14 Gennaio 2020
di Oscar Sanguinetti
Il 12 gennaio scorso ha concluso la sua ultima battaglia contro il male sir Roger Scruton.
Nella sua non breve vita ne aveva combattute tantissime: battaglie contro le cattive idee che minacciavano le “cose buone” che ogni conservatore riceve dal passato e si sente in dovere di trasmettere alle generazioni future; battaglie contro il comunismo nell’Europa orientale; battaglie contro l’ostracismo della cultura liberal-socialista dominante nel suo Paese e nel mondo; battaglie contro la sbagliata acquiescenza verso l’islamismo imperialistico; battaglie per una vita meno brutta, in cui tornassero i buoni sapori, il giusto spazio per gli animali, per i vini e per la musica classica.
Non sempre aveva vinto: anzi più spesso aveva perso: ma sempre confondendo l’avversario con la franca esposizione delle sue tesi controcorrente. Questa sua militanza nella “battaglia delle idee” e il fatto di aver combattuto con una strumentazione culturale originale e altamente raffinata, che si era forgiato in una vita intrisa di studio e di riflessione, avevano fatto di lui un campione, un vessillo per tutti coloro che condividevano un idem sentire con lui.
Non era un deduttivo, né un confessionale: figlio legittimo dell’empirismo inglese aveva tratto la giustificazione delle sue posizioni filosofiche e politiche conservatrici soprattutto dall’osservazione della realtà e da una riflessione profonda e spregiudicata, alimentata alla più genuina tradizione del pensiero conservatore anglosassone, su di essa.
Sia questa tradizione, sia la sopravvivenza di corposi brandelli del mondo “di antico regime” nel suo Paese a dispetto delle ripetute ondate di socialismo, gli hanno senza dubbio facilitato il compito. Scruton non era un conservatore “ideologico”, né un neo-conservatore, ossia un progressista convertito, come molti nell’anglosfera: era conservatore fin dagli anni dell’università, vissuti nella temperie del Sessantotto.
Dall’osservazione del reale Scruton ricavava la netta impressione che l’Inghilterra, l’Europa, il mondo occidentale stessero dissipando un capitale plurisecolare di buoni principi, di tradizioni, di realtà anche materiali che li stava impoverendo e che fossero immersi in una crisi dalla quale non si sarebbe mai risollevati senza lasciarsi “aggredire dalla realtà”.
Senza riscoprire cioè il senso dei legami collettivi e della privacy — così vivo ancora nella tradizione anglosassone meno “lavorata” dallo statalismo hegeliano e marxista rispetto ad altri Paesi —; senza una gelosa difesa della proprietà privata; senza ricostruire il senso di responsabilità verso le generazioni passate e quelle a venire, nonché verso i propri contemporanei; senza attuare la regolamentazione e la selettività dell’accoglienza agl’immigrati; senza tornare a un corretto, ossia finalizzato, uso dell’eros e del sesso; senza dare spazio pubblico al dato religioso e una giusta disciplina ai culti dei sopravvenienti; senza rafforzare l’importanza del bello in ogni forma espressiva, dall’architettura al vestire; senza ricreare un corretto rapporto con gli animali domestici — il cane, il gatto, il cavallo — e con la natura e il paesaggio, la riconquista dell’identità nazionale in senso culturale, il destino dell’Occidente gli sembrava segnato.
I Leitmotiv del suo pensiero di discepolo tardo-novecentesco di Edmund Burke (1729-1797) si possono ridurre a tre. Il primo, la credenza che vi siano nella tradizione “cose buone”, che vale la pena di conservare — o, almeno, di valutare criticamente prima di disfarsene —; quindi, la società è un organismo, in cui sono presenti i viventi, le spesso corpose vestigia di coloro che sono vissuti prima e i diritti virtuali di chi ancora deve nascere; infine, la comunità politica per essere tale deve prima essere comunità: il potere politico viene dopo la società , essendone una emanazione, e non può imporre a una realtà creatasi spontaneamente nella storia nulla che non sia in perfetta linea con le tradizioni e i desiderata di questa. Ispirato da questo background culturale, Scruton ha contrattaccato per tutta la vita, con la penna, con la parola, con l’immagine, contro il politically correct: contro l’ugualitarismo, contro il femminismo, contro il pacifismo, contro lo strapotere dell’alta finanza apatride; contro il terzomondismo; contro il multiculturalismo, contro l’omosessualismo, contro l’animalismo, contro l’immigrazionismo, contro la cattiva globalizzazione — in uno dei suoi ultimi tweet aveva scritto: «Se si domanda perché concetti quali comunità, luogo e appartenenza all’improvviso sono giunti a occupare un posto centrale nella politica [è perché] questi aspetti della condizione umana sono tutti minacciati. E la minaccia ha una sola origine: la globalizzazione» (18-11-2019) — e contro il gender.
Certo, non tutte le sue fonti d’ispirazione intellettuale o le sue scelte di autori sono condivisibili per un conservatore italiano, per esempio, l’apologia del ruolo “defilato” e consolatorio della Chiesa di Stato inglese o la predilezione per l’estetica dei filosofi idealisti tedeschi del primo Ottocento lasciano alquanto perplessi.
Così pure la sua recente giustificazione — anche se fra le righe — del suicidio come ultimo beau geste dell’uomo libero non può essere accettata. E questo è dovuto anche al fatto che, specialmente in campo politico, si avverte in lui l’assenza dell’impronta che tutta la più salda tradizione aristotelico-tomistica, della filosofia dell’essere e del senso comune, ha lasciato sul conservatorismo continentale.
Nell’introdurre l’edizione italiana di un suo volume scrivevo: «Pare quasi che l’essenza del conservatorismo per Scruton si esplichi nel fungere da katéchon, da fattore inibitore, di rallentamento e di rettificazione, dello sviluppo ineluttabile e tendenzialmente deviante verso il male e il caos — è altresì fattore di incremento di quella entropia sociale che egli denuncia — della modernità politica e sociale post-illuministica. Ma un’accezione così “ridotta” rischia di far perdere di vista o di far sottovalutare l’aspetto costruttivo o ricostruttivo — che non è mai da eliminare dagli obiettivi dei conservatori, che ne diagnosticano necessariamente e amaramente il costante allontanamento nel tempo — di un sano conservatorismo».
Ma il “grosso” del suo armamentario teorico trova ampia consonanza con quello conservatore di estrazione latina. Di questo poliedrico ed eclettico filosofo, giornalista, romanziere, docente, politico, melologo, inglese sono rimasti celebri — perché in più violento contrasto con i dogmi del moderno contemporaneo — l’apologia della caccia e della caccia alla volpe, in particolare; l’apologia del buon bere; la difesa del diritto di fumare.
Sir Roger Vernon Scruton era nato a Buslingthorpe, nel Lincolnshire, nel 1944, e cresciuto a Marlow e a High Wycombe, nel Buckingamshire, una graziosa contea a una cinquantina di chilometri da Londra, lungo il Tamigi. Il padre John, di Manchester, e la madre Cheryl, cristiani non praticanti, avevano allevato Roger e le sue due sorelle Elizabeth e Andrea in un clima di valori umani e di buon senso, anche se poco religioso. Il padre, di umili origini, era socialista.
Laureatosi a Cambridge, abilitato all’avvocatura, Scruton si era sposato una prima volta con l’insegnante francese Danielle Laffitte nel 1973, ma aveva divorziato nel 1979. Aveva vissuto fra Londra, la Francia, Praga e gli Stati Uniti. Nel 1993, tornato in patria, aveva acquistato una fattoria a Brinkworth nel Wiltshire nel sud dell’Inghilterra, dove allevava cavalli.
Nel 1996 si era risposato — con Sophie Jeffreys, storica dell’architettura, da cui aveva avuto due figli, Samuel (1998) e Lucy (2000) — e con lei aveva continuato a vivere in campagna; frequentava la locale parrocchia anglicana, dove era anche organista; tre anni fa era stato insignito del titolo di baronetto.
Scruton lascia dietro di sé decine di saggi e di centinaia di articoli usciti sulle principali testate di lingua anglosassone. Molti dei suoi saggi sono stati tradotti in diverse lingue fra cui l’italiano.
Da sei mesi era stato colpito dal male che una volta si diceva “non perdona” e aveva dovuto sottostare a immediate terapie non poco invasive e debilitanti. Nelle ultime settimane sembrava però aver superato la crisi. Pochi giorni fa era infatti riapparso alla luce dei riflettori, ancorché senza capelli e in sedia a rotelle, per ritirare un premio, l’Ordine al Merito della Repubblica di Polonia per l’impegno profuso negli anni 1980 a supporto della resistenza anti-comunista nell’allora Cecoslovacchia e in Polonia.
Poi, però, alla lunga la malattia è prevalsa e il tempo terreno di sir Roger è finito. Grati al Signore per averlo donato alla causa della restaurazione di una Europa a misura di Dio e di common sense, affidiamo la sua anima alla misericordia infinita di Cristo e le sue spoglie mortali all’amata terra dei suoi avi e di chi lo ha preceduto nella salvaguardia dell’“anima” della civiltà britannica e occidentale.
Poco prima di morire, lo scorso dicembre, aveva scritto: «Quando uno si approssima alla morte, allora inizia a capire qual è il senso del vivere e questo senso è: gratitudine».