanno tentato dopo». Un’altra anomalia che si verificherebbe al St. Louis Children’s Hospital è la condotta di medici che, sebbene affermino di non eseguire «interventi chirurgici di transizione di genere su minori», nei fatti poi li eseguono.
Dal suo osservatorio privilegiato («uno dei miei compiti era occuparmi dell’accoglienza di nuovi pazienti e delle loro famiglie»), la donna ha potuto osservare pure altri due fenomeni. Il primo è l’esplosione dei casi di baby trans, cosa che lascia pensare che il fenomeno rispecchi, una sorta di contagio sociale: «Quando iniziai, c’erano probabilmente 10 chiamate di questo tipo al mese. Quando me ne sono andata, erano 50 e circa il 70% dei nuovi pazienti erano ragazze. A volte arrivavano interi gruppi di ragazze dalla stessa scuola superiore».
In secondo luogo, Reed -alla quale i detrattori in queste ore stanno rimproverando di non essere un medico, né una psicologa o una psichiatra- ha rivelato dei sempre più numerosi casi di trans pentiti dell’iter cui erano stati avviati «Nel 2019, un nuovo gruppo di persone è apparso sul mio radar: i detransitioners». Reietti, agli occhi dei dottori del Transgender center: «Un medico si è chiesto ad alta voce perché avrebbe dovuto dedicare del tempo a qualcuno che non era più suo paziente».
Eppure alla donna, che probabilmente ha deciso di parlare anche per questo, sono rimaste impresse queste storie. Come quella di una giovane avviata in tutta fretta alla transizione e che poi ci ha ripensato: «In modo straziante, ha detto all’infermiera: “Rivoglio il mio seno”. E nessuno sapeva cosa risponderle». anche per ripetersi di storie come questa che ora il procuratore Bailey ed altri stanno indagando. Senza contare che, comunque, si sta qui parlando di una singola clinica: ma negli Usa ce ne sono oggi oltre 100 di simili. Lo scandalo del Tavistock rischia insomma di rivelarsi come solo la punta d’uno spaventoso iceberg. Che ha la sua parte peggiore ancora sommersa