Per comprendere le caratteristiche di un conflitto complicato, dove non ci sono né i “nostri” né i “buoni”
di Massimo Introvigne
Gli occidentali, ma soprattutto gli italiani, hanno un riflesso condizionato che deriva dagli anni della Guerra fredda: in ogni conflitto internazionale si chiedono per chi tifare, chi sono i “nostri”.
In Ucraina, se apprezzano Putin per le posizioni sulla famiglia, staranno con le milizie filo-russe. Se invece si ricordano di come la Russia – prima quella zarista, poi l’Unione Sovietica – abbia sempre cercato di negare i diritti all’identità nazionale dei popoli vicini, faranno il tifo contro Putin. Lo stesso accade in Siria. Siccome il regime è sostenuto dalla Russia di Putin, chi ha simpatia per Putin si sente in dovere di appoggiarlo.
Chi invece pensa che, nonostante tutto, per chi vive in Occidente identificare i “nostri” significhi guardare con chi stanno gli Stati Uniti finirà per appoggiare, sia pure con qualche mal di pancia, i ribelli anti-regime. E molti ricorrono a uno schema ancora più semplice: i terroristi islamici di al-Qa’ida sono parte della rivolta, dunque per fare argine al terrorismo ultra-fondamentalista musulmano occorre sostenere il regime.
Un mondo post-ideologico
Le cose, però, sono più complicate: dobbiamo abituarci a un mondo che non è più bipolare e a guerre dove i “nostri”, semplicemente, non ci sono. Nel mese di maggio 2014 ho partecipato come relatore a due importanti iniziative per i cristiani perseguitati: il convegno promosso a Montreal dalla Solidarietà Trinitaria Internazionale, il servizio di aiuto ai cristiani discriminati e sofferenti dell’Ordine dei Trinitari, e alla Marcia austriaca per la Chiesa perseguitata promossa da Christian Solidarity International Austria, che ha avuto le sue tappe principali a Graz, Salisburgo e Vienna, dove è stata conclusa dal cardinale Schònborn.
Relatori, insieme con me, sono stati a Montreal il professor Sami Aoun, cattolico libanese ordinario di Scienza politica applicata nell’Università di Sherbrooke, in Canada, e in Austria il padre Samir Khalil Samir, gesuita egiziano, professore all’Università di Beirut, tra i maggiori esperti mondiali di relazioni islamo-cristiane. Benché la responsabilità di quanto scrivo sia mia, tengo ampio conto dei loro interventi sul tema della Siria.
La visione politica del regime di Damasco viene da un pensatore politico siriano cristiano, Michel Aflak (1910-1989), che si è convertito all’islam negli ultimi mesi della vita. Alla fine, infatti, Aflak si è convinto che l’anima del socialismo arabo che proponeva poteva essere solo l’islam. Hafez al-Assad (1930-2000), il padre dell’attuale presidente, aveva il complesso di essere alauita – cioè parte di una minoranza considerata eretica dalla maggioranza degli altri musulmani -: ha sempre cercato di tenersi buoni i musulmani sunniti ed è stato lui a iniziare un processo di islamizzazione culturale della Siria. Questa miscela di islamizzazione e socialismo è fallita dovunque è stata tentata.
La primavera araba in Siria
La cosiddetta primavera araba in Siria – come quelle della Tunisia e dell’Egitto, mentre la questione della Libia è molto diversa – non nasce dunque originariamente da un complotto, ma da una vera crisi di legittimità del regime, quali che siano le forze che hanno cercato in seguito di manipolarla.
Bashar al-Assad, l’attuale presidente siriano, quando è arrivato al potere nel 2000, è diventato l’uomo politico più popolare nella storia della Siria. Era un medico, era giovane e incarnava le speranze di cambiamento. Quando la protesta è scoppiata, nel 2011, per alcuni mesi non ha reagito alle manifestazioni con la violenza, e molti pensavano che potesse governare lui la transizione e la riforma. Ma questa speranza è stata travolta dai falchi del suo regime, dai generali che hanno iniziato a fare dei morti nella repressione delle manifestazioni.
Bashar al-Assad non ha avuto la forza di condannare questi generali perché sono l’anello di collegamento con l’alleato iraniano, che per lui è decisivo. Ma a questo punto si è legato mani e piedi agli iraniani e ha iniziato a combattere una guerra per procura percento dell’Iran sciita, diventando rapidamente impopolare in un Paese dove l’85% dei musulmani è sunnita. Questo non significa che siano popolari i dirigenti dei ribelli.
Tra loro sul piano militare ci sono degli esponenti del peggiore estremismo, legati ad al-Qa’ida e al terrorismo internazionale. Sul piano politico vale la pena di ricordare tre personaggi emblematici. Il primo, cronologicamente, è Burhan Ghalioum: professore alla Sorbona, sociologo, richiamato all’inizio per guidare politicamente l’opposizione. I sociologi, quando fanno politica, di rado hanno successo.
Ha fallito anche lui.
Il secondo è l’imam Mouaz al Khatib, che era una grande speranza di dialogo: era un religioso sunnita, ma rappresentava anche la grande borghesia di Damasco, aveva la fiducia degli imprenditori e avrebbe potuto mediare tra il presidente, di cui era amico, e i ribelli, dove aveva legami familiari e religiosi. Ma Bashar lo ha bruciato rapidamente e anche lui è uscito di scena. Il terzo, il principale capo politico dell’opposizione oggi, è Ahmad Sharba, il quale viene da una tribù che ha anche una branca nella penisola arabica ed era in esilio in Arabia Saudita. Può anche presentarsi come “moderato”, ma tutti capiscono che anche lui fa una guerra per procura, per conto dell’Arabia Saudita.
Un conflitto anche internazionale
II riferimento ai sauditi ei aiuta a capire che in Siria la guerra non è solo civile, ma internazionale. Gli attori principali sul terreno siriano sono l’Arabia Saudita, la Turchia e l’Iran, mentre sullo sfondo si combatte una battaglia nella guerra per l’egemonia internazionale fra la Russia di Putin, che appoggia il regime, e gli Stati Uniti, che appoggiano i ribelli, mentre Israele rimane defilato.
L’Iran gioca una partita decisiva: se perde la Siria, perde il contatto e il controllo rispetto al mondo sciita medio-orientale, e alla fine traballa anche il regime a Teheran. Questa è la partita che interessa all’Arabia Saudita e alla Turchia, che non si amano necessariamente tra loro ma pensano di poter distruggere l’Iran, che è un loro nemico, partendo dalla Siria.
I siriani ci ricordano spesso che è una guerra dove le atrocità le commettono soprattutto gli stranieri: e hanno ragione. Non bisogna però dimenticare che gli stranieri ci sono dalle due parti. Per il regime di Assad combattono gli Hezbollah libanesi e gli iraniani, per la rivoluzione gli attivisti musulmani libici, egiziani, ceceni, algerini, pakistani e perfino americani ed europei. Di questi orrori pagano il prezzo soprattutto i cristiani.
Un prezzo di sangue – basti pensare all’assassinio del gesuita olandese Frans van der Lugt (1938-2014) e alle crocifissioni di cristiani dopo le quali Papa Francesco ha confessato di avere pianto – e anche un prezzo di disagio culturale e politico.
La dottrina sociale cristiana non permette loro di fare l’elogio di un dittatura poliziesca, repressiva, socialista come quella di Assad. Ma i cristiani non possono neppure fare l’elogio di ribelli che in gran parte sono fondamentalisti islamici e li perseguitano, contro i quali spesso non possono difendersi che alleandosi con l’esercito del regime.
L’unica soluzione – per quanto remota – sembra un tavolo di riconciliazione nazionale che in Siria dovrebbe coinvolgere tutte le componenti religiose intorno a una nozione condivisa di bene comune fondata sulla ragione. Ricordare questo è stato negli ultimi anni, con gli appelli di Benedetto XVI e di Papa Francesco, il ruolo più significativo della Santa Sede.
Per saperne di più…
Massimo Introvigne, Islam. Che sta succedendo? Le rivolte arabe, la morte di Osama bin Laden, l’esodo degli immigrati, Sugarco, 2011.