Antonio Socci
Ieri concerto contro la pena di morte e paginate sulle condanne negli Usa. Ma tre cristiani condannati alla pena capitale per la loro fede non interessano nessuno… Oso pensare che alla fine papa Benedetto XVI non tacerà perché ascolterà questo grido. Non il mio (che non ho titoli), ma quello di tre poveri cristiani messi a morte a causa della loro fede. Tre contadini cattolici, nel più popoloso stato islamico del mondo, l’Indonesia. Oso crederlo perché con Ratzinger – allora cardinale – ho parlato a lungo, anche un anno fa, il 16 ottobre, dei cristiani perseguitati e ho visto un gran dolore sul suo volto e gli ho sentito pronunciare parole decise sui tanti persecutori delle minoranze cristiane.
Tante volte i mass media hanno fatto clamorose campagne a favore di questo o quel condannato a morte negli Stati Uniti. Nulla da dire, anche se il sistema giudiziario americano è serio, è tipico di un paese democratico e normalmente condanna solo i colpevoli (salvo errori giudiziari). E’ giusto combattere la pena di morte sempre, anche negli Usa (ricordo la campagna fotografica di Toscani). Ma per tre poveri contadini cristiani innocenti, condannati a morte ingiustamente da un sistema giudiziario iniquo, in un regime di discriminazione e di violenza islamica, non sembra che i media vogliano sprecar fiato e inchiostro.
Allora non resta che sperare nel Pontefice. Anche se s’intuisce che possa essere indotto alla prudenza perché i vescovi indonesiani sono impauriti dalle ritorsioni (soprattutto dagli attentati che i fondamentalisti minacciano per il prossimo Natale).
Il regime islamico indonesiano è innanzitutto il responsabile dell’invasione di Timor Est nel 1975. L’occupazione di questa terra cristiana, durata 25 anni, ha provocato 300 mila vittime su 800 mila abitanti, è terminata cinque anni fa, su pressione degli Stati Uniti e dell’Onu, e con essa anche il genocidio. Ma su quella strage di cristiani, su cui secondo la deliberazione Onu si doveva indagare, è stato steso un velo di silenzio. Nessun caporione indonesiano sarà denunciato o chiamato a risponderne.
Ora resta il problema delle minoranze cristiane dentro il territorio dell’Indonesia. Per esempio la regione delle Sulawesi centrali ha la presenza di una consistente comunità cattolica, contro la quale fra 1999 e 2000 si è scatenata la violenza dei fondamentalisti musulmani a cui i cristiani hanno risposto con una decisa autodifesa (gli scontri hanno fatto circa duemila vittime).
Il fanatismo islamico sta dilagando sempre di più come dimostrano gli episodi recenti, avvenuti proprio in questa regione: a Poso un mese fa tre studentesse cristiane sono state sequestrate, sgozzate e decapitate; il 18 novembre un’altra ragazza di 22 anni è stata ammazzata a colpi di machete e il giorno dopo hanno sparato a due cristiani che uscivano da una chiesa riducendoli in fin di vita.
La situazione è particolarmente grave perché l’insediamento di Al Qaeda nel Paese, dopo gli attentati di Bali, sembra evidente e i terroristi possono contare su una certa inadeguatezza delle forze di polizia o forse addirittura su connivenze, come quelle di cui già godono chiaramente (nell’esercito) i gruppi fondamentalisti che hanno scatenato le violenze del 2000.
Infatti per quegli eventi nessun musulmano è stato processato. Sono stati invece arrestati e condannati a morte tre cristiani, Fabianus Tibo (60 anni), Domingus da Silva (42 anni) e Don Marinus Riwu (48 anni), che sono poveri contadini analfabeti.
Il loro arresto da parte della polizia e il processo, secondo gli osservatori, sono stati pesantemente inquinati dalle pressioni dei fondamentalisti musulmani che hanno preteso ad ogni costo dalla giuria (e l’hanno ottenuta) la condanna capitale. Il vescovo di Manado, monsignor Suwatan, ha protestato dichiarando ad AsiaNews che i tre cristiani sono innocenti, essi “non sono i responsabili, ma le vittime degli scontri a Poso” (nei quali fu distrutta la parrocchia di Santa Teresa, un convento di suore e diverse scuole cattoliche). Nonostante la protesta della Chiesa le autorità hanno rifiutato la revisione del processo e il 10 novembre il presidente ha respinto anche la domanda di grazia.
Inutilmente il vescovo di quella piccola comunità cristiana chiede ora da solo di fermare l’esecuzione dei tre poveri innocenti. Ci sarebbe bisogno di una campagna di stampa e di pressioni internazionali, ci sarebbe bisogno dell’intervento di organizzazioni umanitarie (soprattutto quelle che si battono contro la pena di morte come “Nessuno tocchi Caino”). Ma non se ne vedono, almeno per ora, per difendere questi tre Abele (speriamo nei prossimi giorni). Perciò sarebbe prezioso l’intervento pubblico dello stesso pontefice che certamente starà già facendo il possibile, per canali riservati, come si evince dalla presenza sul posto del Nunzio apostolico.
A dire il vero ci si dovrebbe aspettare anche una maggiore attenzione da parte del mondo cattolico occidentale: giornali, movimenti, parrocchie, episcopati. Si potrebbe e si dovrebbe realizzare una campagna di stampa, una mobilitazione nelle sedi internazionali (la Commissione diritti umani dell’Onu, quella dell’Ue), ma sembra non ci siano risorse per salvare i cristiani in pericolo di vita (non solo in Indonesia, ma anche in Cina, in Corea del Nord, in Vietnam).
La Chiesa americana si è letteralmente dissanguata per la gestione sbagliatissima, da parte dell’espiscopato, del cosiddetto “caso pedofilia”. Gestione che ha finito per far passare la Chiesa come connivente quando semmai è vittima. Una gestione che ha pure compromesso – con una strategia costosa – la posizione degli innocenti accusati ingiustamente.
Ma si è mai pensato di pagare un pool di avvocati internazionali per difendere i cristiani in pericolo come i tre contadini indonesiani? Eppure i cristiani dovrebbero sentire il vincolo della comunione cattolica come è stato per secoli, fin dalle origini. Ma non sembra sia così. Dieci giorni fa il presidente americano Bush è andato in Cina e lì pubblicamente ha chiesto ai despoti libertà per i cristiani perseguitati.
Si è preso gli sberleffi di gran parte della stampa nostrana. E il nostro mondo cattolico ufficiale è parso indifferente. Proprio mentre da noi si celebrava la giornata contro le violenze sulle donne, sedici suore francescane cinesi a Xian sono state massacrate di botte (una ha perso la vista, un’altra è grave) perché “cercavano di impedire la demolizione di una scuola che appartiene alla diocesi e che il governo della città ha venduto a un’azienda” (AsiaNews). Ieri si è saputo di altri sei preti arrestati e sprofondati nell’orrendo Laogai.
Ma da noi ci sono anche riviste cattoliche dove si asserisce che in Cina le cose per i cristiani vanno bene e che perfino in una cupa dittatura come l’Iran – dove i cristiani sono in una situazione disperante – la presenza dei cattolici sarebbe “indisturbata”. Sarà ritenuta “indisturbata” anche la vita dei tre cristiani indonesiani? O forse siamo noi che non vogliamo essere “disturbati”, nel nostro sonno, dalle grida disperate degli oppressi?