Pubblicato come Introduzione a
Simone Weil, L‘Amore di Dio, Borla,
Torino, 1968, pp. 1-56
di Augusto del Noce
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Per individuare i criteri interpretativi dell’opera della Weil dobbiamo proporci la domanda sul significato reale del suo processo di pensiero, indipendentemente da quel che essa può aver pensato che fosse. Un tratto solo è fuori di ogni possibile discussione, il suo voler essere sempre dalla parte degli oppressi, perché la vittoria ottunde il senso della giustizia. Ma che possa esser letta in modi diversi, o anzi opposti, è quel che risulta chiarissimo dalla diversità delle reazioni.
— È un’anarchica, nel senso di un'”amante dell’impossibile”, che deve perciò rompere con ogni ordine che prenda la forma di società, prima col comunismo, poi con la Chiesa cattolica?
— Esprime invece le condizioni di rinnovamento della Chiesa e incarna in questa richiesta lo spirito della Resistenza nel senso più puro, che domanda alla Chiesa cattolica l’abbandono di tutti quegli aspetti per cui è potuta sembrare il modello degli stati totalitari? (1). Sotto questo riguardo il suo pensiero rientrerebbe nell’orizzonte del nuovo modernismo, anche se la via da lei scelta, quella greca, sia sbagliata.
— O, all’opposto, il processo del suo pensiero incontra il tradizionalismo, e la sua opera unisce con l’offrire oggi uno schermo protettivo per il riemergere dei conati reazionari? Insomma, in questo caso, il suo pensiero avallerebbe la critica comunista dell’anarchismo; cioè nel suo ultimo momento l’anarchismo si troverebbe indotto a percorrere la via irrazionalista, nel senso di critica del razionalismo moderno, rasentando in tale movimento il cattolicesimo reazionario, pur senza potervi entrare. Lo scacco della sua esperienza starebbe perciò nella sua stessa singolarità, che le impedirebbe di ancorarsi a qualsiasi tradizione, all’anarchica o all’irrazionalista come alla cattolica.
— Offre il tipo esemplare della conversione religiosa quale è possibile, in piena probità intellettuale, oggi, in modo che il suo mancato compimento determini per il pensiero religioso i problemi che deve affrontare al presente? Così che nella sua opera si deve ravvisare un punto di partenza?
— O invece il suo pensiero è completamente gnostico, nel senso che rappresenta il più pieno assorbimento del cristianesimo nel pensiero ellenico?
— I suoi scritti devono esser letti in chiave mistica o invece in chiave estetica? dispongono cioè a una conversione religiosa, o suscitano invece un’ammirazione estetica, in modo che il religioso sia totalmente assorbito dall’estetico? Sono cioè il compimento mistico del “miracolo greco” di Valery o della ricerca del tempo perduto di Proust?
A parte L’Enracinement, essi sono articoli, lettere, frammenti. Non si può negare che ognuna di queste interpretazioni possa sembrare autorizzata dalla lettura isolata di questo o quel passo; si tratta però di situarne, e direi di graduarne le parti di verità, e di rendere ragione degli aspetti che possono aver suggerito vedute errate.
Mi sembra indispensabile, a questo riguardo, fissare due criteri:
a) Si deve parlare per la Weil di una forma di pensiero negativo attraverso cui si rivelano (nel senso forte della parola rivelazione: “come per grazia”) le idee dell’Ordine come principio metafisico e dell’obbedienza a Dio come virtù essenziale, e la congiunzione tra platonismo e cristianesimo. Per pensiero negativo si deve intendere il rifiuto totale delle “menzogne vitali” e dei falsi idoli. Si sottolineino in questo libro le frasi: “Credere in Dio non dipende da noi, ma dipende da noi accordare il nostro amore a false divinità”; “non tocca all’uomo cercare Dio o credere in lui: egli deve semplicemente rifiutarsi di amare quelle cose che non sono Dio. Un tale rifiuto non presuppone alcuna fede”. È in questo atteggiamento, in cui si è assolutamente eliminata la pretesa di fare delle nostre esigenze la misura dell’essere, e in cui si è raggiunta la massima mortificazione dell’io, che la verità può rivelarsi. Siamo al punto limite in cui si può giungere nell’anti-prammatismo, nell’antisoggettivismo e nell’antistoricismo; diciamo pure nell’antimoderno. Si tratta di un platonismo ritrovato, direi così, platonicamente, cioè attraverso un processo di reminiscenza. Per cui le tesi platoniche diventano manifeste nel loro aspetto di verità eterne, non di verità di un tempo. Occasione della reminiscenza è il mondo di oggi, se si fa uso dell’attenzione nel senso in cui può venir detta preghiera (2). Direi che il rapporto tra platonismo e pensiero moderno si configura per la Weil come quello tra il mondo intelligibile e il sensibile. Il mondo moderno, cioè il prodotto dello spirito laico, caratterizzato per la Weil dall’idolo dell’autoredenzione umana e dal rifiuto della grazia, può essere pensato come il mondo dell’oblio, in cui ci troviamo gettati; come la caverna platonica. Ma come i prigionieri della caverna possono essere liberati, così la verità del passato può essere ritrovata; cronologia e grado di perfezione sono cose del tutto diverse.
b) Il carattere di incompiutezza del suo pensiero. Non nel senso che la morte precoce le abbia impedito di dargli una forma sistematica. Ma nel senso che esso si arresta a una contraddizione non superata tra gnosi antica e cristianesimo. È un’incompiutezza dovuta, in parte, alla ricomprensione della sua esperienza in una forma antecedente di cultura. Di questa contraddizione sopporta la sofferenza, lacerata com’è tra quella che chiama “la probità intellettuale” (intesa come subordinazione delle esigenze religiose soggettive all’obbedienza a Dio), che le impedisce di consentire al battesimo, e il desiderio dei sacramenti (3).
Arrivati a questo punto, possiamo già dare un giudizio su due delle immagini che si sono dette. Anarchica? In certo senso sì, ma come ribelle contro ogni forma di divinizzazione dell’uomo (e l’anarchismo, nel suo senso autentico, è anche questo); dunque di un anarchismo che deve continuarsi in misticismo; e non già in una forma di mistica irrazionale, ma di una mistica fondata sull’idea dell’Ordine cosmico, come principio della verità, della bellezza e della moralità. Si può aggiungere che l’interpretazione anarchica ha una certa parte di verità, nel senso che si deve ravvisare la continuità tra la sua esperienza politica, che fu di tipo anarchico piuttosto che comunista (4), e la successiva esperienza religiosa. Ad ogni modo, la seconda esperienza rende manifesto quel platonismo, come primato dell’idea del Bene che è già implicito nella prima. Se la Weil ruppe con l’Università e si dedicò all’azione rivoluzionaria e, per qualche tempo, alla vita di officina, fu perché giudicò che l’ideale dell’esistenza filosofica le imponesse di stabilire dei contatti con coloro che, privati della giustizia, erano in condizione di desiderarla. Nel momento successivo si accorse che questa rivolta, motivata dal platonismo connaturale allo spirito umano, non poteva determinarsi che come rivolta contro il mondo “moderno”.
Modernista? Dobbiamo dire che la sua opera ebbe una certa fortuna negli anni attorno al ’50 proprio in questo senso; interessò soprattutto per i motivi di pensiero che sono detti nelle Ultime pagine della Weil. Si trattò però di un equivoco: formalmente certe sue critiche potevano essere simili a quelle del progressismo cattolico, ma il principio che le muoveva, gnostico, era assolutamente diverso, anzi opposto. Del resto questa attualità è ormai completamente consumata; il che non vuol dire che non ne permangono le tracce e che esse non ostacolino la diffusione del suo pensiero. Si consideri ad esempio il giudizio corrente, secondo cui esso si sarebbe esaurito nella ricerca di sostituire il cammino di Israele a Cristo, con quello della Grecia a Cristo, e sarebbe la riprova dell’illusorietà di questo assunto.
Inoltre, almeno di diritto, l’enorme successo di Teilhard ha la seguente premessa, quale che ne sia la consapevolezza; entro l’orizzonte neomodernista, obbligato dallo spirito dei tempi, la Weil rappresenterebbe la linea sconfitta, perché il suo pensiero ritornerebbe alle vedute gnostiche; e questa sconfitta sarebbe la riprova della validità del teilhardismo. La verità è invece che il significato della Weil sta esattamente nella critica di questa obbligazione dello spirito dei tempi. Ci si accorge pure del peso che ancor oggi esercita l’immagine modernista se si riflette come gli stessi critici di Teilhard esitino a servirsi del pensiero weiliano, che, di fatto, ne è l’esatto opposto (5). Eppure, il rilievo di questa opposizione, servirebbe a colpire il maggior argomento che il pensiero teilhardiano possa addurre a suo favore; quello di essere la forma apologetica valida per gli uomini del tempo d’oggi; perché la forma dell‘itinerario ideale dell’uomo di oggi verso la fede è rappresentata dall’esperienza della Weil, così per la conoscenza vissuta del mondo moderno, come per l’assoluta purezza.
Passiamo così alla questione del suo ellenismo. Non meraviglia che il pensiero di Platone le si sia presentato, quasi senza che ella lo cercasse, nel passaggio alla fase metafisico-mistica del suo pensiero. Il ritrovamento di Platone nella critica a Marx è, direi, una necessità inscritta nelle essenze filosofiche. Perché con Marx ha inizio la filosofia del primato dell’azione (la concezione dell’idea come strumento per cangiare il mondo): l’undecima glossa a Feuerbach, come affermazione dell’oltrepassamento del tipo del filosofo in quello del rivoluzionario, ne è la dichiarazione più chiara e più nota. La critica del marxismo non può quindi non ritrovare Platone come il filosofo del primato della contemplazione. Le critiche della Weil a Marx non potrebbero essere a questo riguardo più chiare.
Ricordiamo: “Marx ha puramente e semplicemente attribuito alla materia sociale quel movimento verso il bene attraverso le contraddizioni; che Platone ha descritto come caratteristico della creatura pensante tratta in alto dall’operazione soprannaturale della grazia. Dunque, da lui la materia è vista come una macchina atta a fabbricare del bene” (6). Ma qui sta la sua illusione; perciò il marxismo non è altro che “…un sistema secondo il quale i rapporti di forza, che definiscono la struttura sociale; determinano interamente sia il destino che i pensieri degli uomini. Tale sistema è implacabile. La forza, in esso, è tutto; nessuna speranza vi ha accesso per la giustizia. Nemmeno per la speranza di concepirlo nella sua verità, giacché i pensieri non fanno che riflettere i rapporti di forza” (7).
“Il marxismo per quel che è vero è interamente contenuto nella pagina di Platone sul grosso animale, e vi è contenuta altresì la sua confutazione” (8). In quanto il marxismo è la migliore prova dell’impossibilità per la forza di cangiarsi in giustizia, il pensiero rivoluzionario — e non già la religione — è il vero oppio del popolo. Questa radicalità dell’opposizione tra giustizia e forza, la conduce a spiegare che è assurda la fede “in un meccanismo inscritto nella struttura stessa della materia sociale, che dovrebbe apportare automaticamente la giustizia agli uomini” (9). Rende altresì conto dell’uso weiliano del termine di “soprannaturale”: “Il materialismo rende conto di tutto, a eccezione del soprannaturale… Se non si tiene conto del soprannaturale si ha ragione di essere materialisti.
Questo universo, con il soprannaturale in meno, non è che materia” (10). Un passo del saggio su Dio in Platone è estremamente significativo a questo riguardo, perché ci da la ragione ultima della sua rottura col pensiero rivoluzionario: “…Nel regno spirituale il male non produce che male e il bene non produce che bene” (11). Questo serve anche a spiegare la sua continua insistenza sulla parabola evangelica dell’albero e dei frutti. In questi passi c’è la critica, allo stato di esperienza vissuta, della dialettica marxiana, del processo marxiano verso il bene attraverso il male, cioè della sostituzione della filosofia della storia all’etica (12).
Parlo di critica vissuta alludendo alla decisività che ebbe nel processo del suo pensiero l’esperienza della guerra di Spagna, in cui fu volontaria, per due mesi, dalla parte dei rossi. La sua ribellione morale alla violenza è estremamente simile a quella di Bernanos, anch’egli volontario in quella guerra, ma dalla parte opposta. Una sua lettera del 1938 (13), indirizzata al “discepolo di Drumont” dopo la lettura de Les grands cimitières sous la lune, è simbolica al riguardo perché segna il momento in cui il pensiero rivoluzionario è portato a separarsi, nella Weil, dal marxismo, e il pensiero reazionario, nel Bernanos, dal fascismo. Consegue a ciò, nella Weil degli anni 1937-39, il passaggio al pacifismo e all’idea della non violenza e quello alla contemplazione mistica della bellezza come unico possibile superamento del malheur.
Osservo di sfuggita che, se questa critica weiliana del marxismo venisse portata a sviluppo integrale, si arriverebbe probabilmente pure e definire l’opposizione fra il platonico Vico ed Hegel e Marx, e il senso della presente attualità del pensiero vichiano: la tesi, non ancora elaborata filosoficamente, ma suggerita dalla situazione presente, secondo cui l’ateismo è soggetto a una legge di eterogenesi dei fini per cui realizza esattamente l’opposto di ciò che si propone, sarebbe infatti una sua estensione.
Ma consideriamo la forma in cui il platonismo è raggiunto. Ciò avviene partendo dalla critica di un’aspirazione rivoluzionaria, che dimostra vana l’idea di un’autoredenzione nella quale, per opera dell’umanità stessa, attraverso la dialettica della realtà storica, venga realizzato nel mondo il Bene assoluto. Se volessimo perciò situare il pensiero della Weil nella storia della filosofia, dovremmo probabilmente vederlo come il punto terminale del processo del pessimismo, giunto al momento in cui deve rovesciarsi nel misticismo — in ragione della correlazione che gli è essenziale, anche se resta nascosta nelle sue prime fasi, tra miseria umana e perfezione divina — ma che, in questo ultimo momento, si trova al bivio tra il cristianesimo e la gnosi antica.
Questo bivio è in qualche modo necessario, perché il pensiero religioso che il pessimismo incontra è quello platonico prima di quello biblico. Si tratta di un fatto così attestato dalla storia che sono inutili le citazioni al riguardo. Non è quindi un caso che essa scriva che “nessun popolo ha espresso come i greci l’amarezza della miseria umana”, aggiungendo subito che “tutta la civiltà greca è una ricerca di ponti da lanciare tra la miseria umana e la perfezione divina” (14). Ed è pure un Platone rivolto all’Oriente (15). Occorre però sottolineare il carattere particolare di questo pessimismo nel tratto che lo separa dalla linea classica del pessimismo moderno.
Credo che la migliore maniera di definirlo, sia di intenderlo come un pessimismo dopo Marx, e non più dopo Hegel. Ciò in ragione della stessa intensità con cui la Weil visse l’esperienza rivoluzionaria; non volle, cioè, come tanti intellettuali, dirigere dall’esterno un movimento in termini di strategia e di tattica, ma realmente vivere quel massimo di malheur che avrebbe dovuto portare al rovesciamento dialettico.
È qui la differenza essenziale tra il pessimismo ordinario e il suo. Mentre il primo ha un carattere esplicativo, e da luogo generalmente alla fuga dal dolore, invece per la Weil l’esperienza fondamentale è il contatto col malheur come realtà universale e l’accettazione di esserne posseduti; “contatto” che è conoscenza immediata che non ha nulla di comune col sapere. Se prendiamo come paradigma del pensiero pessimistico quelle di Schopenhauer, vediamo quindi come la posizione della Weil si sottragga alle critiche che furono mosse da Kierkegaard e da Nietzsche ai pensiero schopenhaueriano. Si aprirebbe a questo punto il vero discorso sul significato filosofico postkierkegaardiano e postnietzschiano della sua opera (16).
Detto questo; non si può restar sorpresi del fatto che la sua reminiscenza o conoscenza per connaturalità, di Platone, corrisponda puntualmente a quella dei Padri della Chiesa, e che ciò sia avvenuto certamente senza intenzione. Il Dio di Platone è Persona (17), creatore (18), vi è in Platone la prefigurazione della Trinità, come unità del Bene, dell’Essere e della Verità (19), il martirio del giusto descritto nel secondo libro della Repubblica prefigura il sacrificio di Cristo (20), le idee platoniche sono i pensieri o gli attributi di Dio (21), “è impossibile all’uomo esercitare pienamente la sua conoscenza senza la carità, perché non vi è altra fonte di luce che Dio. Così la facoltà di amore soprannaturale è al di sopra dell’intelligenza e ne è la condizione” (22).
Tuttavia, non è meno vero che il motivo gnostico è nel suo pensiero assai più profondo di quel che si potrebbe forse supporre. Ha delle radici che sono strettamente intellettuali; non si può riferirlo ad atteggiamenti pratici, ad amore per i Catari e per gli Albigesi, a deplorazione di posizioni assunte storicamente dalla Chiesa ecc.; neppure basta il ricorso al carattere pratico e affettivo del linguaggio dei mistici né alla sua distinzione dal carattere speculativo del linguaggio metafisico.
Analizzando la Lettre à un religieux, padre Daniélou ha messo chiaramente in luce i motivi per cui la Weil, pur vivendo “nella dimensione religiosa”, non poteva convertirsi. Il suo ellenismo l’ha condotta a trasportare il fatto cristiano sul piano intemporale delle essenze, e a disconoscerne così il carattere unico e irreversibile. La conseguenza è che “si tratta per lei piuttosto di raggiungere gli archetipi eterni uscendo dal tempo — e il Cristo è il più perfetto di questi archetipi — che di credere in un gesto di Dio che viene a riprendere il tempo per dargli un senso e salvarlo. È qui che noi tocchiamo il fondo dell’ellenismo di Simone Weil. Noi siamo, infatti, al punto di separazione tra la religione mitica e la religione biblica. Per la religione mitica, ogni perfezione esiste già in un mondo precosmico, esemplare. Il tempo non può che degradare questa perfezione originale.
La perfezione consiste dunque nel raggiungere questo mondo precosmico. È nostalgia di una purezza irrimediabilmente compromessa dall’avventura del tempo. Per la religione biblica, al contrario, quel che Dio aveva promesso ai profeti era più grande di tutto ciò che era esistito nel passato. L’innocenza era per loro un avvenire, che la potenza di Dio era capace di suscitare. Ed è quest’azione decisiva di Dio che era stata compiuta nel Cristo, nella pienezza dei tempi. L’importanza dell’evento si connette qui a ciò che costituisce il fondo della fede biblica: l’assoluta trascendenza di Dio.
Questa trascendenza lo separa, infatti, dall’uomo per un abisso incolmabile. Ma questo abisso che l’uomo non può varcare, può varcarlo il Figlio di Dio e venire a cercare l’uomo per introdurlo vicino al Padre”; “la conversione al cristianesimo non è un cambiamento di religione. È il passaggio dalla religione alla rivelazione, cioè dalla domanda alla risposta” (23).
Il riconoscimento del valore delle religioni non cristiane, in sé giustissimo, si traduce per la Weil in un sincretismo orientaleggiante (24), per cui il contributo della Grecia nella preparazione del cristianesimo è il massimo, come rivelazione della miseria umana, della trascendenza di Dio, della distanza infinita tra Dio e l’uomo, e quello di Israele il minimo, perché ha sì affermato sino all’ossessione l’idea dell’unità di Dio, ma questa idea non è per sé originale, dato che tutti i popoli di tutti i tempi sono sempre stati monoteisti (25).
Di più, pervertito dall’influenza giudaica e dalla romana, il cristianesimo storico è all’origine del mondo moderno. È esso che ha creato la nozione di storia come continuità diretta in cui è il germe di Hegel e di Marx. La nozione di progresso si spiegherebbe attraverso l’idea già presente nel cristianesimo primitivo di una pedagogia divina che forma gli uomini per renderli capaci di ricevere il messaggio di Cristo (26).
Dobbiamo dire che su questo punto la Weil ha ragione, se pensa che i primi germi del pensiero progressista stiano nell’idea millenarista, del resto non espressamente cristiana nelle sue origini, anche se allignò nel primo cristianesimo; ma perché dimentica che nel De civitate Dei di sant’Agostino abbiamo la critica più rigorosa che del millenarismo sia stata condotta? Restò in lei ben forte la traccia di un’educazione rigorosamente laicista, nel senso di quel laicismo che fu proprio del radicalismo della Terza Repubblica: pare, leggendola, che ci sarebbe una sola forma di pensiero che non possa essere riconosciuta degna di venire studiata, quella dei teologi cattolici ortodossi; con eccezione, per qualcuno, dei mistici.
Sembra difficile sottrarsi a questa conclusione: che la Weil abbia separato Cristo dal cristianesimo storico e l’abbia incorporato nell’ellenismo, giungendo così in tempi moderni alla ripresentazione più completa dell’archetipo gnostico.
Cerchiamo di ravvisare il motivo iniziale di questo processo. È una ricerca che non presenta difficoltà, perché essa emerge in numerosi passi della Connaissance surnaturelle e dei Cahiers. Ad esempio: “Dio stesso non può fare che quel che è stato non sia. Quale migliore prova che la creazione è un’abdicazione?… La creazione e il peccato originale non sono che due aspetti, differenti per noi, di un atto unico di abdicazione di Dio. E l’incarnazione e la passione sono altresì degli aspetti di questo atto. Dio si è vuotato della sua divinità e ci ha riempiti di una falsa divinità. Vuotiamoci di essa; questo atto è il fine dell’atto che ci ha creati. In questo atto stesso, Dio con la sua volontà creatrice mi mantiene l’esistenza perché io vi rinunci” (27); “se noi nasciamo nel peccato, è evidente che la nascita costituisce un peccato” (28); “datemi la mia porzione, questo è il peccato originale. Datemi il libero arbitrio, la scelta del bene e del male. Questo dono del libero arbitrio non è la creazione stessa? Quel che è la creazione dal punto di vista di Dio, è peccato dal punto di vista della creatura. Dio ci ha domandato: ‘Volete voi essere creati?’ e noi abbiamo risposto sì, e a ogni istante noi rispondiamo sì. Salvo alcuni, la cui anima è divisa in due: mentre quasi tutta l’anima dice sì, un punto dell’anima si esaurisce nel gridare supplicando: no, no, no! Nel gridare, questo punto si dilata e diventa una chiazza che un giorno invade tutta l’anima” (29).
Intendiamo dunque: in conseguenza della sua assoluta esclusione del vecchio Testamento, la Weil ha sostituito alla concezione del peccato, quale è contenuta nel Genesi, quella assolutamente opposta del frammento di Anassimandro (30). Alla concezione per cui il male si è introdotto nel mondo, creato dalla sovrabbondanza della bontà divina — della plenitudo divinae bonitatis tomistica — per un atto libero della creatura, ha sostituito quella per cui l’esistenza finita è intrinsecamente male, e per cui la creazione stessa è vista come caduta. Facile è derivare da questo primo punto tutti gli aspetti per cui si allontana dal pensiero cristiano.
È chiaro infatti come, posta la connessione necessaria tra creazione e peccato, il processo della perfezione debba essere visto come un ritorno a un mondo precosmico esemplare, attraverso l’assoluta negazione dell'”io” (idea della decreazione) (31), e il tempo e l’avvenire biblici siano coinvolti nella critica della loro deformazione laicizzata.
Ma ora, domandiamoci: la concezione del male esposta nel mito di Anassimandro non sta anche alla base del razionalismo moderno? Che, per un processo opposto a quello della Weil ha eliminato il soprannaturale, immanentizzando la creazione, e insieme estendendo sino al limite estremo il tema della naturalità della morte? (32). Sotto questo rapporto, la ricomprensione platonica del cristianesimo operata dalla Weil è il semplice rovescio del razionalismo moderno, piuttosto che la critica del suo principio. E, per questo riguardo, sembra lecita la domanda se la sua opera abbia un valore estetico piuttosto che filosofico; la sua pur reale esperienza mistica si sarebbe risolta nella creazione di un’opera d’arte. Anziché di filosofia implicita bisognerebbe parlare di mistica che si risolve in poesia (33).
Indubbiamente, dovremmo fermarci in questo giudizio se volessimo ricostruire il “sistema” della Weil, ma è questo il modo migliore di ascoltarla?
Il suo pensiero non deve essere considerato sotto l’aspetto di sistema, ma sotto quello di itinerario, sottolineando che quel che lo regge è l’idea di moralità (l’idea di giustizia iscritta nel cuore umano), e allora appare la sua unicità. Si consideri il comune processo di pensiero dal ’30 a oggi: negli anni tra il ’30 e il ’40 la problematica, almeno nell’Europa occidentale, era ancora fondamentalmente teologica, quali che fossero le risposte; successivamente vi fu la riscoperta del pensiero rivoluzionario, poi il passaggio a una sorta di “irreligione naturale”. Dare una risposta al problema di Dio — questa è una posizione oggi frequentissima — non ha importanza nel riguardo dei problemi che dobbiamo effettivamente affrontare, è anzi un problema insieme imbarazzante e insolubile, e imbarazzante perché insolubile; al più gli si può dare una risposta nella zona privata, non interferente con quella pubblica, della nostra esistenza.
L’itinerario della Weil è assolutamente l’inverso. Nella sua autobiografia spirituale (34) descrive la sua posizione iniziale come un agnosticismo del tutto simile a quello che stiamo attualmente attraversando: “Io non affermavo né negavo. Mi sembrava inutile risolvere questo problema, perché pensavo che, essendo in questo mondo, il nostro compito era di adottare la migliore attitudine nel riguardo dei problemi di questo mondo, e che questa attitudine non dipendeva dalla soluzione del problema di Dio”. L’ateismo del tempo della sua posizione rivoluzionaria rappresenta, nel riguardo di questa attitudine, già una sorta di religiosità maggiore (35). Poi, esattamente nel tempo in cui gli intellettuali della sua generazione cominciavano a riscoprire il marxismo, abbiamo il suo periodo mistico.
Se consideriamo l’assoluto laicismo del suo punto di partenza, ci rendiamo conto come il momento platonico-gnostico fosse in qualche misura necessario per il fatto che l’autore che le si offriva dopo l’abbandono del marxismo era, come si è visto, Platone, restando intatta l’opposizione iniziale al pensiero biblico. Bisogna distinguere tra la sua esperienza mistica e la riflessione successiva. I dati sono questi: ha avuto l’esperienza di un incontro con Cristo, che è narrata nel testo con cui si apre la Connaissance surnaturelle (36), d’altra parte, non ha consentito al battesimo; e le Intuizioni precristiane sono un testo ambiguo che può essere interpretato così nel senso di un platonismo preannuncio del cristianesimo, come in quello del cristianesimo assorbito dal platonismo.
Non è comunque azzardato dire che la sua esperienza religiosa andava al di là dei mezzi culturali che possedeva per interpretarla. L’affermazione stessa della creazione divina esclude si possa parlare di uno gnosticismo rigoroso. Non si tratta per lei di affermare due princìpi metafisici, del bene e del male; ma di chiarire, invece, la scelta tra due interpretazioni della realtà, una delle quali riconosce il soprannaturale e l’altra lo esclude; e della necessità del passaggio della seconda al materialismo, A meno di irrigidire indebitamente il suo pensiero, bisogna parlare della compresenza di due motivi, il cristiano e lo gnostico, e della possibilità di svolgere il suo pensiero in senso cristiano. Un nuovo periodo della sua meditazione stava per prendere inizio al momento della sua morte?
È quel che credo sia possibile dimostrare: traccerò ora i primi lineamenti di questa prova.
È possibile mettere in luce che la soluzione gnostica non può essere considerata la sua ultima parola. L’esame degli argomenti di due interpreti — la sua amica, anch’essa allieva di Alain e nota studiosa della gnosi, Simone Pétrement, e il teologo cattolico Charles Moeller (37) — che, con criteri valutativi opposti, l’hanno giudicata tale, permette una risposta risolutiva.
Interessa alla Pétrement stabilire una linea di continuità Lagneau-Alain-Weil (38); affermando, in ragione di ciò che l’opposizione stabilita da Alain tra una forma razionale di religione e le religioni tradizionali, se lo porta a contrapporsi al brouillard catholique, non lo situa però al di fuori del cristianesimo. Partendo da questa tesi non le è davvero difficile giungere a sostenere che la differenza tra la Weil e Alain non sta propriamente nella questione dell’esistenza di Dio, ma in quella della grazia e della libertà. Ci sarebbe soprattutto una differenza di attitudini: Alain, preoccupato della morale, ha creduto dover insistere soprattutto sulla libertà dell’uomo.
Se l’uomo non è libero, per lui non ci sono doveri; la credenza del dovere importa quella nella libertà. Deve perciò credere, almeno in un senso, di non avere bisogno di Dio. L’idea di Dio in generale, o almeno l’idea che egli esista, rischia di distruggere la morale, rendendo quasi impossibile fare il dovere per il solo dovere. La Weil, al contrario, sente profondamente la necessità della grazia; da ciò deriva che Dio occupa nei suoi pensieri un posto ben più grande, e di conseguenza essa giunge a una comprensione compiuta del cristianesimo.
I due pensieri non sono quindi opposti, ma complementari: “Occorre mantenere insieme il pensiero di Alain e quello della Weil. Anche se occorre opporli su un punto, essi non si escludono, perché tale punto è quello in cui i contraddittori sono veri insieme. Del resto, Alain e Simone Weil hanno accettato l’uno e l’altra le due facce della contraddizione, pur guardando di preferenza, l’uno alla potenza della libertà umana e della volontà, l’altra alla cancellazione dell’umano e alla grazia… Benché la strada differisca…, si vede che la Weil ha quasi sempre ritrovato il pensiero del suo maestro, sotto una forma originale, e proprio perché se ne è allontanata. Più si allontana e più ritrova l’essenziale” (39).
In realtà, l’impossibilità di negare la radicalità della rottura tra i due pensieri risulta da quel che la Pétrement stessa riconosce, senza metterlo tuttavia in rilievo adeguato. Come Kant, Alain pensa che la certezza morale non abbia bisogno di fondamento metafisico: “Così è ben lontano dal pensare come Nietzsche che, se la metafisica cristiana non è ammessa, la morale cristiana debba cadere nel medesimo tempo. La morale cristiana è la morale (l’uomo evangelico, egli dice, è l’onest’uomo), e la morale è immediatamente certa. La morale è per lui, senza alcun dubbio, la verità della religione” (40).
Ci troviamo esattamente al punto che segnalavo dianzi: la contemporaneità del pensiero della Weil sta nel suo essere postnietzschiano, se oggi criticità vuoi dire “dopo Nietzsche” e non più “dopo Kant”. Per nobile e significativa che possa essere stata l’esperienza di Alain, essa appartiene ormai irrevocabilmente al passato, e ciò proprio perché si muove in un orizzonte kantiano. Quali prove più chiare, del resto, di tale rottura, di quel che ella scrive intorno al cristianesimo laicizzato, cioè senza soprannaturale (41); non abbiamo che da pensare al soprassalto che avrebbe avuto Alain, al solo sentir parlare di soprannaturale!
Pur in forma necessariamente sintetica, dobbiamo tentare di definire la posizione religiosa di Alain. Non si tratta affatto di un pensiero religioso fermato dall’anticlericalismo, ma invece di un pensiero religioso che è, per dir così, interno all’anticlericalismo stesso. Altrove ho insistito sull’importanza di distinguere l’anticlericalismo, inteso come essenza e non come aggettivo che designi un carattere di questa o quella posizione ideale o politica, dall’irreligione, giungendo alla definizione che segue: originariamente reazione morale dell’individuo contro la potenza mondana della Chiesa, l’anticlericalismo diventa, dopo la filosofia della storia, antitesi in nome dell’etica allo spirito di conciliazione con la realtà di questo mondo. Spirito di conciliazione che dissimula una volontà di potenza che per realizzarsi deve dar luogo a un’organizzazione, la cui autorità ha bisogno di assumere un carattere sacrale in quanto conservatrice del deposito di una Rivelazione soprannaturale, o in quanto rappresentante il Progresso, l’Evoluzione, la Scienza, la Storia, l’Umanità, la Nazione, ecc.
Dal rifiuto della Chiesa cattolica si passa perciò al rifiuto delle nuove forme di falsi idoli, in nome di un moralismo, sotteso da una più o meno accentuata nota pessimistica. Ma pessimismo in nome della morale, per cui si passa all’idea della moralità come rivelazione di un ordine obiettivo trascendente, e storicamente alla contrapposizione di Kant e Hegel. Dunque, una forma di pensiero che è commento della filosofia religiosa kantiana, il pensiero kantiano servendo a una distinzione assoluta di cristianesimo da cattolicesimo, nel mantenimento del primo (42).
Il pensiero di Alain esprime perfettamente le antinomie del pensiero anticlericale. Da una parte, l’esigenza di salvaguardare l’autonomia morale lo porta a rasentare l’ateismo; ma, per altro verso, anche l’ateismo deve essere da lui rifiutato, perché minaccia di portare irrevocabilmente al culto di potenze mondane. Perciò la via che segue è un programma di liberazione dell’idea di Dio da ogni attributo di potenza. Onde: “I nostri teologi hanno tracciato in definitiva un ritratto abbastanza bello di Dio, seguendo i santi e i giusti; ma hanno guastato tutto mescolandovi la potenza… Importa che il nostro Dio sia degno dell’uomo. Forse è onnipotente; ma appartiene a religioni oltrepassate il lodarlo troppo per questo attributo” (43); “La potenza disonora anche Dio… L’attributo di potenza deve essere visto come la parte vergognosa della religione dello spirito” (44).
Dal che consegue la valutazione totalmente negativa della Bibbia (45), e il conseguente giudizio sul cristianesimo pervertito dall’avere accolto la veduta biblica: “C’è molto di inumano nella Bibbia, e il cristianesimo, considerato come pensiero soltanto umano, vuol mettere fine agli orrori della Bibbia e al terribile regno del Dio degli eserciti” (46); ma ha ingenuamente conservato l’idea biblica di Dio, come creatore e governatore del mondo, idea in fondo contraddittoria con la sua morale. Non deve perciò sorprendere se sia stato così “tranquillamente digerito dall’ordine armato” (47); “i poteri hanno saputo appropriarsi della nuova dottrina” e “alleare la religione con l’ordine della forza; la storia politica della Chiesa non ci racconta altro” (48).
Antiteologismo, dunque, e infine ripetizioni e variazioni del tema del “virus teologico” che minaccia la morale. Ma questa critica dell’attributo di potenza porta anche a privare Dio dell’esistenza, alla sua semplice riduzione alla categoria dell’ideale? Su questo punto il pensiero di Alain è fluttuante. Al termine di trascendenza viene dato un significato di oltrepassamento, e così parrebbe che non si debba uscire da una direzione di pensiero immanentistica.
Ma, d’altra parte, per lui, ciò che è superiore non può essere prodotto da ciò che è inferiore, perché pensando in tale guisa si ricadrebbe nel naturalismo della potenza e della forza; perciò il perfetto, come termine dell’oltrepassamento, deve esistere in sé, in una certa maniera, come antecedente e condizionante il nostro pensiero e la nostra volontà che ne dipendono e non saprebbero produrlo. Ma, anche con ciò, i limiti del moralismo non vengono superati da Alain: alla sua avversione alla teologia si unisce la diffidenza verso la mistica, che deve nelle sue conseguenze ultime portare al quietismo; teologia e mistica si trovano dunque alleate al cattolicesimo per portare allo spirito di conservazione di tutto quel che è, delle ingiustizie e delle guerre.
Siamo ormai in grado di definire con precisione il rapporto tra la Weil e Alain. Questi si muove sempre entro il cristianesimo laicizzato, senza soprannaturale. Ora il passaggio della Weil dal moralismo al misticismo e all’affermazione del soprannaturale rappresenta un taglio che non potrebbe essere più netto. Tuttavia, anche dopo il distacco, e in ragione, come si è visto, della sua forma, permangono dei motivi alainiani, fondamentalmente di carattere razionalista e in contraddizione con l’affermazione del soprannaturale. Essi costituiscono, per così dire, un blocco, quello che porta a vedere la storia del cristianesimo come deviata dalla duplice influenza ebraica e romana. La svalutazione della Bibbia, la condanna radicale della romanità, l’incomprensione della tradizione del pensiero cattolico (il grande torto della Chiesa cattolica, l’avere canonizzato sant’Agostino: san Tommaso visto come teorico dell’Inquisizione e della giustificazione della persecuzione contro gli Albigesi) sono temi strettamente connessi, proprio in ragione di questa loro origine, nell’opera della Weil. Ognuno può vedere quanto poco siano originali e profondi.
Che cosa pensare per es. della definizione dei romani come “i nazisti dell’antichità”? Nient’altro che questo, che l’uso dell’analogia è in storia molto pericoloso, e che la Weil cade nel peggiore dei moduli della filosofia della storia, la personificazione dello spirito dei popoli; ed è curioso poi, anche se ottimo segno, che, mentre personifica lo spirito dei popoli antichi, si astiene tuttavia rigorosamente dal personificare lo spirito dei popoli moderni. La vicinanza le fa cioè vedere quanto di arbitrario e insieme di estraneo alla moralità vi sia nella tendenza che porta a tale personificazione.
Non si vuole con ciò disconoscere un aspetto di validità che ha la tesi della Pétrement. Nell’influenza di Alain bisogna anche vedere l’elemento positivo. La Weil non ha soltanto derivato dal suo maestro l’anticlericalismo, ma anche l’antisociologismo portato al suo significato più genuino: che il vero si definisce precisamente per ciò che non è riducibile allo spirito di potenza. In ciò è la ragione, teoretica oltre che morale, del suo voler essere costantemente dalla parte dei vinti; la sua frase così ripetuta che “occorre essere sempre disposti a cambiare di parte, per seguire la giustizia, questa eterna fuggiasca dal campo dei vincitori” prende il suo pieno senso in questo contesto.
Imparò altresì che “l’essenziale per la religione è che occorre mettersi a realizzarla… senza attendere, perché non si ha il diritto di attendere. Senza disperare, perché non si ha il diritto di disperare. Tale è lo spirito rivoluzionario, che non differisce per nulla dallo spirito religioso” (49). Nel passaggio dalla posizione borghese-agnostica alla rivoluzionaria, la Weil non ha fatto che mettere in pratica questo insegnamento; e le parole di Alain servono bene a chiarire il carattere religioso che era già insito nella sua prima scelta.
In certo senso, possiamo ben dire che essa comincia dove il pensiero del suo maestro termina, purché si avverta che tutto il positivo di tale pensiero è passato in lei, e che nella sua esperienza è stato trasfigurato; in modo che è privo di significato il voler tornare ad Alain dopo la Weil, o voler sintetizzare i due pensieri. Purtroppo, qualche scoria della tematica alainiana ha fermato lo sviluppo del pensiero dell’allieva. Il punto più importante, però decisivo, che possiamo trarre dal parallelo è che quel che c’è di gnostico e di incompatibile col cattolicesimo nel pensiero weiliano dipende dalla permanenza di moduli razionalistici inizialmente accettati, che sono in contraddizione con la sua esperienza mistica. Come già si è accennato, l’anticlericalismo, nella sua accezione di essenza, è legato con il razionalismo religioso, con l’idea kantiana di una religione nei limiti della pura ragione. La veduta razionalista si mantiene di conseguenza nella Weil nella forma di giudizi storici sulla Bibbia, e sul cristianesimo cattolico; da questi giudizi è portata all’interpretazione gnostica della caduta iniziale.
A ben vedere, troviamo la conferma di questa asserzione nel saggio del Moeller, se lasciamo da parte una durezza di giudizi che dispiace: così l’affermazione che nel “romanzo tragicamente inumano della Weil… quasi tutto è legno morto perché sono false le intuizioni fondamentali”; che l’entusiasmo di certi lettori cattolici rende testimonianza del fatto che è stato chiamato la “miscredenza dei credenti”; e, peggio, il cercare la spiegazione dell’opera in una certa psicologia morbida. Questa stessa durezza che porta il critico cattolico a esaurire il pensiero della Weil nelle affermazioni cataro-manicheo-quietiste, lo conduce pure curiosamente a riconoscere che vi sono elementi, anche se a suo giudizio non propriamente di pensiero, che non possono essere ricondotti a tale interpretazione.
Scrive infatti: “… in una parola, tutto quel che precede conduce al quietismo. Ne deriverebbe logicamente che non bisogna far nulla per migliorare la condizione politica e sociale, perché, quale essa è, meccanismo cieco, distrugge la carne e assicura dunque automaticamente l’unione al divino. I testi di Simone Weil sul lavoro in officina, prendono in questa prospettiva una strana chiarezza. Il suo libro politico e sociale, L’Enracinement, è, a questo titolo, un libro nato morto; le riforme sociali sono inutili, e sarebbe meglio non fossero mai compiute. È la carità di Simone Weil, più vasta che le sue elucubrazioni razionaliste, che qui l’ha preservata: felice inconseguenza…”, aggiungendo in nota che “questa inconseguenza fa de L’Enracinement un libro in cui, fra pagine molto belle, il galimatias domina” (50).
Osserviamo infatti. Quanto il Moeller ha scritto può venire interpretato, se mettiamo da parte la sua personale avversione, nei termini che seguono: 1) l’aspetto gnostico-cataro del pensiero della Weil dovrebbe portarla a un rigoroso quietismo; 2) effettivamente tale quietismo esprime la sua dipendenza dal pensiero di Alain, rovesciato dalla forma moralistica alla mistica; uno studio più completo mostrerebbe agevolmente come, in rapporto alla sua critica della potenza di Dio, la religione non possa avere per Alain la sua forma pura che nel quietismo; e in questo caso si avrebbe il paradosso che il pensiero della Weil sarebbe una variazione di quello di Alain, alle cui categorie obbedirebbe fedelmente! 3) però la presenza degli scritti di Londra e dell’opera finale, l’Enracinement bastano a dimostrare che tutto il pensiero della Weil non si esaurisce nella posizione gnostico-manicheo-catara.
Cioè: il processo di conversione di chi affrontava la crisi degli anni successivi al 1930, partendo da un iniziale laicismo gnostico, nella disposizione ferma “di adottare la miglior attitudine nel riguardo dei problemi di questo mondo”, doveva necessariamente incontrare, prima di pervenire al cristianesimo, due momenti ideali necessari, quello rivoluzionario e quello pessimistico nella forma che è possibile oggi; al modo stesso che sant’Agostino aveva incontrato il pensiero manicheo, poi quello scettico, poi quello neoplatonico.
Diciamo di più: la tentazione di questi due momenti, la Weil doveva necessariamente incontrarla, anche se si fosse convertita giovanissima; anzi, anche se fosse sempre stata cattolica. Notiamo ancora: la successione di questi momenti si disegna nettamente nello svolgimento del suo pensiero. Nulla, infatti, nella Condition ouvrière, permette di prevedere il momento mistico-gnostico; poco nella Connaissance surnaturelle permette di vedere il momento successivo, reale anche se non giunse a compimento e fu troncato dalla morte. Ben poca importanza è da dare all’osservazione del Moeller sul galimatias di cui L’Enracinement sarebbe pieno. Certo, non vi si può cercare la perfezione formale di altri scritti, ma ciò semplicemente perché “è un libro”, mentre l’espressione naturale della coscienza tragica, quale era quella della Weil, è la forma aforistica.
O, ancora: il pensiero della Weil procede sempre dalla politica alla religione; la prima formulazione della volontà politica conclude col rovesciarsi nel processo dal pessimismo allo gnosticismo, in forma manicheo-catara, e al quietismo. La seconda formulazione dovrebbe portare all’idea dell’uomo cooperatore di Dio nella storia, tesi classica del pensiero cattolico, e chiave di volta del tomismo (51). Ma soprattutto è da osservare: i momenti ideali che abbiamo distinto non sono soltanto propri dell’esperienza della Weil; sono i momenti necessari oggi non soltanto in un processo di conversione, ma anche di riaffermazione della fede religiosa (processi che, a rigore, non sono qualitativamente distinti), perché la fede religiosa è oggi impossibile se non venga criticato quel “perfettismo” (per usare il termine di Rosmini) che è intrinseco alla tentazione rivoluzionaria nelle varie forme in cui può esplicarsi (rivoluzione politica, o rivoluzione scientifica e tecnologica).
Una domanda ulteriore potrebbe riguardare quale tra le grandi filosofie cristiane il pensiero della Weil giunga a rasentare. La risposta non può essere dubbia, quella di Malebranche (52); e le coincidenze sono significative e singolari perché si tratta di un filosofo che essa non ha mai, per quel che mi sembra, citato, e che forse, neppure ha letto. Eppure consideriamo le strettissime somiglianze nel tema dell’attenzione come “preghiera naturale”, e, di conseguenza, nel rapporto tra umiltà e intelligenza; nel superamento del pessimismo in una visione estetica dell’ordine del mondo; nella teoria della provvidenza, e nell’attenzione portata particolarmente alla provvidenza impersonale, onde la diffidenza per i miracoli: all’associazione tra scienza; contemplazione e purificazione spirituale; al fatto che l’uno e l’altra si servano del termine “Saggezza eterna” per designare l’aspetto di Dio a cui sono particolarmente sensibili; allo stesso detto in cui Malebranche riassume la sua filosofia, “Non si può vedere Dio e vivere”. Ciò non deve certamente stupire; dato che Malebranche è il più antivitalista tra i pensatori cristiani.
Ma quel che soprattutto rende importante l’accostamento è la posizione storica della filosofia di Malebranche; che rappresenta un bivio da cui si può ridiscendere al pensiero cataro o procedere verso Rosmini (53). Le segnalate coincidenze del pensiero weiliano assumono risalto per riguardo al bivio in cui si trova.
Ipotesi, senza alcuna possibilità di conferma; è quel che verrà obiettato nel riguardo dell’idea di uno sviluppo ulteriore, ma pur necessario, del suo pensiero. C’è da rispondere che la Weil non poteva fermarsi a ciò che ha detto, dato che la riaffermazione del soprannaturale era il suo tema centrale, ritrovato nella sua esperienza vissuta; e una tale riaffermazione importava la critica di quel razionalismo che le veniva dalla scuola. Limitiamoci però ora a quel che ha scritto. Se cerchiamo di abbracciare in una formula il suo insegnamento, credo che la meno inadeguata sia la seguente: la dimensione religiosa è ritrovabile a partire dalla crisi della nostra epoca quando questa sia vissuta con assoluta purezza morale.
Ma quali sono i rapporti tra dimensione religiosa e fede? Padre Daniélou scrive perfettamente che la religione è la domanda e la rivelazione è la risposta. Dunque l’insegnamento della Weil si ridurrebbe a una domanda…
Può sembrar poco. Consideriamone invece l’eccezionale importanza che assume riferita al tempo presente; a un presente di cui i primi segni potevano essere avvertiti intorno agli anni trenta; ma solo attraverso una sensibilità eccezionalmente acuta. Sino a ieri si poteva dire che era minacciata la fede piuttosto che la religione. Le filosofie idealistiche si presentavano come inveranti le verità di fede in una forma di religiosità superiore. Il marxismo stesso, a suo modo, voleva soddisfare al bisogno dell’altra realtà, pur proiettando questa realtà nel tempo. Quel che è in questione oggi è invece la dimensione religiosa.
Di questo cangiamento, non c’è consapevolezza sufficientemente chiara nel pensiero religioso ufficiale; infatti non mancano davvero i teologi che pensano di adeguare la fede a un mondo che viene pensato come definitivamente desacralizzato e reso profano dal progresso scientifico e tecnico. La fede, si dice, deve ascoltare il mondo…; ma come la fede può essere accolta da un mondo per cui la domanda religiosa è priva di significato? Anche a questo riguardo dobbiamo dire che la Weil ha percorso un processo esattamente, inverso da quello di gran parte del pensiero religioso contemporaneo; e quel che più importa è che il suo processo è quello vero.
Ma è morta nel 1943, I tempi non sono, da allora, radicalmente cambiati? Si tratta di mostrare come ne L’Enracinement (54) la Weil abbia previsto con una chiarezza perfetta quale sarebbe stato il processo dello spirito dei tempi successivo alla fine della guerra, e come sia stata l’unica a farlo.
Compose questo libro, terminandolo pochi mesi prima della morte, su invito di Andrè Philip, che allora esercitava le funzioni di ministro dell’interno nel governo di De Gaulle, e del commissario dell’azione sulla Francia, Closon. Vi avrebbe dovuto affrontare i problemi teorici di una politica successiva alla liberazione e alla vittoria, ma le conclusioni spaventarono i suoi superiori gerarchici che troppo chiaramente non potevano farne un uso ufficiale. Il manoscritto fu poi pubblicato nel 1949 ed ebbe naturalmente molte lodi, ma pressoché nessuna eco. E, infatti: inattuale politicamente nel 1943, scarsamente attuale, o difficilmente intelligibile nel suo principio ideale, nel 1949, le sue tesi possono essere veramente intese soltanto oggi perché il tempo ne ha rappresentato la verifica.
Il comporlo corrispondeva all’esigenza essenziale che l’aveva mossa a passare dall’America a Londra. Se l’Europa veniva liberata dall’America e dalla Russia, era inevitabile la sua ricaduta in una forma di servitù che, per essere diversa, non avrebbe però potuto non essere equivalente a quella che allora subiva. Essa pensava che l’unica fortuna che le rimanesse era di non poter ricorrere a un’idolatria da opporre a quella dei vincitori, perché le nazioni asservite non possono diventare degli idoli.
“I paesi soggiogati non possono opporre al vincitore che una religione”. Le occasioni per il risveglio religioso ci sarebbero state perché se “l’infelicità non è per se stessa una scuola di povertà spirituale, è però l’occasione quasi unica per apprenderla. Benché molto meno fuggitiva del benessere, tuttavia passa e occorre affrettarsi. La presente occasione sarà messa a profitto?” (55). È inutile dire come l’occasione sia invece andata interamente perduta; importante però soggiungere come la sua perdita spieghi la situazione europea di oggi.
Per lei, soltanto dopo la vittoria su Hitler, che già al momento in cui scriveva queste sue ultime pagine si delineava se non come certa, almeno come estremamente probabile, l’umanità si sarebbe trovata davanti a una scelta definitiva. Scriveva: “Occorre scorgere in opera nell’universo, a lato della forza, un principio altro da essa; oppure occorre riconoscere la forza come maestra unica e sovrana altresì delle relazioni umane” (56). Se teniamo presenti le sequenze del suo pensiero, soprannaturale-grazia-giustizia di Dio da un lato, forza-pesantezza-grosso animale dall’altro, possiamo dire che la scelta decisiva sarà tra risveglio religioso e ateismo radicale. Si tratta di scelta, perché noi sappiamo sperimentalmente che la giustizia è reale nel fondo del cuore degli uomini, e la struttura del cuore umano è una realtà tra la realtà dell’universo: perciò, se la giustizia è incancellabile, è la scienza, o meglio lo scientismo, ad aver torto.
Ma perché questa scelta sarebbe avvenuta dopo Hitler? Cerchiamo di ricordarci di quegli anni. Per gli anziani la fine dei fascismi sarebbe stato il risveglio da un brutto sogno; e dopo la “parentesi”, si sarebbe ripreso il cammino segnato dalla “religione della libertà” ottocentesca. Per i giovani, si sarebbe trattato di continuare il processo della Resistenza fino ad attingere le radici ultime del nazismo ed estirparle: si ripeteva così anche per lo spirito resistenziale quella tale fiducia in un mirabile meccanismo per mezzo del quale la forza, entrando nella sfera delle azioni umane, diventa produttrice automatica di giustizia; quel tal difetto che la Weil addebitava insieme a marxismo e a liberismo economico (57).
Di più, l’equazione tra valore e spirito di modernità, la ripresa della mentalità illuministica, insomma, veniva favorita dall’ideologia che le forze coalizzate contro il nazismo dovevano necessariamente assumere. Espressione estrema del colonialismo, come perfettamente la Weil lo aveva sin da allora definito, il nazismo aveva, di fatto, dichiarato guerra a tutto il mondo, e questa guerra totale aveva assunto l’aspetto di rivoluzione mondiale. Ma in queste condizioni qual era il principio che poteva unificare tutte le forze di resistenza? Non si poteva trovargli altro nome che quello di democrazia; e poiché tra le forze di resistenza c’erano anche Russia e comunismo, non facilmente assimilabili al senso consueto di democrazia, bisognava aggiungere il termine di progresso.
Posto ciò, diventava pressoché inevitabile il passaggio dall’assunzione del valore politico della democrazia alla mitizzazione di uno “spirito della democrazia” che avrebbe dovuto essere introdotto in tutte le attività dell’uomo, in modo da riformarle radicalmente. Così, non si parla oggi di una teoria democratica della conoscenza secondo cui è vero ciò che è verificabile da tutti, indipendentemente dalle loro disposizioni spirituali? Ma ciò coincide con la stessa negazione della metafisica. Infatti la verità metafisica si rivela e si nasconde insieme nella formula sensibile che l’esprime, semplice occasione per l’anamnesi; nei termini della Weil, tutto Platone è una prova ontologica, ragionamento misterioso, che non ha senso che per l’amore; e l’amore per lei è soprannaturale. Il neopositivismo, guardando la formula sensibile, ha ogni diritto di dichiararla priva di senso.
Non si può dire che questo meccanismo non sia entrato in azione. Se scorriamo la maggior parte dei libri recenti di filosofia, vediamo che le categorie più usate sono quelle del progressivo e del retrivo, e che con non altro criterio di verità la più parte di questi libri si presentano, che col dichiarare le loro idee come le più autenticamente progressive; né possono fare altrimenti perché il ricorso all’evidenza è richiamo alle verità eterne, e per la nuova mentalità illuministica l’eterno è maschera del passato.
L’interpretazione della Weil è assolutamente opposta: il nazismo non è che un momento, se anche decisivo, della lotta della modernità contro il platonismo. Decisivo, perché realmente Hitler ha inteso una verità, per malvagio che sia l’uso che ne ha fatto: “Hitler ha visto benissimo l’assurdità della concezione del secolo XVIII che ancora è in vigore oggi… Da due o tre secoli si crede, insieme, che la forza è padrona unica di tutti i fenomeni della natura; e che gli uomini possono e devono fondare le loro relazioni mutue sulla giustizia, riconosciuta per mezzo della ragione. È una assurdità manifesta. Non è concepibile che nell’universo tutto sia assolutamente sottomesso al dominio della forza e che l’uomo possa esservi sottratto, mentre è fatto di carne e di sangue e il suo pensiero vagabonda secondo il corso delle impressioni sensibili” (58).
Ossia: la storia contemporanea segna la fine del cristianesimo laicizzato, del cristianesimo senza soprannaturale; dell’unità tra la mentalità scientista e un umanesimo postrinascimentale, caratterizzato dal rifiuto del riconoscimento della trascendenza religiosa. È possibile domandarsi se, mentre scriveva queste righe, la Weil non pensasse al filosofo che, suo professore all’Ecole Normale e dittatore intorno al ’30 dell’insegnamento universitario filosofico francese, aveva definito lo spirito della civiltà per questo incontro dell’ideale scientifico nella sua forma moderna e del platonismo, a Leon Brunschvicg; che, in quegli stessi mesi, ritirato in Provenza, scriveva, ma in forma tanto diversa dalla weiliana, il suo testamento filosofico, vera dichiarazione di non aver nulla da lasciare, l’Esprit europèen. È probabile pensasse, oltre che a lui, anche al suo carissimo Alain (59). Ma è chiaro che la sua critica va molto oltre e coinvolge ogni forma di idealismo immanentistico; per es. l’hegelismo, come filosofia per cui la forza è espressione del Logos. Entrata nella linea della filosofia del Logos, la Weil, per eliminarne le deviazioni, ne ripercorre a ritroso nel tempo le forme, sino al ritorno a Platone.
Qualche perplessità è possibile nei riguardi di questo giudizio sulla “lucidità”, e in qualche modo importanza filosofica, di Hitler; ma se si considera la storia dal 1917 a oggi nel suo carattere unitario, come fallimento della rivoluzione marxista, per quel che riguarda l’utopia di arrivare al bene attraverso alla forza, se si aggiunge la considerazione che il nazismo sorge in relazione a questo fallimento, assumendo a proprio principio la sua forma — il risolversi in forza egemonica — se ne deve riconoscere l’esattezza. Gli storici recenti che hanno portato l’attenzione sulla correlatività di comunismo e di nazismo lo hanno riconfermato; l’esito totalitario del marxismo e il totalitarismo nazista rappresentano le due facce del dramma filosofico della Germania, al momento in cui attinge la realtà (60).
Dunque, la situazione spirituale del dopoguerra e di oggi sarebbe caratterizzata da due possibilità opposte: quella dello spirito scientista portato alle sue conseguenze estreme, e quella del ritorno al platonismo e al cristianesimo. Importa acquisire la consapevolezza della loro inconciliabilità, lacerando le tante maschere che sono state messe in azione per coprire l’opposizione.
Tale opposizione è infatti sostanziale tra lo spirito della scienza greca, orientato verso la contemplazione, e quello profano della scienza moderna, diretto al dominio del mondo attraverso la tecnica, e dunque informato allo spirito di dominio e di potenza (61). Se noi eleviamo il tipo dell’intelligenza scientifica, nel senso moderno, a tipo dell’intelligenza, abbiamo uno scientismo che è assolutamente incompatibile così con la religione come con la morale. È per questo, scrive la Weil, “che oggi la religione è cosa della domenica mattina. Il resto della settimana è dominato dallo spirito della scienza. I non credenti, che vi sottomettono tutta la loro settimana, provano il senso trionfale di unità interiore. Ma hanno torto, perché la loro morale non è meno in contraddizione con la scienza che la religione degli altri” (62).
Quindi: 1) il processo del laicismo verso lo scientismo è irreversibile; 2) ma lo scientismo non può riconoscere altro principio che la forza, e deve interpretare ogni realtà secondo questo principio; 3) la sua seduzione può esercitarsi anche sul pensiero religioso, e determinerà ivi la massima deviazione e confusione che mai vi sia stata; 4) in ragione del carattere assoluto dell’alternativa, il successo dello scientismo determinerà la più completa rottura con la tradizione, lo “sradicamento”.
Non c’è dubbio che questo processo sia in corso, e che il ventennio dal primo dopoguerra ad oggi non possa altrimenti essere caratterizzato che come la sua progressiva estensione. È corrente parlare, ad esempio, di “una civiltà tecnologica”, come se una civiltà potesse essere caratterizzata non dal suo rapporto rispetto a Dio, ma dagli strumenti di produzione.
A differenza però, per es., di dieci anni fa, è indubbiamente cresciuto il numero di coloro che hanno coscienza del suo carattere negativo e dei suoi pericoli. Il processo è avvenuto esattamente nella maniera prevista dalla Weil; le forme di idealismo immanentistico sono crollate sotto la scossa del marxismo; ma, d’altra parte, l’illuminismo, ritrovato insieme all’idea del progresso, ha reagito sul marxismo ripensandolo in guisa tale da liberarlo da ogni sopravvivenza di mentalità “teologica” (63). Ed è rimasta, unica fede dell’uomo moderno, la scienza, vista nella sua connessione con la tecnica.
Il passaggio dalla scienza allo scientismo è inevitabile, quando venga abolita la dimensione metafisico-religiosa. Cioè, la costituzione delle scienze del mondo umano, porta al sociologismo, come sostituzione della sociologia alla metafisica nella comprensione della natura umana. Certamente, non si vuole con ciò negare l’utilità della sociologia in se stessa. La stessa Weil scrive che “i tentativi dei contemporanei per fondare una scienza sociale concluderebbero al prezzo di un po’ più di precisione.
Occorrerebbe mettere alla base la nozione platonica del grosso animale o la nozione apocalittica della Bestia. La scienza sociale è lo studio del grosso animale e deve descriverne minuziosamente l’anatomia e la fisiologia, i riflessi naturali e condizionati…” (64). È infatti soltanto un ragionamento di tipo sociologico quello che permette di individuare i servitori del grosso animale, e altresì di accertare la tesi per cui c’è una contraddizione invincibile tra la limitazione del riconoscimento dell’esistenza alle sole cose umane e la posizione di principi assoluti.
Ma, se lo studio delle relazioni tra le idee e i fatti sociali viene fatto nel presupposto che l’unico tipo di intelligenza sia quello scientifico, la correlazione viene interpretata in termini di dipendenza, ossia il pensiero viene ridotto alla pura espressione di una situazione storica, contro ogni teoria metafisica della sua “rivelatività” e ogni residuo, presente pur nel marxismo, di essa.
Questa teoria espressivistica trova la sua formulazione nella riduzione delle metafisiche a ideologie, quali espressioni della situazione storico-sociale di un gruppo, soprastrutture spirituali di forze che non hanno niente di spirituale, come interessi di classe, motivazioni collettive e incoscienti, condizioni concrete dell’esistenza sociale. Per cui il progresso delle scienze umane porterebbe alle scienze sociali, che finalmente, come piena estensione della ragione scientifica al mondo umano, compirebbero la sostituzione completa del discorso scientifico al discorso filosofico, chiarendo l’origine mondana, sociale e storica del pensiero metafisico. Il che coincide con l’insegnamento a guardare la realtà con gli occhi del grosso animale; del resto sono chiare le somiglianze tra il pensiero sofistico e quello degli assertori di un recente “relativismo assoluto” o “relazionismo”.
La ricerca dell’accordo col nuovo spirito scientifico è l’essenza del neomodernismo religioso. Quante tentazioni di neomodernismo fossero rimaste dopo l’enciclica Pascendi è quel che oggi i suoi nuovi assertori mettono in luce. E’ comunque certo che i germi della ripresa si affacciarono negli anni intorno al ’35, e ne fu occasione il problema del dialogo cristiano-marxista; il vecchio Loisy non mancò di avvertirlo in un suo libro del 1937, Effettivamente può sembrare che la scienza lasci il posto libero per una possibile affermazione “demitizzata” di una realtà sopraumana, col limitare la sua attenzione alle cose dell’al di qua, e il metter da parte ogni pretesa a sistemi metafisici immanentistici.
Si tratta però di sapere che cosa può diventare la religione, soppressa la mediazione metafisica (ossia il momento greco). Credo che nessuno come la non battezzata Weil abbia percepito con altrettanta precisione il delinearsi di un fenomeno che si sarebbe manifestato in forma macroscopica solo in questi ultimi anni.
Leggiamo attentamente quel che scrive: “L’esistenza della scienza da’ cattiva coscienza ai cristiani. Pochi tra loro osano essere certi che, se partissero da zero e se considerassero tutti i problemi abolendo ogni preferenza, in uno spirito di esame assolutamente imparziale, il dogma cristiano apparirebbe loro come la verità manifesta e totale. Questa incertezza dovrebbe rilassare i loro legami con la religione; non è così e ciò che impedisce che sia così è che la vita religiosa fornisce loro qualcosa di cui hanno bisogno. Sentono più o meno confusamente di essere attaccati alla religione da un bisogno. Ora il bisogno non è un legame legittimo tra l’uomo e Dio… Il Cristo ha detto: ‘Io sono la verità’. Ha detto altresì di essere del pane e del vino; ma ha detto: ‘Io sono il vero pane, il vero vino’, vale a dire il pane che è soltanto verità, il vino che è soltanto verità. Occorre desiderarlo anzitutto come verità, soltanto in conseguenza come nutrimento. Occorre che queste cose siano state completamente dimenticate perché si sia potuto scambiare Bergson per un cristiano, lui che credeva di vedere nell’energia dei mistici la forma compiuta di quello slancio vitale di cui si è fatto un idolo. Mentre la meraviglia, nel caso dei mistici e dei santi, non è che abbiano più vita, una vita più intensa degli altri, ma che in essi la verità sia diventata vita. In questo mondo la vita, lo slancio vitale caro a Bergson non è che menzogna, e soltanto la morte è vera. Perché la vita costringe a credere ciò che si ha bisogno di credere per vivere; questa servitù è stata elevata a dottrina sotto il nome di prammatismo; ma gli esseri che malgrado la carne e il sangue hanno interiormente oltrepassato un limite equivalente alla morte, ricevono un’altra vita che non è in primo luogo vita, che è in primo luogo verità. Verità diventata vita… Si può affermare senza timore di esagerazione che oggi lo spirito di verità è quasi assente dalla vita religiosa. Questo si constata tra l’altro nella natura degli argomenti portati a favore del cristianesimo. Molti sono della specie pubblicità per pillole Pink. È il caso per Bergson e tutto il pensiero che se ne ispira. In Bergson la fede appare come una pillola Pink di qualità superiore, che comunica un grado prodigioso di vitalità” (65).
Verità e vita sono certamente legate nello spirito religioso, ma preporre la verità alla vita è l’essenza della bestemmia (66). Ora se per “civiltà tecnologica” si intende quella per cui l’intelligenza di tipo scientifico nel senso moderno viene considerata come il tipo dell’intelligenza, la persecuzione indiretta che essa esercita contro la religione si rivela più grave di ogni persecuzione diretta: perché la religione si trova assimilata a una droga. “Oppio”, diceva Marx; sembra che molti nuovi apologeti si mettano sul suo stesso punto di vista, limitandosi a cercar di dimostrare che, anziché oppio, è una droga stimolante. Un dogma sembra poco adatto a questa funzione, nella prospettiva della ‘trasformazione delle realtà terrestri’? Mettiamolo nell’ombra, nella fiducia molto modernista che la storia segnerà la fine di certi dogmi – o di tutti i dogmi. Troppi ‘dialoghi tra cristiani e marxisti’ assomigliano a discussioni sulle qualità di questa o quella droga.
È chiaro come alla Weil questa estensione per cui le idee, viste quali strumenti per il dominio umano nel mondo, vengono sussunte al principio della forza, debba apparire la ripetizione del peccato come principio dell’affermazione dell’io: “Dammi la mia porzione…”. Questa posizione, essa la chiama “materialismo”. Se guardiamo bene, il termine è perfettamente esatto. Il passaggio dal materialismo metafisico al materialismo scientifico, sotto forma di un’assunzione del nominalismo tale da escludere l’ipostasi di un essere universale chiamato materia, avviene all’interno del materialismo stesso. Il pensiero della Weil potrebbe essere qui prolungato in una domanda che gli storici della filosofia non mi consta si siano ancora posti: se la legge comtiana dei tre stadi non abbia la sua piena validità, ma all’interno del materialismo.
Se per rivoluzione si intende rottura completa con la tradizione, e se questa rottura viene definita attraverso la liberazione dai miti religiosi, il sociologismo rappresenta il pensiero rivoluzionario giunto alla conclusione ultima, quello in cui sostituisce la rivoluzione scientifica alla rivoluzione politica. Si può quindi parlare per la situazione di oggi di un’attualità di Comte dopo Marx, nel senso di un processo di ateizzazione più radicale: perché, se definiamo il tipo di pensiero metafisico come l’idea dell’altra realtà, nel marxismo l’uomo si trasfigura in un’altra realtà proiettata nel tempo, mentre per il positivismo l'”uomo nuovo” viene invece raggiunto attraverso l’abolizione dell’idea dell’altra realtà.
Ma riflettiamo alla forma di questa attualità comtiana, considerando lo spirito del comtismo, e lasciando naturalmente da parte le diversità metodologiche che possono esserci tra la sua impostazione della ricerca sociologica e le recenti. Nel sociologismo recente cadono tutti gli elementi che portavano Comte alla “religione dell’umanità”.
La posizione comtiana è risospinta a quella dei suoi primi maestri, gli ideologi creatori dell’Ecole Polytecnique, e creatori altresì del termine ideologia in un senso fondamentalmente assai simile al presente (67); allievi di Condorcet, e rappresentanti la direzione estrema dell’illuminismo, perciò che ne riaffermano lo spirito, dopo la critica rousseauiana alla linea dei philosophes da Diderot a Holbach, e i suoi due esiti, il giacobinismo robespierriano e il romanticismo cattolico. Sarebbe curioso studiare come l’illuminismo di oggi trovi il suo punto di giuntura col vecchio illuminismo nel punto preciso in cui si dichiara, sia pur sotto forma di incunabolo, la forma di pensiero sociologistica.
Si è spesso parlato di conservatorismo, così a proposito di Comte, come del sociologismo. È impossibile negare che la forma scientifica e non più politica di rivoluzione (perché questo era l’intento comtiano, partire da una riforma del sistema delle idee, che è più radicale della rivoluzione politica, in quanto ne cancella i residui aspetti religiosi, l’escatologismo, ecc.) rappresenti nel processo dello spirito laico un momento conclusivo irreversibile, e abbia la sua base in ben consolidati interessi (egoismi di nazioni arrivate, di culture arrivate, di classi dirigenti arrivate); in ultima analisi interessi economici. Per cui il fenomeno caratteristico, veramente senza precedenti, di oggi, è la crisi terminale della posizione rivoluzionaria, se almeno le diamo il senso di universale liberazione umana: nel senso che la radicalità massima della rottura con la tradizione è insieme connessione necessaria con la maggiore coalizione di interessi conservatori che si sia data nella storia; la maggiore, perché è la conciliazione di tutti gli interessi che si sono costituiti sulla base o all’insegna dello spirito di modernità.
Naturalmente, il sociologismo di oggi ripete il linguaggio filantropico dei suoi predecessori: libertà, giustizia, assistenza, tolleranza, nella forma di “dichiarazione di diritti”. Ma, d’altra parte, come non accorgersi che queste dichiarazioni di diritti si accompagnano con un processo continuo di disumanizzazione? Troviamo qui una nuova verifica del processo di pensiero della Weil, per quel che riguarda la sua insistenza sulla necessità della dichiarazione dei doveri verso l’essere umano, non dei suoi diritti: “La nozione di obbligazione prevale su quella di diritto, che le è subordinata e relativa.., Non ha senso il dire che gli uomini hanno, da una parte dei diritti, dall’altra parte dei doveri. Tali parole non esprimono che differenze del punto di vista. La loro relazione è quella dell’oggetto e del soggetto. Un uomo, considerato in se stesso, ha soltanto dei doveri, tra cui si trovano certi doveri verso se stesso. Gli altri, considerati dal suo punto di vista; hanno soltanto dei diritti. Egli ha a sua volta dei diritti, quando è considerato dal punto di vista degli altri, che si riconoscono aventi delle obbligazioni verso di lui… Soltanto l’obbligazione può essere incondizionata. Essa si pone in un campo che è al di sopra di tutte le condizioni, perché è al di sopra di questo mondo. Gli uomini del 1789 non riconoscevano la realtà di un tale dominio. Non riconoscevano che quella delle cose umane. È per ciò che hanno cominciato con la nozione di diritto. Ma al tempo stesso hanno voluto porre dei princìpi assoluti. Questa contraddizione li ha fatti cadere in una confusione di linguaggio e di idee che conta molto per spiegare la confusione politica e sociale attuale. Il dominio di ciò che è eterno, universale, incondizionato, è altro da quello delle condizioni di fatto; e in esso abitano delle nozioni differenti legate alla parte più segreta dell’anima umana… L’obbligazione è eterna. Corrisponde al destino eterno dell’essere umano” (68).
Negli Ecrits de Londres, contemporanei a L’Enracinement, e formalmente più incisivi, per la ragione già detta che il suo stile trova la maggiore sua efficacia negli scritti brevi e nei frammenti, la Weil unifica nella sua critica le nozioni di diritto, di persona e di democrazia, richiamandosi all’affermazione di Bernanos, secondo cui la democrazia non offre alcuna difesa rispetto al prevalere di oligarchie oppressive; e, particolarmente, sottopone a critica uno dei truismi oggi più correnti; quello della realizzazione della persona (69).
Il famoso épanouissement della persona umana assunto con tanta facilità oggi, come criterio ultimo di valutazione (non si sente parlare persino dell’affermazione di Dio come condizione perché la persona umana si realizzi?) porta ad “attitudini verso la vita, quali quella, così comune nel nostro secolo, che è espressa dall’orribile frase di Blake: “Val meglio soffocare un bambino nella sua culla; che conservare in sé un desiderio non soddisfatto” (70); “quando la nozione, di soprannaturale si perde… il materialismo che ne deriva costringe a disprezzare l’uomo. Nel mettere il bene nella materia, porta a trattare l’uomo come materia — o al di sotto” (71).
Vi è una critica della contraddizione insita nell’idea della società del benessere — il benessere essendo l’unico fine che il sociologismo possa riconoscere. Tale benessere non può essere sentito altrimenti che come benessere individuale, e l’altra persona appare al soggetto soltanto come strumento per il suo affermarsi. Nel descrivere, nella Repubblica, il processo di degenerazione spirituale, Platone distingue il tipo democratico, in cui domina la ricerca dei piaceri non necessari, ma non soddisfatti in patente violazione della legge morale; e il tipo tirannico in cui i piaceri di ogni specie sono ricercati e soddisfatti senza più nessun freno etico. Ora, la democrazia fondata sul sociologismo, è esattamente una democrazia formata da uomini di tipo tirannico.
La tirannide non viene abolita ma, per così dire, moltiplicata all’infinito; e si presenta per ogni uomo la dialettica del tiranno. Per un verso, infatti; l’aspirazione dell’uomo all’infinito rovesciata sul piano terreno e ormai svincolata da ogni traduzione dell’escatologismo su questo piano; dà luogo al culto dell’io; il desiderio non può prendere altra forma che quella della ricerca di dominio universale; ma questo desiderio non può realizzarsi che attraverso l’apparire agli altri come indispensabile, in quanto il più atto a offrire gli strumenti per l’accrescimento del loro tono vitale. Onde la ricerca dei mezzi di questa strumentalizzazione rispetto agli altri, e di conseguenza la perdita totale del pudore; tutto diventa oggetto di mercato. Chi più riesce a vendere è di diritto il sovrano: il mercantilismo puro, altro aspetto del rovesciamento dei platonismo (72).
Ma torniamo ancora un momento sulla priorità della nozione di obbligazione. La Weil non ritrova con ciò il senso dell’idea classica del diritto naturale, contro la sua versione illuministica? La precedenza dell’aspetto di legge oggettiva rispetto a quella di diritto soggettivo, onde l’inscindibilità del diritto naturale dalla metafisica? Tutto il pensiero della Weil — ed è qui la sua singolarità — sta nel ritrovamento delle idee tradizionali, a partire da una posizione iniziale che non è di difesa, ma di rivolta: a ritrovarle, perciò, nel loro carattere autentico.
Ora, qualunque sia la scelta che si voglia fare, per il principio del Logos o per quello della forza, resta che c’è qualcosa che non si può negare, il carattere profetico delle sue vedute, nei riguardi del destino dell’Europa (73), del processo irreversibile del laicismo verso lo scientismo e il sociologismo, del neomodernismo, della presente situazione morale.
Abbiamo visto come la sua critica del marxismo non sia semplicemente negativa. Nella sua critica delle dichiarazioni dei diritti possiamo vedere la continuazione della critica marxista dei “diritti naturali” della rivoluzione francese, come sovrastruttura in termini filantropici del “diritto all’egoismo”; la continuazione della critica marxista al giusnaturalismo illuministico.
Possiamo andare al di là di questo, e dire che ha posto nei suoi termini esatti il possibile dialogo tra pensiero religioso e marxismo; che deve consistere nel porre il pensatore marxista nella necessità di autocriticarsi, col mettergli innanzi come il fallimento della rivoluzione e il cedimento innegabile della filosofia marxista rispetto al sociologismo dimostrino l’erroneità della sua scelta iniziale nel riguardo della capacità autoredentiva dell’uomo. Dialogo che è invece completamente assurdo, quando è posto nei termini consueti di depotenziamento reciproco di pensiero cristiano e di marxismo; di alterazione sostanziale delle due posizioni, per la ricerca di un accordo fittizio.
Si è spesso parlato della funzione che deve oggi avere il laicato nel parlare alla Chiesa; ora il processo di conversione della Weil, benché incompiuto, mette in luce le condizioni per una rinascita religiosa, e dimostra come il maggiore ostacolo che essa incontri sia proprio rappresentato dalla volontà modernista di adeguazione al mondo presente.
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NOTE
(1) Così infatti si esprime nel giustificare a padre Perrin la sua decisione dì restare fuori della Chiesa (Attente de Dieu, p. 88, trad. it.: Attesa di Dio, Roma, 1954). È difficile pensare a un errore storico maggiore di quello di confondere teocrazia medievale e totalitarismo. Potremmo dire che il secondo, per ciò che subordina ogni attività spirituale alla politica, e di fatto al giudizio del politico, è l’affermazione del “primato del temporale”, ossia la compieta negazione di quel che almeno in teoria giustificava la prima. Ma, come vedremo, la Weil non poteva ragionare altrimenti, perché la sua formazione originaria riflette l’anticlericalismo di Alain; e, in questa prospettiva, era inevitabile che l’ideale teocratico le apparisse come espressione della volontà di potenza della Chiesa.
(2) “Non c’è pienezza di attenzione che nell’attenzione religiosa” (La pesanteur et la gràce, p. 153; trad. it.: L’ombra e la grazia. Comunità, Milano, 1951). I testi essenziali sull’attenzione si trovano in: La pesanteur et la gràce, pp. 153-162; Attente de Dieu, pp. 113-124, 154-158; La connaissance surnaturelle, p. 92. Si può pensare a un continuo approfondimento di questo tema nell’esperienza della Weil, sino alla frase de La connaissance surnaturelle:“Dio è l’attenzione senza distrazione”.
(3) Per questo punto sono da leggere attentamente le lettere a padre Perrin, in Attente de Dieu, p. 50 ss.
(4) Fu sempre infatti avversa allo stalinismo, anche nel suo periodo rivoluzionario.
(5) L’orizzonte storico del teilhardismo, nei limiti in cui vuol rimanere nell’ortodossia; sarebbe infatti la ripresa del pensiero ebraico; considerato come inconciliabile col pensiero greco. Interessano in questo senso le varie opere di Claude Tresmontant, che ha cercato di radicare il pensiero di Teilhard nella tradizione biblico-cristiana, anche se negli ultimi scritti sembri diretto a una posizione più critica.
(6) Oppression et libertè, p. 249 (trad. it.: Oppressione e libertà. Comunità; Milano, 1956).
(7) Op ult. cit., p. 226.
(8) Cahiers, II, p. 315. — II passo platonico sul “grosso animale” come ostacolo sociale per l’ascesa dell’uomo a Dio, in quanto gusto della moltitudine a cui il falso intellettuale, il sofista, vuoi compiacere, si trova in Repubblica, 6,493a-d. La Weil vi si richiama numerose volte; cfr. soprattutto La Grecia e le intuizioni precristiane, collana “Documenti di cultura moderna”, diretta da Augusto Del Noce ed Elémire Zolla, pp. 55-58, Borla editore, Torino, 1967.
(9) Cahiers, cit., p. 251.
(10) Cahiers, cit., p. 232.
(11) La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p.50.
(12) Per l’essenzialità al marxismo di questa sostituzione e per il superamento dell’etica nel pensiero rivoluzionario, cfr. il mio libro Il problema dell’ateismo, Il Mulino, Bologna, 1964, pp. cviii ss., 40 ss.
(13) Non si conosce la data precisa. Vi si leggono, tra l’altro, le frasi seguenti: “L’essenziale è l’attitudine nei riguardi dell’omicidio. Io non ho mai visto, ne tra gli spagnoli, ne tra i francesi venuti per battersi, oppure in gita (pour se promener) — questi ultimi più spesso degli intellettuali opachi e inoffensivi — io non ho mai visto nessuno esprimere neppure nell’intimità ribrezzo, disgusto e neppure soltanto disapprovazione nel riguardo del sangue inutilmente versato… Ho provato la sensazione che quando le autorità temporali e spirituali hanno messo una categoria di esseri umani al di fuori di coloro la cui vita ha un valore, non c’è nulla di più naturale all’uomo che l’uccidere. Quando si sa che è possibile uccidere senza rischiare ne castigo ne biasimo, si uccide; o almeno si circondano di sorrisi incoraggianti coloro che uccidono… Ho incontrato dei francesi pacifici che sino allora non disprezzavo, che non avrebbero avuto l’idea di andare essi stessi a uccidere, ma che si immergevano con visibile piacere in questa atmosfera impregnata di sangue. Per costoro non potrò avere mai più nessuna stima” (Ecrits historiques et politiques, p. 223). Ho tradotto questo lungo passo per render conto dell’abisso che separa la Weil dagli intellettuali ordinari, così dagli “impegnati” come dagli accademici. Fu l’esperienza della guerra civile e della violenza rivoluzionaria quel che la portò alla critica dell’idea di rivoluzione e alla riscoperta della tradizione platonica.
(14) La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 50.
(15) Così anche per la Weil; dr. op. ult. cit., pp. 47-48.
(16) È da osservare: 1) Il pessimismo moderno sorge in correlazione al pensiero rivoluzionario, di cui è l’antitesi. 2) Percorre un ciclo di sviluppo entro cui progressivamente si separa dalla figura ateistica. Al suo termine, in cui vorrei porre la Weil, si riconcilia col pensiero religioso. 3) È caratterizzato da un particolare orizzonte storico in cui figurano Kant, Platone, il pensiero orientale; e per il pensiero cristiano, la tradizione mistica, con l’esclusione dei teologi e dei dottori. Ciò già per Schopenhauer; ma questo orizzonte si mantiene anche per la Weil. Per la differenza tra la sua posizione e quella del pessimismo ordinario possiamo anche servirci di una frase dei Cahiers, II, p. 369: non si tratta di cercare “un rimedio” contro la sofferenza, ma di farne un “uso soprannaturale”.
(17) La Grecia e le intuizioni precristiane, cit., p. 64. — È vero che su questo punto ci sono incertezze perché in numerosi altri passi insiste sull’impersonalità di Dio; cfr. p. es., Attente de Dieu, p. 136.
(18) La Grecia, cit.; p. 98.
(19) Op. ult. cit.., p, 76 ss.
(20) Op. ult. cit., p. 50.
(21) Op. ult. cit.., p. 50.
(22) Op. ult. cit., p. 64.
(23) J. daniélou, Hellenisme, Judaisme, Christianisme, nel volume collettivo Réponses aux questioni de Simone Weil, Aubier, Parigi, 1964, pp. 36 e 26.
(24) Cfr. per es. Ecrits historiques et politiques, pp. 76, 373.
(25) Su questo punto la tesi della Weil concorda con quella successivamente sostenuta da Mircea Eliade.
(26) Cfr. La pesanteure et la grace, pp. 192-193.
(27) La connaissance surnturelle,pp. 90-91.
(28) Op. ult. cit., p. 271.
(29) Op. ult. cit., p. 168. Ho citato alcuni passi significativi, ma sarebbe da commentare l’intera Connaissance surnaturelle.
(30) Che infatti essa ricorda più volte, mostrando di aderirvi; cfr. per es. La Grecia, cit., p. 211.
(31) L’idea di “decreazione” è definita inCahiers, n, p. 91, come l'”annientamento in Dio che dà alla creatura annientata la pienezza dell’essere, di cui essa è privata per ciò che essa esiste”. A partire da essa si intende il valore di purificazione che ha per la Weil la scienza, intesa nel suo significato antico: essa serve a portare a pensarci “dal punto di vista dell’essere”, e con ciò a farci pervenire all’indifferenza nel riguardo di noi stessi. È difficile non sentire in queste affermazioni un accenno spinoziano, almeno di uno Spinoza del quinto libro dell’Etica, riportato, attraverso l’acosmismo, al pensiero antico, e separato da ciò per cui continua nell’hegelismo. Per dire con più precisione, si tratta di uno spinozismo ritrovato attraverso il quietismo. Le affinità tra una certa interpretazione dello spinozismo e il quietismo sono state più volte segnalate; cfr. p. es., il saggio su Fénelon di L. brunschvicg, in Spinosa et ses contemporains, Alcan, Parigi, 1923, 3a ed., pp. 360 ss.
(32) Dato che i pensatori su cui la riflessione della Weil si è più esercitata sono Marx e Platone, è opportuno ricordare come lo stesso così poco mistico Engels nel suo celebre saggio su L. Feuerbach e la fine della filosofia classica tedesca, si richiami all’interpretazione del male affermata nel mito di Anassimandro, con lo scrivere: “La tesi della razionalità di tutto il reale si risolve, secondo le regole della dialettica hegeliana, in quest’altra: tutto ciò che esiste merita di morire”. La dialettica significa cioè estensione della mortalità del finito alle verità dette eterne. La ripresa della concezione della mortalità del finito, dopo il passaggio dalla concezione cosmologica antica alla concezione antropologica cristiana, significa accettazione della naturalità della morte, nel senso che è vietato ogni riferimento all’originaria caduta, e affermazione della creatività umana. Porta insomma all’idea dell’autoredenzione. Perché la divergenza tra questa concezione e la cristiana appaia nella maggior luce, opponiamola a queste parole di Pascal: “Essi, Socrate e Seneca (e in generale i filosofi antichi) sono rimasti sotto il peso dell’errore che ha accecato tutti gli uomini nel primo, essi hanno considerato tutti la morte come naturale all’uomo” (Lettera alla sorella M.me Périer, 17 ottobre 1951, ediz. Brunschvicg minar, p. 97). Per la presenza della concezione del male dichiarata nei frammento di Anassimandro nel razionalismo moderno e nel suo processo verso l’ateismo, cfr. il mio Problema dell’ateismo, cit., pp. XXIV ss.
(33) Scrive infatti: “…Il passato è la migliore immagine delle realtà eterne, soprannaturali (la gioia, la bellezza del ricordo dipende forse da ciò). Proust aveva intravisto questa verità” (La Grecia, cit., p.86). Invertendo questa proposizione si potrebbe dire che il fascino della sua opera sta nella bellezza del ricordo, quali che siano state le sue intenzioni. Naturalmente, non penso affatto ad aderire a questa interpretazione. Tuttavia, non è soltanto un’interpretazione possibile, è un’interpretazione di fatto corrente, anche se nessun studioso, a mia conoscenza, l’abbia espressamente sostenuta: come spiegare altrimenti l’interesse estremamente scarso che l’opera weiliana ha suscitato presso i filosofi? È da osservare come non sia un caso che tra i poeti dei secoli XIX e XX giudichi solo degni di questo titolo coloro in cui è presente un accento gnostico: Vigny, Lamartine, Nerval, Mallarmé, Valéry.
(34) Attente de Dieu, pp. 68-69.
(35) Veramente, a questo periodo ateo non accenna nella sua “autobiografia spirituale”. Non c’è però dubbio che l’abbia attraversato: cfr. J. cabaud, L’expérience vécue de S. W., Plon, Parigi 1957, p. 97.
(36) Senza cercare ora di interpretare il senso di questa esperienza, mi limito a osservare come essa contraddica — di una contraddizione feconda perché dimostra come l’esperienza della Weil trascenda i modi razionali in cui ha cercato di comprenderla — quella tesi dell’impersonalismo divino per cui parlare della “persona” di Cristo sarebbe stato diminuirlo. In realtà, il suo quietismo, logicamente svolto, avrebbe dovuto condurla a una forma di spinozismo, dunque a una nuova negazione del soprannaturale. Un approfondimento completo di queste punto porterebbe a dimostrare come lo gnosticismo non possa venire considerato che come un momento del suo pensiero.
(37) S. pétrement, Sur la religion de Alain avec quelques remarques concernant celle de Simone Weil,in Revue de Métaphysique et de Morale, 1955; ch. moeller, Simone Weil et l’incroyance des croyants,in Litterature du XX siècle et christianisme, Casterman, Parigi, t. I, p. 220 ss.
(38) Jules Lagneau fu maestro di Alain; questi, maestro della Weil al liceo Henri IV (1925-28). Oltre a quella del Lagneau, che teoreticamente fu la più decisiva, bisogna ricordare nei riguardi di Alain la influenza di Renouvier; secondo il quale, mosso anche da suggestioni del filologo Louis Ménard, bisognerebbe parlare di due sole autentiche civiltà, la greca e la moderna, dal Rinascimento in poi; idea sostanzialmente condivisa da Alain. Si vede come l’idea del “miracolo greco” si organizzi intorno al mito della Renaissance, nella forma che gli aveva dato il Michelet. Certo, nella Weil l’idea del “miracolo greco” prende una forma pessimistica: tuttavia essa si muove sempre in un orizzonte che riflette, per le sue origini, l’anticlericalismo ottocentesco.
(39) PÉTREMENT, art. Cit., p. 329.
(40) Op. ult. cit., p. 319.
(41) “Gli errori della nostra epoca sono del cristianesimo senza soprannaturale. Il laicismo ne è la causa, e anzitutto l’umanismo” (La pésanteur et la grace, p. 91).
(42) Il problema dell’ateismo, cit., p. 11.
(43) Propos sur la religion, Parigi, 1937, p. 141.
(44) Les dieux, 1930, pp. 363 e 328.
(45) Cfr. per es. Les saisons de l’esprit, 1937, pp. 284-285.
(46) Politique, 1951, p. 292.
(47) Les saisons, cit., p. 123.
(48) Préliminaires a la mythologie, p. 145.
(49) Propos sur la religion, cit., p. 24.
(50) moeller, Simone Weil, cit., pp. 251-252.
(51) Cfr. Etienne gilson, Le thomisme (pp. 177-180, nella 3° ediz., 1927); nonché Problemi d’oggi. Borla editore, Torino, 1967, pp. 157-158.
(52) Naturalmente in ragione della necessità delle essenze filosofiche, questa vicinanza a Malebranche si ripercuote in un’antipatia per Pascal; che è comprensibile; essendo tutto il pensiero di Pascal centrato sull’idea biblica della caduta.
(53) Le simpatie per il dualismo cataro erano frequenti negli anni tra il ’30 e il ’40. Corrispondono a una veduta per così dire, intraeuropea della crisi; l’avanzata, che sembrava irresistibile del fascismo e del nazismo, appariva come un’insurrezione della “vitalità”; quale potenza irriducibile e principio del male, rivolta tellurica contro i valori dello spirito. L’opera del saggista, anch’egli, proveniente, come Alain, dalla generazione “drewfussarda”, Julien BENDA è oggi totalmente dimenticata, nel senso più profondo che, non solo non si trova il tempo di leggerla, ma che neppure la si leggerebbe se se ne avesse il tempo. Tuttavia il suo libro filosofico maggiore Essai d’un discours cohérent sur le rapport de Dieu et du monde (1931), ha un suo interesse come ritrovamento della posizione catara attraverso la mediazione di Malebranche giudicato “un maestro che non mi stanco mai di invocare” (così nel libro che gli è immediatamente antecedente e che in che guisa gli serve di introduzione, La fin de l’éternel, 1929, p, 196). Se poi compariamo la tesi del Benda con le affermazioni catare della Weil, non vi troviamo grande differenza salva che nell’accento. Ma qui, proprio l’accento è l’essenziale. Il Benda ha formulato le sue tesi sulla difesa del “mondo di ieri”; la Weil ha ritrovato il pensiero religioso a partire dall’esperienza vissuta del pensiero rivoluzionario; e l’attenzione del lettore non si porta naturalmente tanto su quel che è “cataro” quanto sulla “religione ritrovata”.
(54) La definizione di enracinement è la seguente: “Un essere umano ha una radice per la sua partecipazione reale, attiva e naturale all’esistenza di una collettività che conserva viventi certi tesori del passato e certi presentimenti di avvenire” (L’Enracinement, cit., p. 161). Il “radicamento” è tutt’altra cosa dal sociale che è il “collettivo”, principio di idolatria (“L’errore che attribuisce alla collettività un carattere sacro è l’idolatria”, Ecrits de Londres, p. 1.8), Il processo dell’ultimo ventennio è stato progresso nello sradicamento: sotto questo riguardo si potrebbe dire che la Weil ha anche previsto il fenomeno beat come accettazione dello sradicamento.
(55) Ecrits de Londres, pp. 107-108.
(56) L’Enracimement,cit, p. 304.
(57) L’Enracinement, p. 305.
(58) ibid., p. 303.
(59) Quanto la Weil aveva simpatizzato per Alain, altrettanto poco per Brunschvicg. E si comprende: Alain era il filosofo delle ètages, e in ragione di ciò nessuna forma gli appariva come definitivamente vinta o oltrepassata nella storia; Brunschvicg, invece, il filosofo delle ètages, e non per nulla Condorcet era uno dei suoi idoli. Onde la varietà dei loro radicalismi. Quello di Alain è caratterizzato dalla “resistenza dell’individuo ai poteri”, dal sentimento della continua minaccia che “il sociale” esercita sull’individuo. Cfr. Eléments d’une doctrine radicale, Parigi, 1925, Nella idea alainiana delle ètages vi era senza dubbio la premessa del radicale antistoricismo della Weil.
(60) Cfr. per es. E. nolte, Der Faschismus in seiner Epoche, Piper, Monaco, 1963, pp. 523-534. Sempre degne della maggiore attenzione le pagine di padre Gaston fessard, De l’actualité historique,Desclée, Parigi, 1960, t. I. Ma, in fondo, dobbiamo dire che alla stessa conclusione si arriva anche se si legge in chiave non marxista il noto libro del lukàcs sulla Distruzione della ragione. Non è certo casuale che questo libro abbia avuto scarso successo soprattutto negli ambienti culturali progressisti o marxisti, Infatti, benché scritto con la volontà della più rigorosa ortodossia marxista, suggerisce in realtà una veduta non marxista, cioè quella di una effettiva impotenza storica, nonché delle filosofie che si sono opposte al marxismo in un orizzonte kantiano o hegeliano, anche dello stesso marxismo come potenza storica rivoluzionaria. La natura di questo lavoro mi costringe a lasciar qui questa osservazione allo stato di appunto.
(61) L’Enracinement, cit., pp. 307 ss.
(62) L’Enracinement, p. 310.
(63) La fortuna che incontra oggi lo strutturalismo, l’adesione ad esso anche di scrittori marxisti come l’Althusser, sono i segni della crisi irrevocabile del marxismo come pensiero rivoluzionario.
(64) L’Enracinement, p. 370.
(65) L’Enracinement, pp. 312-316.
(66) L’Enracinement, p. 313.
(67) Su questo punto, assai poco studiato, cfr. le linee generali per la posizione del problema nel mio scritto Intorno alle origini del concetto di ideologia, nel vol. Ideologia e filosofia, Morcelliana, Brescia, 1967.
(68) L’Enracinement,pp. 9-11.
(69) Ecrits de Londra. p. 24.
(70) Ecrits de Londres, p. 16 Inutile osservare che il pensare Dio come “condizione perché la persona umana si realizzi” è per la Weil uno degli aspetti della posposizione della verità alla vita. In questo senso le sue diffidenze verso termini tanto usciti oggi dai cattolici come “personalismo” o “umanismo” sono giustificate.
(71) Op. ult, cit., p. 169.
(72) Particolarmente aspra è la critica della Weil alla “parte dell’animo che dice ‘noi’”. Il passaggio della persona all’”impersonale” (alla verità) è possibile; il passaggio dal “noi” alla verità è impossibile. Ora, la presente civiltà tecnologica, se la definiamo non per il possesso di certi strumenti, ma per il valore accordato esclusivamente a un certo tipo di intelligenza, l’intelligenza scientifica, è esattamente la civiltà del “noi”. Il pericolo del totalitarismo, che altrimenti non può essere definito che per questa assolutizzazione del “noi”, non è dunque affatto scomparso, se anche non può più ripetersi nelle forme staliniane o naziste.
(73) Mi sembra che una visione spassionata della situazione presente non possa che portare alla considerazione che segue: senza un ritrovamento della tradizione, conseguente a un risveglio religioso, la sorte dell’Europa è segnata: da una democrazia separata dalla libertà (attraverso la costituzione di oligarchie feudali) a un medioevo senza fede, dunque a un’età pagana senza Grecia; ho cercato di mettere in luce questo nel mio scritto Il problema politico dei cattolici, UIPC, Roma, 1967. Ma questo esito non è che l’esplicazione totale dello “sradicamento” definito dalla Weil.
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