Nella storiografia del XX secolo si è diffusa la tendenza a leggere tutti i fatti e i personaggi del XX secolo in rapporto alla tragedia della Shoah. Questa visione “giudeocentrica” non va esente da manipolazioni, a volte in chiave polemica contro la Chiesa cattolica, come dimostra il famoso “Affaire Dreyfus”.
di Vittorio Messori
Sergio Romano, già ambasciatore in sedi prestigiose (tra l’altro, a Mosca negli anni della dissoluzione dell’Urss) è tra i più autorevoli commentatori del Corriere della Sera e della Rai, oltre che autore di molti saggi storici. Ebbene, in un suo libro recente, Romano ha osservato che, a partire dagli anni Sessanta del secolo scorso, è andata sempre più crescendo l’attenzione per il genocidio degli ebrei durante il nazismo.
A differenza di ogni altro evento storico, qui i decenni non hanno portato all’attenuazione della memoria ma, al contrario, a un suo continuo acuirsi. In tal modo, scrive Romano, «si è andata progressivamente affermando una concezione “giudeocentrica” della storia del Novecento. Una visione del secolo, cioè, in cui gli eventi, le iniziative degli Stati, le decisioni delle Chiese, delle istituzioni, delle associazioni e dei semplici cittadini, ruotano come satelliti attorno al sole nero dell’Olocausto e vengono, nella sua luce, assolti o condannati». Insomma, criterio principale del giudizio, per tutti i non ebrei, sembra diventato l’atteggiamento tenuto durante i dodici anni del nazismo, con le sue teorie e pratiche razziali.
Secondo Romano, questo è avvenuto perché «alcuni hanno visto nella rievocazione della tragedia la possibilità di pareggiare i conti della storia, riscattando gli ebrei dalla accusa infamante (il deicidio) che li aveva segnati per molti secoli». Altri ancora avrebbero individuato «del tutto legittimamente nella memoria della Shoah una sorta di baluardo contro la possibilità di nuove persecuzioni». Ma anche lo Stato d’Israele avrebbe «capito che la letteratura sull’Olocausto poteva garantirgli, nella gestione del suo contenzioso territoriale con le popolazioni arabe, una sorta di semi-immunità diplomatica».
Quali che ne siano le cause, sta di fatto che anche ai cattolici è accaduto, e tuttora accade, di essere interpellati – spesso polemicamente – sulle vere o presunte responsabilità della loro storia a questo riguardo. E non soltanto a proposito di Pio XII, ma praticamente di ogni momento della vicenda della Chiesa, messa sul banco degli accusati, oggi, soprattutto per i suoi comportamenti nei riguardi del popolo dell’Antico Testamento. Per questo sarà utile ai lettori ritornare su questi temi, con una carrellata attraverso vari periodi storici e dando sudi essi qualche notizia di solito ignorata o sepolta negli archivi.
Se guardo ai miei appunti, ecco allora spuntarne molti sul celeberrimo caso di Alfred Dreyfus, l’ufficiale francese, ebreo alsaziano, condannato ingiustamente, nel 1894, alla deportazione in Guyana per spionaggio a favore della Germania. Un caso che può essere accostato all’altro, quasi altrettanto clamoroso, che cominciò nel 1858 quando a Bologna, allora ancora pontificia, un bambino ebreo, Edgardo Mortara, fu tolto alla famiglia per essere allevato come cristiano in quanto si scoperse che era stato battezzato clandestinamente (e abusivamente) dalla domestica cristiana.
Quando al “caso Mortara” dedicai una ricostruzione il più possibile oggettiva e minuziosa nella rubrica che tenevo allora sul quotidiano cattolico, qualcuno pensò che perdessi tempo nel recupero di curiosità storiche, ormai poco interessanti e magari anche dannose, nell’attuale clima ecumenico. In realtà, poco dopo, Giovanni Paolo II proclamava beato il suo predecessore Pio IX ed esplodeva una campagna di odio e di diffamazioni, dove uno dei posti privilegiati per la calunnia era proprio il richiamo non al vero caso Mortara ma alla sua ricostruzione abusiva e faziosa. Così, alcuni lettori mi scrissero o mi telefonarono per ringraziarmi: proprio quell’articolo (finito, con gli altri, in un libro) ben lungi dall’essere anacronistico, aveva permesso loro di non cedere al dubbio che la Chiesa avesse glorificato un ignobile sequestratore di bambini.
Per venire ad Alfred Dreyfus: per più di un decennio, quello che chiamano l’Affaire per antonomasia spaccò la Francia e provocò tali reazioni antisemite che Theodor Herzl, allora a Parigi come giornalista, si convinse che ogni integrazione tra israeliti e “gentili” era illusoria e occorreva dunque creare uno Stato ebraico. Nacque così il movimento sionista, che nel 1948 porterà alla fondazione di Israele.
Proprio perché accusati di far parte dello schieramento antisemita durante il caso Dreyfus, i cattolici furono “puniti” dalle sinistre radicali al governo con le durissime leggi anticlericali del 1905, con la soppressione delle Congregazioni religiose e la separazione radicale tra Stato e Chiesa. Leggi volute dall’ex seminarista passato alla massoneria Emile Combes. Ancora oggi – in Francia ma non soltanto – da ambienti ebraici o laici il fantasma dell’Affaire (che provocò tra l’altro il celeberrimo J’Accuse dell’anticlericale, anzi anticristiano tout court, Emile Zola) è rievocato tra le voci “passive” di cui i cattolici dovrebbero chiedere scusa.
Andranno allora precisate alcune verità: alla campagna contro Dreyfus – che “doveva” essere colpevole in quanto ebreo e, dunque, “traditore per vocazione” – parteciparono da protagonisti esponenti sia della destra che della sinistra non solo estranei al cattolicesimo ma a esso duramente ostili. Lo stesso partito socialista si spaccò e furono molti che si allinearono alle tesi razziste di uno dei più virulenti antisemiti della storia, Karl Marx. Del resto, si dimentica troppo spesso il fatto essenziale: il capitano fu mandato nell’inferno della Guyana (e lì si cercò di tenerlo sino alla morte, ricorrendo anche a documenti falsi e a processi truccati) dalla classe politica della Terza Repubblica che, come braccio secolare delle Logge, era espressione di una borghesia scientista, radicale, atea.
Quanto ai cattolici, il quotidiano cattolico francese, La Croix, edito dagli Assunzionisti, e il quindicinale dei gesuiti, La civiltà cattolica, si schierarono tra gli antidreyfusardi ma non innanzitutto a causa della “razza” di Dreyfus, ma perché buona parte dei nemici più radicali della Chiesa erano schierati a suo favore e perché le alte gerarchie di quell’esercito al cui prestigio si voleva attentare erano cattoliche o, in ogni caso, fautrici della difesa dei valori morali tradizionali. In un certo immaginario cattolico, ancora legato alla vita rurale, gli ebrei, più che persone concrete (ce ne erano ben pochi in provincia, nella “Francia profonda”) rappresentavano una realtà urbana, finanziaria, industriale, cosmopolita di cui si diffidava in quanto giudicata pericolosa per la fede e per la morale che se ne traeva.
E comunque indubbio che negli ambienti cattolici di cui il periodico italiano e il quotidiano francese erano esponenti, rispuntò, magari virulenta, l’antica diffidenza antigiudaica i cui inizi sono, peraltro, nel Nuovo Testamento stesso e che nulla ha a che fare (non lo si ripeterà mai abbastanza) con l’antisemitismo postcristiano, “razziale”.
La Chiesa istituzionale, comunque, sia francese che universale, non si schierò né pro né contro e tacque durante tutto l’Affaire: anzi, allarmata dagli eccessi verbali de La Croix, Roma allontanò gli Assunzionisti da quel giornale, prima che fossero poi cacciati dal mangiapreti Combes.
Si parla spesso del grande poeta e scrittore Charles Péguy che avrebbe “salvato l’onore cattolico” schierandosi a viso aperto per Dreyfus e ricordando, come scrisse, che «Gesù non è stato crocifisso dagli ebrei ma dai peccati di tutti gli uomini». Péguy, certo: giustamente si ricorda la sua lotta appassionata per la giustizia, ma non fu il solo. Si scorda che un centinaio di cattolici autorevoli, illustri per meriti civili o culturali (e, tra essi, molti sacerdoti) fondarono il Comité caholique pour la défense du droit e contrastarono sia l’ostilità antigiudaica di certi fratelli cattolici sia l’odio antisemita di tanti “laici”.
Ma c’è un paio di altri credenti sconosciuti ai più e il cui ricordo esemplare non va dimenticato. Il primo è l’avvocato Edgar Demange, cui la famiglia Dreyfus si rivolse disperata, dopo l’improvviso colpo di fulmine dell’arresto di Alfred sotto un’accusa che comportava l’ergastolo e la deportazione nell’inferno della Caienna. Va notato che alcuni altri legali – laicissimi e talvolta ebrei – rifiutarono un incarico che non giudicavano certo onorevole.
Demange, avvocato austero e rispettato dai suoi colleghi, ascoltò l’appello dei parenti del “traditore” precisando però, subito, per iscritto: «Accetto l’incarico con la seguente riserva: sarò il primo giudice dell’imputato. Se troverò nel dossier una qualunque accusa che possa farmi dubitare della sua innocenza, rifiuterò di difenderlo. Questo che vi dico è estremamente grave: il giorno in cui si sapesse che ho rinunciato alla difesa, se ne concluderebbe che il vostro congiunto è colpevole ed egli sarebbe perduto. Riflettete prima di accettare. La mia coscienza non mi permette di agire altrimenti».
La famiglia Dreyfus raccolse la rischiosa sfida. E accettò anche l’avvocato Demange quando ebbe preso visione dell’incartamento, da cui risultava la fragilità dell’accusa e il rischio gravissimo della condanna di un innocente. Per dodici anni, fino al riconoscimento completo dell’estraneità del capitano ebreo ai fatti addebitatigli, Demange non fu solo il legale agguerrito e abile ma anche l’amico sincero, il consigliere affettuoso, l’uomo il cui solo interesse era il trionfo della verità. Una missione che pagò a caro prezzo: perse gran parte della sua clientela, scandalizzata che difendesse il “traditore”; molti suoi colleghi lo isolarono; contro di lui le stesse autorità di governo (impegnate, con l’inganno e la truffa, a tenere in piedi l’accusa) scatenarono una campagna di diffamazione e di intimidazione.
Ebbene, questo autentico eroe della giustizia, cui va gran parte del merito del riscatto di un innocente, questo avvocato Edgar Demange, era un cattolico non solo per nascita ma per convinzione: un credente, per giunta tradizionalista, schierato politicamente a destra, militante in associazioni eccleesiali che oggi sospetteremmo di “integrismo”, convinto “papista”.
Non a caso diffidava di molti dreyfusardi, ai quali non interessava tanto l’uomo concreto, il povero ufficiale perseguitato, ma il simbolo ideologico e politico nel quale era stato trasformato dalla polemica. Ciò che invece a Demange stava a cuore era assistere la vittima sofferente di un gravissimo errore giudiziario, era l’obbligo di coscienza di impegnarsi a favore di un’innocenza della quale era convinto. Tanto da mettere questa convinzione, lo abbiamo visto, come condizione necessaria per accettare la difesa.
Come riconoscono tutti gli storici dell’Affaire, senza il suo avvocato cattolico non soltanto l’imputato ebreo non avrebbe recuperato, dopo tante traversie, la libertà e l’onore, ma probabilmente non avrebbe retto psicologicamente, mancandogli il conforto di un’amicizia così sincera e salda.
Ma c’è un’altra figura da aggiungere al quadro. Nel 1899, dopo quattro anni di detenzione, in condizioni disumane, in quella Caienna il cui terribile bagno penale (la “ghigliottina secca”) era stata una invenzione della “umana” Rivoluzione francese, Dreyfus è riportato in Francia, a Rennes, per essere nuovamente giudicato da una corte militare. Anche per merito del pio avvocato, è ormai imponente il dossier che scagiona lui e accusa invece un altro militare, l’avventuriero Estherazy, per salvare il quale l’esercito, con la connivenza del governo, ha fabbricato documenti falsi.
Mentre tutta l’Europa si aspetta il riconoscimento dell’innocenza di Dreyfus, giunge un nuovo, scandaloso verdetto di colpevolezza, con l’ipocrito escamotage delle “circostanze attenuanti” e la pena ridotta a dieci anni e, subito dopo, la grazia del Presidente della Repubblica. Una vergogna, di cui sono responsabili cinque giudici su sette: due ufficiali soltanto, infatti, ebbero il coraggio di rifiutare l’ordine occulto di rinnovare la condanna pur sapendo che l’imputato era innocente, per salvare l”‘onore” dell’esercito e la reputazione della classe politica. Uno di quei due giudici era il comandante de Bréon, Egli pure, come l’avvocato Demange, era un cattolico esplicito e fervente. E al punto da costringere la cattedrale di Rennes ad anticipare la prima messa.
In effetti, le udienze del tribunale cominciavano alle sei del mattino, nella speranza di diminuire l’assedio di una folla eccitata. Ma il giudice militare de Bréon voleva restare fedele alla sua abitudine di cominciare la giornata di lavoro accostandosi all’Eucaristia. Così, per tutta la durata del processo, i canonici del duomo decisero di spostare alle cinque il culto che celebravano, di solito, un’ora dopo. Maurice Barrès, lo scrittore che affettava simpatie per la Chiesa ma non era in realtà che un esteta e un nazionalista agnostico, si indignò – da antidreyfusardo accanito – del fatto che quel comandante così cattolico avesse votato per l’innocenza di Dreyfus e, in un articolo famoso, ne parlò con disprezzo, chiamandolo «un mistico, uno più cristiano che soldato, un uomo di scrupoli». Pensava di insultarlo; e, invece, ne faceva il maggior elogio.
Mi accorgo però che lo spazio è esaurito e restano inutilizzati molti altri appunti su molte altre vicende. L’appuntamento, dunque, è alla prossima volta.