di Gino Ragazzina
INTRODUZIONE E CAP. I
Chi non abbia un’adeguata conoscenza della storia della Chiesa non potrà mai cogliere la novità e l’importanza di quel pur breve documento del Concilio Vaticano II che è Nostra Aetate ovvero la “Dichiarazione sulle relazioni della Chiesa con le religioni non cristiane”. E chi non abbia un’adeguata conoscenza delle religioni non-cristiane non potrà apprezzare la sapienza con la quale in quel documento sono individuati e definiti gli elementi che la Chiesa valuta “positivi” nelle religioni, in quanto non lontani dalla verità di cui essa è depositaria e custode.
Qui non è nostro intento fare una rassegna dei “semi di verità” che la Chiesa nota ed apprezza nelle religioni non cristiane. Ci proponiamo soltanto di esaminare della Dichiarazione il capitolo 3 che, com’è noto, è dedicato alla religione islamica, e specificamente il passo in cui la Chiesa dichiara di guardare con stima i musulmani, oltre che per la loro fede in Dio Uno e Unico e per la venerazione che nutrono per Gesù in quanto “profeta”, anche perché essi “onorano la sua Madre Vergine, Maria, e talvolta la invocano con devozione”.
L’esame delle due proposizioni che riguardano la Vergine Maria sarà condotto leggendo il Corano, il Libro sacro dell’Islàm, confrontandolo di tanto in tanto con la parola dei Vangeli. Ciò non allo scopo di fare apologetica cristiana, ma semplicemente per meglio capire ciò che il Corano dice della Madre di Gesù e ciò che vi leggono i dottori musulmani.
Se dal confronto risulteranno differenze, anche profonde e sostanziali, non ce ne meraviglieremo. Sappiamo infatti che elementi ed anche personaggi apparentemente identici, se si ritrovano in contesti religiosi diversi, non sono identici affatto, né potrebbero esserlo, giacché diverso è il paideuma (1) che organizza ed anima ciascuna religione. Lo stesso concetto di Dio Uno e Unico, che accomuna le tre religioni monoteistiche (Ebraismo, Cristianesimo, Islamismo), assume in ciascuna di queste religioni caratteri propri.
Allora, tornando alla persona di Maria, la Madre di Gesù, non ci meraviglieremo se, tra quanto dice il Corano e quanto dicono i vangeli della Vergine Maria, risulteranno differenze, anche profonde e sostanziali.
Nel corso di questa trattazione vedremo che Maria, la Madre di Gesù, si pone tra le figure più grandi e più importanti del Corano, ma noteremo anche che quella figura è ben diversa e lontana dalla “piena di grazia” dell’angelica salutazione (Le 1,28) e dal “termine fisso d’eterno consiglio” (Dante, Par. 33,3) della cristiana storia della salvezza. Ma di ciò non faremo censura al libro sacro dell’Islàm né faremo colpa ai musulmani che ad esso giustamente si adeguano.
La visione islamica di Maria è del tutto coerente con la concezione di Dio e dell’uomo che il Corano proclama e insegna. Sicché, per capire chi sia effettivamente la “Madre Vergine Maria” che i musulmani “onorano” e “talvolta pure […] invocano con devozione”, ne cercheremo i tratti nel quadro generale della teodicea e dell’antropologia coranica.
Ciò faremo con l’intento di favorire da parte cristiana la lettura obiettiva del testo coranico, cioè una lettura che si riguardi sia dalla polemica, tutta intenta a ricercare ed evidenziare gli “errori” del Corano, sia dall’apologetica, irenisticamente tesa a dimostrare che il testo sacro dell’Islàm conterrebbe più “verità” di quanto comunemente si pensi e di quanto gli stessi dottori musulmani abbiano mai riconosciuto.
E, nel caso specifico della Madre di Gesù, a sostenere che tra la mariologia coranica e quella evangelica non vi sia differenza sostanziale, non trovandosi attributo o dogma mariano che non abbia un qualche riscontro nel Corano, se si esclude quello della maternità divina. Come se, una volta che dai titoli mariani venisse tolta la maternità divina, gli altri potessero conservare fondamento, consistenza e valore.
I – CARDINI DELLA DOTTRINA ISLAMICA
1. Il libro sacro
È noto che il libro sacro dell’Islàm è il Corano. Il nome è traduzione dell’arabo al-quràn, che significa “la recitazione”, il “dettato” o, meglio, la “recitazione del testo dettato”. Secondo i musulmani, il Libro è infatti la raccolta completa e testuale delle parole che l’arcangelo Gabriele dettò a Maometto e che questi, avendole scrupolosamente memorizzate, a sua volta recitò ai suoi compagni (si noti “compagni”, non discepoli). I compagni del Profeta a loro volta le recitarono ai loro compagni. Infine alcuni di questi, per non commettere errori, si premurarono di fissare per iscritto, senza un ordine prestabilito, i testi a mano a mano che essi venivano a loro dettati.
Per il musulmano il Corano è, dunque, “parola testuale di Dio”: nel sacro Libro non v’è neppure una sillaba che venga dalla inventiva del Profeta. Obbedendo al comando dell’arcangelo, Maometto recitò ciò che gli veniva dettato, parola per parola, con tanta scrupolosa fedeltà da comprendervi anche il comando iniziale: “Recita!”, “Dici!”, “Ricorda!”.
2. Come il musulmano legge il Corano
Essendo parola di Dio in senso strettamente letterale, il Corano non lascia spazio ad esami filologici che, per esempio, vi distinguano “generi letterari”, “contesti storico-culturali” o altro. Il Corano non è testo “ispirato”. E’ parola dettata. E dunque, da parte del credente, il Libro va accolto così com’è. E significa letteralmente ciò che dice. L’Islàm non conosce nulla che sia simile a ciò che i cristiani chiamano teologia. Il sacro testo ammette solo esegesi, commento e, se è necessario, difesa. E questa apologia difensiva (kaldm) interviene solo quando una qualche proposizione coranica venga messa in discussione in seno alla Comunità del Profeta (Ummà). Altrimenti anch’essa tace.
Così si spiega perché nel complesso della letteratura religiosa islamica non vi sia neanche un trattato in dimostrazione dell’esistenza di Dio. Non v’è, semplicemente perché questa fondamentale verità di fede non è stata mai, nel mondo islamico, messa in discussione.
Ordunque, i dottori del kalàm, i mutakallimun, non sono teologi. In prospettiva musulmana, una teologia, tale quale è intesa dalla cultura cristiana, appare un’assurdità, giacché presume di poter razionalizzare il mistero. Per i mutakallimun l’‘intellectus fidei dei cristiani è una pretesa che confina con la blasfemia. Appellandosi al dettato coranico, essi rilevano che Iddio attraverso i profeti, che si sono susseguiti nel tempo, e ultimamente attraverso l’arcangelo Gabriele e Maometto, ha comunicato agli uomini “ciò che Egli vuole”; ma di Se stesso non ha rivelato nulla. Egli resta dunque l’Inaccessibile, in ogni senso, benché abbia parlato agli uomini per mezzo dei profeti.
In verità, nella storia dell’Islàm non sono mancati tentativi di sottoporre Dio e la sua parola ad esame razionalistico. Ma i razionalisti sono stati bollati come mutaziliti, ovvero “coloro che si allontanano dalla retta via” e, come tali, emarginati dalla Comunità.
In definitiva, il musulmano che incontri difficoltà nel recepire la parola del Corano, si affida ai cultori del kalàm e ai dottori della legge.
3. Struttura del Corano
Poche altre letture possono risultare altrettanto faticose e ingrate quanto quella del Corano al non musulmano che lo sfogli in una delle sue tante traduzioni per semplice curiosità. I pregi letterari del Libro, spesso assai alti, gli sfuggono, perché i traduttori, più che cercare di rendere questi, si sono preoccupati di rendere del sacro testo il senso letterale. Lo sconcerto è poi completo se il lettore occidentale pensa di poter trovare nel Corano qualcosa che si assomigli alla ordinata esposizione della Bibbia, la quale, com’è noto, si inizia con un “in principio” e si conclude con un “amen”.
Il Corano non ha un ordine logico, né si attiene alla successione cronologica delle “recitazioni” angeliche, né si raggruppa in nuclei che abbiano omogeneità di contenuto: in uno stesso capitolo (sura) si possono susseguire e intersecare brani narrativi, squarci lirici, invettive, precetti legislativi, norme morali, ecc.
Chi voglia sapere il perché di tale struttura deve conoscere la storia primigenia del libro sacro dell’Islàm, tenendo presente che, secondo la tradizione musulmana, le stesse “recitazioni” dell’arcangelo Gabriele, intermittenti e libere, si collocano al di sopra della logica umana e, come spiegano i dottori del kalàm, rispondevano ad una provvidenziale logica divina che resterà incomprensibile e misteriosa per sempre alla creatura umana. Il Profeta ripetè ai suoi compagni alla lettera le “recitazioni”, a mano a mano che gli venivano date. E i compagni assai presto provvidero a fissarle per iscritto e a raccoglierle in capitoli distinti ciascuno da un titolo: “La vacca”, “La famiglia di Imràn”, “Le donne”, “La mensa”, ecc.
Questo insieme di capitoli non ebbe alcun ordine definito fino a 25 anni dopo la morte del Profeta, cioè fino al 637, allorché il califfo Othman provvide ad una prima collazione e recensione dei manoscritti, avvalendosi di una commissione istituita a questo scopo specifico. La commissione interrogò innanzi tutto i “compagni” del Profeta, perché, al momento, la trasmissione orale del testo aveva per i “credenti” il primato sulla tradizione scritta.
Una volta raccolto il materiale e fissati i capitoli, si presentò il problema di dare loro un ordine di successione. Problema non facile, perché, come sappiamo, i singoli capitoli solo raramente hanno una loro interna organicità. Infine si decise che, escluso il primo capitolo intitolato “L’aprente il Libro” (2) tutti gli altri fossero disposti in ordine di lunghezza decrescente, a partire dal secondo, “La vacca”, che si compone di 206 versetti corposi e lunghi, a finire con l’ultimo, il CXIV, intitolato “Gli uomini”, che ne comprende solo 5, brevissimi, nervosi, scattanti (3).
Questo criterio può sembrare strano al lettore occidentale. Non era invece né nuovo né strano per la cultura araba del tempo (4). Un’ultima incertezza restò, e permane tuttora, nella divisione in versetti (dyàt, sing. àya) e la loro numerazione. Ancor oggi questa varia nell’insieme delle lezioni adottate dalle scuole coraniche più autorevoli.
4. Il concetto di Dio
II santo nome di Dio (in arabo Allah) ricorre assai spesso nel Corano ed è accompagnato costantemente da aggettivi, quali “misericordioso”, “compassionevole”, “onnipotente”, ecc. Sì che i musulmani hanno potuto raccogliere dal Libro 99 “nomi di Dio” e farne una preghiera litanica da recitarsi con il sussidio di una “corona” di 33 grani. Ma il Corano, pur rendendo continuamente lode a Dio (5), non dice nulla della sua essenza.
Lo proclama l’Essere-Persona che è origine e spiegazione ultima di tutte le cose: «Dici: Egli, Iddio, è Uno. Iddio l’eterno, che non ha generato né è stato generato e non ha l’uguale» (112,1-4); «Egli è il Primo e l’Ultimo» (57,3). Ne proclama la unicità e la signoria assoluta. Nulla più (6)
I dottori del kalàm spiegano che Dio comunica all’uomo “ciò che vuole”, ovvero comunica all’uomo, ma non Si comunica mai. Così, nella dottrina islamica, Dio risulta in assoluto l’Inaccessibile, l’Impenetrabile (samad) (7). E tale resterà in eterno. Neanche quando, alla fine dei tempi, risorgerà e andrà a popolare il Paradiso, il musulmano potrà godere della visione beatifica di Dio.
II Corano (17,1; 53,6-17) proclama che Maometto compì un “viaggio notturno” da La Mecca a Gerusalemme e dalla sommità del Tempio ascese fino al Trono di Dio; ma infine dovette fermarsi “a due tiri d’arco” dal Trono (53,9). Il Profeta nella sua “ascensione” fu chiamato a vedere e a vivere la realtà del messaggio che gli veniva affidato, ma non potè vedere Colui donde il messaggio veniva.
Secondo la dottrina islamica, un abisso separa il Creatore dall’umana creatura. Questo abisso potrebbe essere colmato dall’iniziativa di Dio. Ma, di fatto, questa iniziativa Dio non l’ha presa mai.
Tra Dio e l’uomo non vi sono ponti, non vi sono mediatori. Al musulmano il concetto di mediazione e quello di redenzione risultano incomprensibili. Il musulmano non vede possibile un sacerdozio (8). Neppure Maometto ebbe dignità e funzione sacerdotale.
Nella sua vita religiosa il musulmano è, dunque, e si sente solo, nella sua nudità creaturale, dinanzi all’inaccessibile e pur incombente maestà di Dio. L’uomo è un nulla che si rapporta con l’immensa maestà di Colui che è Tutto.
E che cosa può offrire un nulla al Tutto? Nulla. E dunque l’Islàm, oltre che non avere sacerdozio, non ha neanche offerta sacrificale. La sua liturgia si esaurisce nella professione di fede (shahàdd) e nella preghiera obbligatoria (as-salàh) (9)
5. La creazione del mondo
Sarebbe fatica vana cercare nel Corano il racconto della creazione. Nel Libro non v’è nulla che somigli ai biblici racconti del Genesi (1,1-31; 2,4-25). In più luoghi la realtà della creazione vi è, non narrata, ma semplicemente affermata con proposizioni secche e perentorie come le seguenti: «È Iddio che ha collocato in alto i cieli senza colonne che si possano vedere […]. È Lui che ha steso la terra e vi ha posto montagne e fiumi, e di ogni frutto vi ha posto una copia» (13,2-3); «Ho creato i cammelli, da cui ricevete calore, altri vantaggi e alimento» (16,3); «Egli ha creato i cavalli e i muli e gli asini perché li cavalchiate e ne facciate sfoggio» (16,8); «È Lui che ha fatto scendere dal cielo l’acqua, e donde avete bevanda e piante per il pascolo del vostro bestiame. Mediante essa Egli fa crescere i cereali, le ulive, l’uva e ogni sorta di prodotto» (16,10-11).
Tali proposizioni sostanzialmente tendono a ricordare che, essendone il Creatore, Iddio è signore e padrone di tutte le cose: «A Iddio appartiene ciò che sta nei cicli e sulla terra» (4,131); «Egli si è assiso in trono, donde dirige le cose e dichiara i suoi segni» (13,2).
A questo punto osserviamo che i “segni” sono altro tema insistente del Corano. Tema collegato direttamente a quello della creazione. Infatti gli elementi del creato sono altrettanti “segni” dell’onnipotenza e della provvidenza del Creatore.
Tali “segni” il Libro più volte li elenca in lode di Dio. Spesso con accenti di autentica poesia religiosa. Per esempio la Sùra LV, intitolata “II Clemente”, elenca i doni del Signore, intercalandoli con l’interrogativo rivolto agli uomini e ai ginn (10): «Qual dunque negherete dei doni del Signore?».
Coloro che sì rifiutano di vedere i segni evidenti di Dio Clemente, Sapiente, Provvidente, non hanno giustificazione alla loro miscredenza e dunque sono rei di morte. E alla fine dei tempi, quando verrà l’Ora del giudizio, saranno scaraventati nel fuoco dell’inferno (11).
Al credente Dio si fa presente oltre che attraverso i “segni” del creato, anche, misteriosamente, nell’interiorità: pur nella sua trascendenza Egli gli è più vicino di quanto non gli sia la vena giugular2 (12). Allàh è signore inaccessibile, ma non assente.
6. La creazione dell’uomo
Liberamente, così come ha creato il mondo, ad un certo momento Iddio decide di creare l’uomo.
Ma la nascita della nuova creatura è evocata dal Corano con note pessi-mistiche. Infatti il Libro (2,30) proclama che, prima di dargli vita, Dio confidò agli angeli (13) la sua volontà di creare l’uomo, per affidargli il compito di “vicario” (khalìfd) nell’amministrazione del creato: «Ricorda quando il tuo Signore disse agli Angeli: “Io porrò sulla terra un vicario”». Ma gli angeli si dimostrarono stupiti della decisione di Dio di dar vita ad una creatura che avrebbe portato guasti al creato e avrebbe sparso sulla terra sangue fraterno: «Porrai su di essa — risposero — chi farà guasto e spargerà sangue […]?».
Dio non smentisce l’infausta previsione degli angeli. Taglia corto, dicendo: «Io so ciò che voi non sapete». Così il motivo ultimo della creazione dell’uomo resta un mistero, così come è un mistero la creazione del mondo (14). E, di fatto, Egli da vita ad un essere “naturalmente inclinato al male” (nafs ammara bissu) (15).
Prima dì passare a vedere come il Corano dichiari – senza tuttavia narrarla – la creazione dell’uomo dobbiamo notare una cosa: quando ha fatto nascere il cielo e la terra, i mari e i monti, le piante e gli animali, Egli ha espresso la sua volontà con un secco comando. E nel Corano rammenta: «Quando vogliamo una cosa, noi diciamo ad essa “sii!” (kun) ed essa è» (16,42). Invece, nel creare l’uomo, Dio non si limita ad un comando, ma s’impegna personalmente nell’opera con cura speciale. Plasma con argilla della terra il corpo dell’uomo e gli dà vita, insufflandovi un alito del suo respiro: «Egli è […] il Possente, il Clemente; che ha fatto bene la creazione di ogni cosa e che ha iniziato la creazione dell’uomo dall’argilla, poi ha costituito la discendenza di esso dalla quintessenza di un’acqua spregevole, poi lo ha plasmato e soffiato in esso del suo Spirito, e ha dato a voi l’udito, gli occhi e i cuori» (32,6-9).
L’uomo, l’essere che Allàh ha destinato al compito di suo khalìfa sulla terra, nasce, così, composto di due elementi: l’uno tratto dalla terra, naturalmente ignobile, qual è l’argilla; l’altro nobilissimo e immortale, qual è l’anima che il Creatore gli insuffla, traendola dal proprio Spirito. In più, Iddio dota l’uomo di udito, di occhi, di cuore, ovvero delle facoltà sensitive, intellettive e affettive. Il Corano cioè rinnova e conferma quanto, riguardo alla natura dell’uomo, per la prima volta nella storia del pensiero umano, è proclamato dalla Bibbia, cioè che ciascun uomo è persona (16). Il Corano non lo specifica; ma al-Ghazàlì, uno dei massimi maestri del pensiero islamico, attribuisce al Profeta questo detto: «Dio creò Adamo a Sua immagine», e avverte che questa proposizione è da intendersi solo spiritualmente, non materialmente (17).
7. Il muthàq, il patto primordiale
Dotato d’intelligenza e di cuore, l’uomo è naturalmente capace di cogliere nel creato i “segni” di Dio, Uno, Unico, Creatore e Signore di tutte le cose; ma come gli angeli hanno preannunziato, è anche naturalmente inclinato all’errore e al male. In particolare, è esposto all’errore di attribuire valore assoluto alle creature e quindi di porle al posto del Creatore, cadendo così nell’idolatria.
Nella sua onniscienza, Iddio lo sa. E, poiché è misericordioso, premunisce l’uomo dall’idolatria, chiamandolo a contrarre un patto (mìthàq), in virtù del quale la stirpe di Adamo viene predisposta a riconoscere e testimoniare Dio Uno e Unico.
Il patto primordiale è proclamato dal Corano con queste parole: «E ricorda quando Iddio trasse dalle spine dorsali dei figli d’Adamo i loro discendenti e li fece attestare nei riguardi di se stessi: “Non sono il vostro Signore?”. “Sì, lo attestiamo”, risposero. Questo perché non possiate dire il giorno della Risurrezione: “Noi non ne sapevamo nulla”. O perché non diciate: “I nostri Padri davano degli associati a Dio. Noi siamo i loro discendenti. Ci vuoi far perire perché hanno falsato la verità?”. Così dichiariamo i nostri segni» (7,171-173).
In altre parole, il Libro proclama che l’Onnipotente, dopo aver creato l’uomo, chiamò ad una prima transitoria esistenza tutti i discendenti di Adamo e fece loro assumere l’impegno solenne di riconoscerlo come unico Signore, affinchè nell’Ora del giudizio universale non cercassero discolpa della loro miscredenza nell’ignoranza o nel cattivo esempio dei loro padri.
Per effetto del mìthàq, il patto primordiale, ciascun uomo di ogni tempo e luogo nasce portando impressa dentro di sé la fìtra, ovvero la predisposizione naturale a riconoscere in Dio il Signore unico e tutte le cose e, di conseguenza, l’obbligo di adorarlo e di testimoniarlo. E dunque l’uomo nasce naturalmente muslim, “credente”, nasce naturalmente musulmano.
Allo storico occidentale che colloca la nascita della religione islamica nell’anno 622, al tempo dell’emigrazione (ègira) di Maometto da La Mecca a Medina, il musulmano colto obietta che in quell’anno nacque la umma, la “comunità” del Profeta, non l’Islàm, che è la religione eterna e universale.
8. II primo peccato dell’uomo
Ricercando nel Corano, qua e là, i passi che si riferiscono alla creazione dell’uomo, ci imbattiamo in un versetto che dice: «Ricorda pure quando dicemmo agli Angeli: “Prostratevi davanti ad Adamo”. Tutti si prostrarono, fuorché Iblìs, che superbamente rifiutò, fu così un infedele» (2,34).
Il versetto pone non facili problemi agli esegeti. Infatti non si riesce a capire come mai il Signore di tutte le cose, al quale solo è dovuta l’adorazione, abbia comandato a delle creature, quali sono gli angeli, di prostrarsi davanti ad un’altra creatura, qual è l’uomo.
Non ci dovrebbero invece essere dubbi sul motivo della disubbidienza di Iblìs, giacché è detto che l’angelo ribelle “superbamente rifiutò”: sapendosi fatto di “luce” (tale è la consistenza degli angeli secondo la dottrina islamica) non volle prostrarsi davanti ad un essere fatto di vile argilla.
A motivo della sua infedeltà, Iblìs (dal greco diàbolos) fu scacciato dal paradiso e condannato all’inferno. Avrebbe dovuto precipitarvi subito e invece chiese e, misteriosamente (18), ottenne una dilazione fino al Giorno del giudizio universale. Nel frattempo egli diventa il Satana (Shaytan), il maligno tentatore dell’uomo, che egli assillerà «per dinanzi e per di dietro, da destra e da sinistra» (7,16). E così la stirpe di Adamo, già naturalmente incline al peccato, vi viene spinto anche dagli attacchi incessanti di Satana.
L’opera nefasta di Iblìs sortisce subito il suo maligno effetto. Infatti il Corano ricorda: «[Iddio disse:] “E tu, Adamo, abita con tua moglie il Giardino, e mangiatevi quello che volete. Solo non vi avvicinate a quest’albero: commettereste un’iniquità”. Ma Satana li tentò per svelare loro la loro nudità (19), che ignoravano, e disse loro: “Sapete perché Iddio vi vuole tener lontani da quest’albero? Perché non diventiate angeli o immortali. Ve lo dico – concluse giurando – perché vi voglio bene”.
Con questo inganno li fece decadere dal loro grado. Gustato l’albero, scoprirono la propria nudità, e si diedero ad applicarvi sopra il fogliame del Giardino. Allora Dio gridò loro: “Non vi avevo vietato codest’albero, e non vi avevo detto che Satana è vostro nemico dichiarato?”. “Signor nostro – dissero – abbiamo fatto torto a noi stessi, e se non ci perdoni e usi misericordia, siamo rovinati”. “Scendete – disse Dio. – Sarete nemici gli uni agli altri, e troverete sulla terra un luogo di soggiorno e di godimento temporaneo”. “In essa – soggiunse – vivrete e in essa morrete e da essa sarete fatti uscire” (20)» (7,18-24).
Il Corano ricorda così il “primo” peccato di Adamo e di sua moglie, che tuttavia non corrisponde né nella sostanza né negli effetti al “peccato originale” che il Cristianesimo legge nel libro della Genesi: l’Adamo biblico, originariamente pulito, è libero di scegliere tra l’obbedienza e la disobbedienza al comando di Dio, e la sua scelta vale per tutto il genere umano; l’Adamo coranico invece è naturalmente incline al peccato, e pecca, così come hanno previsto gli angeli prima che egli fosse creato.
Nel Corano il peccato di Adamo e di sua moglie è peccato “individuale”, così come individuali saranno i peccati degli uomini che da essi discenderanno. Secondo la dottrina coranica, non v’è peccato individuale che possa ricadere su altri (21). E, all’inverso, nessuno può volontariamente caricarsi dei peccati altrui per espiarli. Di conseguenza il pensiero islamico esula del tutto dai concetti cristiani di peccato originale e di redenzione.
9. La misericordia di Allah
Dalla lettura del Corano si deduce che il peccato di Adamo non causa un decadimento, né di Adamo né del genere umano, da uno stato iniziale di grazia a uno di disgrazia in rapporto con Allah.
Di fatto, il Libro, dopo aver evocato il peccato di Adamo, proclama: «Poi Adamo ricevette delle parole (22) da Dio, che gli perdonò, perché Egli è il Perdonatore, il Misericordioso» (2,37). Non essendo però accomodante bonomia, la misericordia divina esige un minimo di rimprovero e di condanna. E dunque, come abbiamo letto, Adamo e sua moglie vengono scacciati dal Giardino e mandati sulla terra a vivervi una esistenza di “godimento temporaneo” con la consapevolezza della loro “nudità”, cioè della loro miseria creaturale.
Scacciato dal Giardino, privato dell’ascolto immediato della parola di Dio, attirato e frastornato dall’effìmera bellezza delle cose create, incline naturalmente all’errore e al male, esposto agli assillanti assalti di Satana, sulla terra l’uomo, da solo, è incapace di “seguire il retto sentiero” (23), il sentiero del muslim, che crede nell’unico Signore e Lo adora (24).
Tutto questo il Misericordioso lo sa. E, nell’atto stesso di scacciare Adamo e sua moglie dal Giardino, li conforta, promettendo loro la sua guida e la sua esistenza: «Riceverete da me la buona direzione, e chi seguirà la mia buona direzione non avrà timore né sarà contristato» (2,38).
Praticamente indispensabile all’uomo, tale soccorso è comunque un dono libero e gratuito da parte di Dio. Egli lo dispenserà nel corso dei secoli con l’invio di “apostoli” e di “profeti”. Gli uni e gli altri non aggiungeranno nulla alla fitra, la fede innata, impressa fin dall’inizio nell’animo dell’uomo dal Creatore; ma avranno il compito di trasmettere norme e comandamenti indispensabili all’uomo per l’acquisto della salvezza eterna.
Non v’è un’economia progressiva nell’intervento di Dio nella vicenda terrena dell’uomo. Nel loro susseguirsi, apostoli e profeti (25) hanno un’unica identica missione, quella di riconfermare e rinnovare l’Islàm, la religione universale ed eterna (26). Essi non sono che “ammonitori”. E i loro interventi sono illuminazioni discontinue che bucano il buio della notte a richiamo instancabile del patto primordiale contratto da Adamo con Dio (27) Non v’è progresso nella rivelazione trasmessa; tuttavia vi sono delucidazioni e precisazioni, che si completano e si concludono con la missione di Maometto. Questi “sigilla” per sempre la serie dei profeti e fìssa la Comunità (Umma) dei fedeli, nell’attesa dell’Ora del giudizio finale.
10. La serie dei profeti
L’Islàm ignora una legge morale naturale inscritta nel cuore dell’uomo; ma intanto concepisce la religione come un insieme di legami giuridici (28). Ne deriva che ciascun popolo, ciascuna comunità umana ha bisogno di un rasùl che le porti da parte di Dio un codice da seguire. Il Corano proclama: «Mandammo a ogni nazione un Inviato» (16,36). In teoria ne consegue che il numero degli Inviati deve essere assai alto, così come lo è il numero delle “nazioni”. E assai alto dovrebbe essere il numero dei “messaggi” inviati da Dio al genere umano. Concretamente, però, il Corano ne nomina soltanto tre, che in ordine cronologico sono il Pentateuco, il Vangelo (al singolare) e lo stesso Corano.
Il Vangelo presuppone il Pentateuco; il Corano presuppone il Pentateuco e il Vangelo. Il riferimento del Corano alle “scritture” e ai “libri” che lo hanno preceduto dà conto e spiega il suo linguaggio evocativo e allusivo. Poche volte il Corano espone e racconta. Generalmente “ricorda” e presuppone che chi lo ascolta conosca il Pentateuco e il Vangelo. E degli innumerevoli profeti che, in linea di principio, Iddio ha mandato agli uomini soltanto 25 sono specificamente citati. Il perché della selezione è spiegato là dove il Libro dice: «A tali inviati noi abbiamo dato rispettiva preminenza. Fra essi vi è a chi Dio parlò e che Dio sollevò di alcuni gradi» (2,253). Si può dunque dire che il Corano nomina soltanto i profeti ai quali Dio ha dato preminenza.
In ordine di successione cronologica i profeti nominati sono: Adamo, Idrìs, Noè, Hud, Sàlih, Abramo, Loth, Shu’ayb, Ismaele, Isacco, Giacobbe, Giuseppe, Giobbe, Mosè, Aronne, Davide, Salomone, Elia, Eliseo, Giona, Dhù I-Kifl, Zaccaria, Giovanni, Gesù e, infine, Maometto. In gran parte, i personaggi sono biblici. E tutti maschi. La donna è esclusa dalla missione profetica. Forse a motivo della sua inferiorità rispetto all’uomo (29).
Facendo una ulteriore selezione dei profeti citati nel Corano, i dottori del kalàm segnalano gli “Inviati dotati di costanza”, cioè quelli che hanno dato prova speciale di pazienza e di sopportazione nelle difficoltà. In ordine decrescente di merito, essi sono: Maometto, Abramo “l’amico di Dio”, Mosè ” l’interlocutore di Dio”, Gesù “il figlio di Maria”, Noè (30)
Alla missione di Gesù, rasùl e nabì, è legata nel Corano la figura di Maria.