Il Giornale Martedì 10 settembre 1996
Parla l’unico superstite dei 16mila italiani fucilati dai noni in Istria. Sopravvisse perché cadde nell’acqua e non sulle rocce della fossa
Lino Pellegrini
Il tema foibe è tornato di stringente attualità. Ma, superando le voragini nostrane come il Bus de la Lum, Basovizza e Monrupino, trasferiamoci oltre confine, nell’attuale Slovenia. Là, fra il 1943 e il 1945, i nostri connazionali infornati da slavi titini furono circa sedicimila.
Ottobre 1943, zona di Vjnes, proprio nel cuore dell’Istria. Un mese prima, in quella foiba, i titini hanno gettato moltissimi italiani.Poi, con l’arrivo delle truppe tedesche, i massacri sono cessati. E un gruppo di giudici di Pola, affiancati a un reparto della Milizia per la Difesa Territoriale e da vigili del fuoco, si recano alla foiba per recuperarne i morti. Dispongono, i vigili, di funi, argani, carrucole, insomma dei mezzi che consentono di calarsi fino a 145 metri di profondità, per poi imbragare e risalire. All’operazione assiste, fra gli altri, l’allievo ufficiale Graziano Udorisi, diciottenne, di Pola. Che mi racconta i particolari orrendi del recupero dei cadaveri.
Povere salme ormai putrefatte, segni di torture, occhiaie vuote, mani legate, il ventre, ancora rigonfio d’una donna incinta. I parenti che si aggirano fra quei resti cercando i loro cari non possono non provare un senso di raccapriccio: ma proprio per tentare di identificare quei corpi li debbono esaminare nei dettagli. Via via che le salme sono riportate in superficie coprirsi naso e bocca con un fazzoletto serve a poco, il tanfo ammorba tutta la campagna. Quante, queste salme? Centoquindici. Né è detto che la ricerca, pur condotta con abnegazione ammirevole, abbia raggiunto un risultato totale. Così, la foiba di Vines. Così mi racconta, documentando con fotografie, Graziano Udovisi, testimone oculare d’una pagina di storia.
Ma le foibe (dal latino foves, ossia crepaccio, baratro), numerosissime nella geologia dell’Istria e della Venezia Giulia, nonostante i loro sedicimila morti, sin quasi ai nostri giorni la storia non l’hanno fatta. Motivo: i massacri non collimavano, com’è noto, con la successiva direttrice di marcia della politica italiana. Per cui, silenzio. O, addirittura, omaggi al condottiero degli infornatori, maresciallo Tito.
Peraltro, in fatto di silenzio sul tema foibe, nessuno avrebbe potuto immaginare un certo estremo, un apice che, per certi versi, supera addirittura il confine della morte. Siamo, stavolta, a Pola, nel maggio 1945. I tedeschi ripiegano, irrompono gli slavi. Un sottotenente della Milizia per la Difesa Territoriale, saputo che gli slavi lo cercano, si presenta spontaneamente al loro comando, anche per alleggerire la posizione dei propri commilitoni. Cinque maggio, ore 17. Interrogatorio, stesura minuziosa di tutti i dati del giovane ufficiale. Di processo, nemmeno parlarne. Il sottotenente ed altri vengono legati a due per due, per i polsi o per le braccia, col fil di ferro. E via, a piedi, verso Digitano, una marcia d’una dozzina di chilometri. Là, sosta in un piccolo campo di prigionia, quindi continuazione della marcia, sempre legati, sino a Barbana, Arsia, Piedalbona.
In quest’ultima località i prigionieri vengono cacciati dentro una palestra, dove li si costringe… a correre a testa bassa contro i muri. Se, dopo il cozzo, gli sventurati perdono i sensi, li si fa rinvenire con secchi d’acqua oppure a colpi di coltello o di baionetta. Siamo – vedi caso! – a due passi dalla foiba di Vmes.
Dopo Piedalbona, nuova marcia, per una scorciatoia, verso Fianona. Totale, da Pola, sui cinquanta chilometri. La notte viene trascorsa dai prigionieri nella stanza d’una caserma. Vengono derubati di tutto, comprese giacche e scarpe: poi trasferimento in una cella, come dire una trentina di persone non più addossate ma ammassate in pochi metri quadrati. All’alba del 14 maggio 1945, sei di quei prigionieri sono condoni nei dintorni di Fianona, alla foiba detta del Cane Nero. Il sottotenente della Milizia viene frustato a sangue da una donna. Lo percuotono in faccia col calcio d’una pistola, fratturandogli una mascella. Col calcio d’un fucile lo colpiscono alla schiena, lesionandogli un rene. Intanto, a causa sia del fil di ferro sia del fatto che ha dovuto trascinare coi polsi un poveraccio rimasto al suolo perché moribondo e poi cadavere, il sottotenente soffre dolori atroci.
Ma perché «Cane Nero»? Perché, secondo la credenza popolare, se un cane nero veniva gettato in una foiba egli vi tratteneva le anime potenzialmente moleste per l’umanità. Ora, il nome della foiba nei dintorni di Fianona significava che, nella notte dei tempi, un cane doveva esservi stato sacrificato e che quindi vi si potevano gettare anche i sei italiani. Nel frattempo, il sottotenente è riuscito a far scivolare il cappio del fil di ferro dal gomito al polso.
I sei sono dunque sull’orlo della foiba. Dinanzi a loro un gruppo di armati, pronti a far fuoco. Movimenti convulsi fra i condannati, altri fili si spezzano. Come il primo colpo dei boia titini parte, il sottotenente si getta giù. Sicuro, si getta nella foiba un tempuscolo prima che lo colpiscano, seguendo un impulso irrefrenabile. Il volo è di una trentina di metri. In fondo, fortunatamente, non rocce ma acqua. Anche gli altri cinque sventurati vi precipitano. Sott’acqua, l’ufficiale sente come una zolla di terra… No, è la testa d’un compagno, anche lui illeso. Il sottotenente lo porta a galla, lo salva. Poi entrambi si appoggiano a una sporgenza, si scambiano qualche parola. «Maledetti, ancora vivi!», urlano, in alto, gli slavi titini. E giù bombe, che però feriscono i due superstiti solo leggermente. Gli altri quattro infoibati sono scomparsi.
Certo, prima della caduta, li ha colpiti il piombo dei boia. E, con i boia, finisce così. Pur nel freddo, nel sangue, nella spossatezza, i due superstiti debbono attendere il buio, cioè trascorrono un’intera giornata in foiba, prima di tentare in qualche modo la risalita. Ci riescono! Poi affrontano, con ogni possibile cautela, ma scalzi, i cinquanta chilometri che li separano da Pola. Temono sia la sbirraglia titina sia i cani da guardia, che non scherzano, sia le vipere, che in Istria abbondano. Ma, un certo giorno, ecco che il sottotenente è sulla porta di casa, e chiama la sorella Mafalda. La quale risponde: «Non sei tu, è soltanto la tua voce…». No, era lui. Lui, chi? Graziano Udorisi, già testimone del recupero delle salme della foiba di Vines. Sicuro. Graziano Udorisi, dopo aver constatato direttamene i risultati dei massacri, era stato infoibato a sua volta.
Oggi, quindi, Udorisi è l’unico superstite dei sedicimila infornati (l’altro superstite, Giovanni Radeticchio, emigrò in Australia, dove è mancato parecchi anni fa).
A Pola, nella sua casa, Udorisi trovò un ottimo nascondiglio. Poté lasciare l’lstria nell’agosto 1945, con l’arrivo degli Alleati. Quattro anni d’università, poi insegnante di scuola media. Ora rive a Reggio Emilia, dove sono sepolti i suoi genitori. Intelligente, occhi brillanti, sorriso pronto – un orecchio fuori uso e un rene menomato non debbono avere importanza -, Udorisi continua a far corpo unico con l’Istria. La sua terra e lui sono – nonostante gli anni, la distanza, la moglie reggiana, la figlia sposata a Reggio e la sorella che rive nelle Marche – una cosa sola. Gli canticchio la celeberrima canzone istriana «La mula de Parenzo»; lui non soltanto la completa ma riaggiunge alcune canzoni triestine tradizionali, per cui, dopo aver conversato con Udorisi, mi sembra d’esser tornato in quella Venezia Giulia che sin da ragazzo cominciai a conoscere e ad amare.
Domanda ovvia. Perché mai il colpo di scena, cioè l’apparizione dell’unico superstite delle foibe, soltanto ai nostri giorni? Perché, prima, Graziano Udorisi il suo infoibamento lo volle tenere per sé. Troppa tragedia, troppo orrore, troppa ostilità politica persino ai livelli massimi, per divulgarlo.
Più tornato in Istria? chiedo a Udorisi.
«No. mai!».
Vogliamo andarci, a Fianona, sulla foiba del Cane Nero? «Ci andrei, se mi invitassero». Già. Ma l’invito dovrebbe significare una nuova mentalità e, fra l’altro, la possibilità di iniziare ricerche anche nelle foibe slovene (Vines insegna). Senonché, tanto l’invito quanto il cambiamento della mentalità degli slavi sono, oggi, ancora inconcepibili. Né, d’altra parte, possiamo lamentarci troppo noi, che, sino a ieri, il tema foibe lo abbiamo considerato tabù.
«Tanto tabù – conclude Udorisi – che a suo tempo non facevo vedere nemmeno questo» e intanto estrae di tasca un minuscolo ciondoletto d’oro. «Gli slavi non me lo trovarono perché l’avevo ficcato nel taschino delle mutande. Sicuro, è stato nella foiba anche lui. Me l’aveva regalato la mamma».