«Attenti, quindi, alla scelta di legalizzare le unioni di fatto: c’è il rischio di tagliare il ramo su cui siamo seduti»
di Luciano Monari
(Vescovo Di Piacenza-Bobbio)
Il ragionamento procede in questo modo: la famiglia svolge una funzione preziosa e delicata nella costruzione del benessere della società. Qualsiasi scelta che indebolisca questa funzione è pericolosa e va soppesata con attenzione. Ora, la scelta di legalizzare le unioni di fatto colloca la famiglia in una condizione di oggettiva debolezza. Attenti, quindi; c’è il rischio di tagliare il ramo su cui siamo seduti. Vediamo se il ragionamento fila.
La famiglia risponde, nella nostra società, a una funzione primaria: quella della procreazione, del mantenimento e della fondamentale educazione dei figli. Naturalmente, la famiglia svolge anche altre funzioni a livello affettivo, culturale o economico; ma questa (quella della generazione e dell’educazione dei figli) è una funzione squisitamente sociale che la famiglia svolge; dal modo in cui questa funzione viene svolta dipende in gran parte il benessere della società e il suo stesso futuro.
Chi si sposa assume dei doveri e delle responsabilità che non sono affatto leggeri ma che permettono alla famiglia di svolgere il suo compito nella società. Questo è il motivo per cui la legge chiede una certa stabilità della famiglia: riconosce il divorzio, certo, ma lo ratifica solo dopo la verifica di alcune condizioni poste dal legislatore. Lo Stato cerca di rendere stabile la famiglia non per motivi etici ma perché riconosce che il proprio benessere dipende (anche) dal buon funzionamento dell’istituto familiare.
Già ora la famiglia è evidentemente in crisi e questa crisi è pagata a caro prezzo dalla società. Se i figli crescono più insicuri e aggressivi è perché non hanno alle spalle la sicurezza affettiva e sociale della loro famiglia. Il disagio è notevole: anzitutto per loro, i figli, ma anche per la società nel suo complesso. Non è mai stato facile, nel mondo moderno, superare la crisi dell’adolescenza, imparare ad accettare se stessi, entrare in rapporto fiducioso e leale, di collaborazione con gli altri.
Ma questo passaggio diventa ancora più difficile se un ragazzo non si sente sicuro affettivamente: se teme che i suoi genitori si possano dividere, se immagina di dover fare la spola tra un genitore e l’altro, se non sa quale atteggiamento tenere nei confronti di ciascuno e non è sicuro dell’atteggiamento dei genitori nei suoi confronti. È un prezzo altissimo che i giovani sono costretti a pagare.
Non è certamente estraneo a questa situazione il fatto che i giovani – ci dicono – vedono il futuro più con timore che con speranza. E non è solo per la precarietà del lavoro; è per la precarietà affettiva che non dà loro che poche, incerte speranze di essere veramente accettati e amati per sempre. La sofferenza che si paga per questa situazione è anzitutto personale, ma è anche sociale perché questa insicurezza genera paura e sospetto, quindi diffidenza e aggressività; rende i rapporti con gli altri problematici, non sereni; rischia di far percepire la presenza degli altri come un pericolo anziché come una ricchezza.
Ora, se si delinea una figura giuridica dei pacs (o similia) inevitabilmente si lede la posizione che la famiglia ha oggi nel sistema giuridico italiano. Famiglia e pacs sono alternativi (o. o.) e questa alternativa viene proposta ai giovani. Più o meno così: «Hai davanti a te la vita: scegli liberamente se vuoi impegnarti nel vincolo familiare o se vuoi unirti senza impegno col tuo partner; per me, società, questa scelta è indifferente; ti tratterò nello stesso modo qualunque strada tu preferisca». Una simile alternativa è socialmente distruttiva perché contiene surrettiziamente un ragionamento del tipo: «Se non sei sciocco, scegli i pacs: avrai le stesse garanzie della famiglia e non dovrai subirne i vincoli».
Se la società considera la famiglia un bene per la società (e cioè concretamente un “meglio”) deve evidentemente favorirla; se non la favorisce, deve sapere che ne pagherà il prezzo. È un prezzo il cui pagamento sembra lontano nel tempo, e soprattutto è un prezzo che pagheranno gli altri (i figli e i figli dei figli); perciò appare preferibile, dal punto di vista personale, scegliere in questa direzione. Ma non possiamo illuderci che questo possa avvenire senza delle conseguenze sociali, cioè senza delle reali sofferenze.
Una delle leggi dell’economia dice che la moneta peggiore caccia la migliore; non so se esista una analoga legge della sociologia per cui l’istituzione più facile (i pacs) caccerebbe quella più difficile (la famiglia). Ma sembra logico e, in ogni modo, non vorrei dover verificare il funzionamento di questa legge.
Obiezione: di fatto esistono numerose convivenze e non si può fare a meno di prenderne atto. Queste convivenze non sono famiglie ma svolgono pure alcune funzioni sociali (sostegno reciproco, integrazione affettiva, a volte anche la procreazione). Dobbiamo far finta di niente? O il bene della società suggerisce che anche a queste unioni vengano garantite alcune protezioni sociali? Se il problema è quello di offrire certe garanzie anche a chi non se la sente di costituire una famiglia, la strada esiste ed è quella del diritto della persona.
Si possono fare leggi che garantiscano alle persone questo o quel diritto che si ritiene necessario (o utile) per loro. Per esempio: ai genitori non sposati si riconoscono diritti-doveri analoghi a quelli che hanno i genitori sposati; o casi simili. Ma costituire per questo una nuova figura giuridica (unione libera di adulti) non è necessario. E se lo si ritiene necessario non è per garantire certi diritti (che possono essere garantiti altrimenti) ma proprio perché si vuole collocare accanto alla famiglia una figura giuridica alternativa.
Certo, è possibile scegliere qualsiasi alternativa. Ma essendo ben consapevoli degli effetti che le nostre scelte hanno. Sarebbe stupido pensare che una scelta, quale che sia, non abbia conseguenze. E a me sembra evidente che una diminuzione del primato della famiglia porterebbe (forse) a un accentuarsi del problema demografico, ma (certo) a un aggravarsi della crisi educativa delle nuove generazioni. Rischiamo di essere una società ipocrita, che si scandalizza per gli effetti delle sue scelte ma non vuole confessare di avere provocato essa stessa questi effetti e non accetta di mettere in discussione le sue scelte.
Un proverbio vecchio insegnava che «non si può volere la botte piena e la moglie ubriaca». Traduzione: non si può volere una vita personale libera da ogni vincolo e nello stesso tempo sperare che la società sia ordinata e solidale; non si può volere la sicurezza che viene dal senso di responsabilità di ciascuno e nello stesso tempo pretendere la licenza che viene dal non volere vincolo alcuno.