Non è tutto oro quel che luccica nella società sempre connessa. Il lavoro non è solo produzione, ma incontro con l’altro. E lo smart working per essere davvero smart ha bisogno di un ripensamento che consideri anche gli effetti collaterali
Luca Pesenti
Smart working. Prima di marzo 2020 era un concetto lontano, ignoto ai più. Se mettiamo questo termine su Google Trends ci si accorge dell’anomalia. Fino al 22 febbraio la linea piatta sul principale motore di ricerca è la spia di un’assenza totale nello spettro dei temi discussi e analizzati.
Nella settimana tra l’8 e il 14 marzo, invece, si arriva all’apice della popolarità: in milioni hanno “googleato” queste due parole. Per capire, farsi un’idea. L’archivio delle nostre memorie digitali non mente. Quelli che ne facevano esperienza diretta (le stime sono dell’Osservatorio sullo Smart Working del Politecnico di Milano) erano in effetti non più di 570 mila lavoratori.
Poi è arrivata la pandemia, con quell’inedita “esperienza domiciliare” che ha portato a casa nostra non soltanto inconsueti quantitativi di pacchi e cibo pronto all’uso, ma anche (per la prima volta nel corso della modernità) la scuola e per l’appunto il lavoro. Giusto il tempo di adattarsi alla nuova condizione di cattività e sono rapidamente cominciate le retoriche di accompagnamento, per provare a rendere più digeribile un’esperienza (dis)umana che di settimana in settimana si faceva sempre più difficile.
È così che, inaspettatamente, ci siamo trovati a vivere lo smart working a nostra insaputa. Mentre leggevamo sul web che il lavoro smart è quello che si può fare dove-come-quando si vuole, con importanti guadagni in termini di minori costi e maggior tempo da dedicare a sé e alla famiglia, nelle nostre case i conti iniziavano a non tornare.
I conti che non tornano
Tutti coloro i quali hanno utilizzato il termine smart working (o anche il meno opportunistico “lavoro agile”) dall’inizio di marzo in poi, lo hanno fatto potendo certamente immaginare che quello che stava in realtà andando in scena nelle case di 6 milioni di lavoratori non era il trionfo di una nuova civiltà del lavoro, bensì un’esperienza che per le sue caratteristiche mal si prestava ad essere descritta sia come smart, sia (e, tantomeno) come agile.
Quello che dall’inizio della pandemia si è materializzato nelle nostre vite è invece meglio definibile come “lavoro domiciliare forzato”, il cui obiettivo non è l’aumento del benessere dei lavoratori e delle lavoratrici, né l’aumento della loro produttività, bensì quello di evitare la diffusione del contagio da Covid-19, permettendo al contempo il proseguimento da remoto di tutte le attività di lavoro possibili.
Retorica tossica
Il richiamo alla memoria di questo obiettivo primario avrebbe immediatamente dovuto consentire (ma spesso, e purtroppo, così non è stato) di fare degli utili distinguo, indispensabili oggi per riprendere il cammino cercando di imparare comunque qualcosa dall’esperienza che abbiamo in molti, obtorto collo, dovuto affrontare. Solo attraverso questa strada, più meditata e prudente, sarà possibile evitare di buttar via il bambino (ovvero il “lavoro agile” nella sua reale essenza di riformulazione dell’organizzazione del lavoro) insieme all’acqua sporca (ovvero la retorica tossica dello smart working).
L’osservazione di quanto realmente accaduto, liberata dalle narrazioni e dalle retoriche, ci restituisce un quadro decisamente complesso. Come anche un’ampia ricerca psico-sociale avviata nel mese di aprile 2020 dal Centro di ateneo studi e ricerche sulla famiglia dall’Università Cattolica (e tutt’ora in corso) sta mostrando, il lavoro da casa, nelle condizioni in cui s’è svolto, non è stato affatto smart (o almeno, non lo è stato per tutti).
Raccogliendo nel tempo il punto di vista di un ampio campione di lavoratori e lavoratrici, ci si rende conto che di mese in mese sta diminuendo la soddisfazione per questa modalità di lavoro forzato, sta peggiorando il giudizio sulla possibilità di gestire meglio gli impegni della propria vita e sull’organizzazione del tempo dedicato al lavoro, aumenta la fatica legata alla necessità di restare inchiodati per lunghe ore di fronte al pc e soprattutto sta crescendo una sensazione nettissima: l’ufficio, i colleghi, le relazioni ci mancano sempre di più. Tradotto in modo semplice: lo stress sta aumentando e attendiamo il new normal come una liberazione.
La grande parola: l’Altro
Vivere in prima persona questa esperienza ce ne ha dunque fatto scoprire un “lato oscuro” che occorre mettere a fuoco in fretta. Al di sopra di tutto avvertiamo l’evidenza di un impatto più generale e pervasivo della pandemia che si è abbattuto sulle relazioni. Abbiamo capito di più che il lavoro non è solo produzione, ma innanzitutto relazione sociale: per questo la sua eccessiva remotizzazione (o addirittura la sua domiciliarizzazione) rischia di toglierci un pezzo rilevante del suo significato L’edificazione della “società comoda” e “onlife” (secondo la visionaria definizione di Luciano Floridi) che questa pandemia ha accelerato può rappresentare un guadagno, ma al suo interno nasconde un inganno.
Da un lato, ci può restituire più tempo di vita, forse. Ma, dall’altro, riducendo l’umano alla logica produttivista, ci può togliere tempo da dedicare alle relazioni e spazi di libertà, di confronto con l’altro. Ecco la grande parola: l’Altro. L’Altro da me è sempre “scomodo”, ma è anche un fattore positivo – e non solo negativo, un impiccio – perché la mia libertà possa realmente crescere. Verrebbe quasi da dire che è un passaggio obbligato perché la mia libertà possa esprimersi. Con uno slogan potremmo ricordare che bisogna scomodarsi per prendersi cura di sé, dell’altro e del mondo.
Da qui occorre mettersi in cammino anche per ripensare il lavoro che verrà. Tolte di mezzo le retoriche e le narrazioni incantate sul “futuro senza ufficio” (cui sembrano non credere più nemmeno i big come Cisco, Microsoft e la stessa Google, che hanno in tempi recenti avviato un rientro progressivo in ufficio dei loro dipendenti), certamente abbiamo capito che qualcosa di nuovo è possibile immaginarlo. Possiamo provare a ricercare un nuovo equilibrio tra tempi di vita, ma per farlo dovremo recuperare un’interpretazione autentica dello smart working.
Una cosa è certa: non serviranno nuove leggi. La norma c’è già, si è affacciata nel nostro paese grazie al Jobs Act del 2015 ed è stata codificata con la legge n. 81 del maggio 2017. Bisogna allora ripartire da quel testo per capire di che cosa stiamo esattamente parlando.
Quattro requisiti fondamentali
Con smart working possiamo sinteticamente definire una specifica modalità di svolgimento della prestazione lavorativa, in cui viene regolata la possibilità di lavorare (come si diceva all’inizio) dove, quando, come si vuole. Contiene dunque da un lato il riconoscimento da parte dell’azienda di una scelta libera dei lavoratori, dall’altro la necessità di una rivoluzione organizzativa e soprattutto di una nuova filosofia manageriale fondata sulla restituzione alle persone di flessibilità e autonomia nella scelta degli spazi, degli orari e degli strumenti da utilizzare, a fronte di una maggiore responsabilizzazione sui risultati, come insegna l’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano.
Per potersi dire davvero smart, il lavoro dovrà allora possedere quattro requisiti fondamentali: una specifica cultura organizzativa, l’esplicita introduzione di politiche aziendali orientate alla flessibilizzazione degli orari e dei luoghi di lavoro, adeguate dotazioni tecnologiche (garantite dall’azienda ai lavoratori coinvolti) e il ripensamento degli spazi fisici. Quante aziende saranno davvero in grado di compiere questo passo organizzativo? Al momento è molto difficile dirlo.
Quel che è certo, però, è che secondo le stime più ottimistiche questa modalità di lavoro non potrà riguardare più del 30 per cento del totale dei lavoratori. Un’analisi effettuata dall’Istituto nazionale per l’analisi delle politiche pubbliche (Inapp) ci ha per altro messo in guardia sugli effetti distorsivi di questa diseguale opportunità di accesso allo smart working: i lavoratori a bassa propensione allo smart working presentano infatti un reddito lordo mediamente più basso rispetto al gruppo dei più facilmente smartabili.
Come se non bastasse, l’Istituto ha stimato per altro come un aumento generalizzato di attitudine allo smart working porterebbe a un aumento dei salari esclusivamente a beneficio dei lavoratori dipendenti ad alto reddito. Non esattamente una trasformazione indolore.
E se chiudessero?
Le distorsioni salariali non saranno per altro gli unici effetti collaterali di cui dovremo preoccuparci. Se anche soltanto 3 lavoratori su 10 inizieranno stabilmente a lavorare da casa per una o più giornate alla settimana, l’impatto di sistema sarà enorme. Il prezzo più alto potrebbe essere pagato innanzitutto dalle grandi città attrattive, prima di tutto Milano.
L’impatto dell’inevitabile diminuzione quantitativa dei city users giornalmente circolanti si farà sentire sui trasporti (meno passeggeri, meno introiti, meno personale), sul commercio e soprattutto sulla ristorazione collocata dentro e attorno i centri direzionali (naturali o artificiali). Per chi potrà scegliere uno smart working massiccio, diventerà anche meno necessario vivere a portata di ufficio, con inevitabili ripercussioni sul mercato immobiliare destinato a contrarsi nelle grandi città e a crescere in provincia.
Mentre per chi rimarrà (volontariamente o meno) nelle grandi città si porrà il tema della effettiva realizzabilità dell’auspicio eco-sostenibile (e molto chic) di avere tutto entro 15 minuti (a piedi, in bicicletta, in monopattino) da casa. Ovvero: servizi, bar, ristoranti e negozi si sposteranno dai centri verso le periferie? O semplicemente (e drammaticamente) chiuderanno?
Sfide per la politica
Insomma, come in tutte le rivoluzioni ci saranno vincitori e sconfitti. Quel che è certo è che ci vorrà molta buona politica locale per garantire la riduzione al minimo degli effetti indesiderati. Così come ci vorranno molte buone relazioni industriali per governare dall’interno la trasformazione organizzativa dell’impresa e del lavoro. Solo così questa nuova grande trasformazione potrà giungere a un nuovo punto di equilibrio adeguatamente attento alle necessità di tenuta complessiva del sistema sociale ed economico.
Occorrerà, con ogni evidenza, la capacità di interrogarsi, per definire un approccio sistemico che tenga conto dei rischi di aumento della disoccupazione in alcuni ambiti, dei rischi di desertificazione delle zone centrali e dei centri direzionali, dell’accelerazione nelle tendenze alla gentrificazione delle città, dei possibili impatti sul commercio, dell’aumento potenziale delle diseguaglianze… Ci sarà da ri-pensare le città, insomma.
La domanda finale è dunque la più urgente: esiste ancora una classe dirigente all’altezza di questo compito? Da quanto si è visto durante la pandemia (si pensi agli interventi dei prefetti di fronte alle evidenti inadeguatezze di molte giunte comunali) la risposta non appare per nulla scontata.