La dottrina della regalità sociale di Cristo è stata fissata da Pio XI nell’enciclica Quas Primas del 1925, ma già i precedenti Pontefici ne avevano espresso il contenuto, confermato dal Concilio fino a oggi. E che sarà valido per sempre
di Stefano Fontana
«E quanto più saranno sapienti e potenti in questo mondo, tanto più d re le pene nell’inferno. Perciò vi consiglio, signori miei, di mettere da pa e preoccupazione e di ricevere devotamente la comunione del santissi sangue del Signore nostro Gesù Cristo in sua santa memoria». (San Francesco, Lettera di Francesco ai Reggitori dei Popoli)
Il principio dottrinale della “regalità sociale di Cristo” significa che la costruzione della società umana non riesce a raggiungere gli stessi propri fini naturali senza essere ordinata a Gesù Cristo, Creatore e Salvatore. Egli, in quanto Creatore, ha costituito la società umana fondandola sul matrimonio e la famiglia, sull’amore reciproco e sull’autorità. Sempre come Creatore, il Signore ha dato alla società le regole della convivenza, fissando ad ogni cosa i suoi limiti.
Come Redentore, il Signore Gesù ha ricreato una seconda volta il mondo dopo il peccato e alla fine ricapitolerà in Sé tutte le cose, sia quelle del cielo che quelle della terra. Gesù Cristo ha una signoria assoluta sulla storia e sul mondo, perché è l’Alfa e l’Omega. Del resto, come scrisse Joseph Ratzinger «Un Dio che non ha potere è una contraddizione in termini». In Memoria e Identità, Giovanni Paolo II ha scritto che Cristo ha una missione: «regale. A Lui sono sottomesse tutte le cose, in attesa che egli sottometta al Padre se stesso e tutte le creature, affinchè Dio sia tutto in tutti».
Dalla Quas primas alla Evangelii Gaudium
La dottrina della regalità sociale di Cristo è stata fissata e insegnata da Pio XI nell’enciclica Quas Primas del 1925, ma già i precedenti Pontefici ne avevano espresso il contenuto, come per esempio Leone XIII nell’enciclica Immortale Dei. Essa però appartiene alla tradizione della Chiesa e, come tale, è valida anche oggi e lo sarà sempre.
Purtroppo, viene spesso eretto un muro tra la Dottrina sociale della Chiesa preconciliare e quella postconciliare. Sicché si potrebbe pensare che questa dottrina, espressa in quel periodo, oggi non sia più valida. Ma così non è. La costituzione Gaudium et spes del Concilio Vaticano II afferma che «senza il Creatore la creatura viene meno» (n. 36). La costituzione Lumen Gentium dice che i laici devono «ordinare secondo Dio le cose temporali». Il decreto Apostolicam actuositatem insegna che spetta ai laici «informare di spirito cristiano la mentalità e i costumi, le leggi e le strutture della comunità» (n. 13).
Si tratta di riferimenti indubitabili alla regalità di Cristo. Il Catechismo della Chiesa cattolica dedica al tema soprattutto il paragrafo 2105, ove si ribadisce «la regalità di Cristo su tutta la creazione e in particolare sulle società umane». Giovanni Paolo II enunciò questa dottrina fin da subito, nell’omelia della sua prima Messa da Pontefice: «Non abbiate paura! Aprite, anzi, spalancate le porte a Cristo! Alla sua salvatrice potestà aprite i confini degli Stati, i sistemi economici come quelli politici, i vasti campi di cultura, di civiltà, di sviluppo. Non abbiate paura! Cristo sa “cosa è dentro l’uomo”. Solo lui lo sa!».
Si noti che qui il santo Papa non ha invitato ad aprire a Cristo solo i cuori, ma anche i sistemi economici e politici, la cui costruzione non è indifferente al Signore. Benedetto XVI ha più volte ribadito il concetto della regalità di Cristo: «Con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi si manifestano sempre di più» (10 marzo 2009). Lo ha fatto anche il 19 gennaio 2012 con una frase lapidaria: «Non esiste un regno di questioni terrene che possa essere sottratto al Creatore e al suo dominio».
Papa Francesco ha scritto nella Evangelii gaudium: «Non è la stessa cosa aver conosciuto Gesù o non conoscerlo, non è la stessa cosa camminare con Lui o camminare a tentoni, non è la stessa cosa poterlo ascoltare o ignorare la sua Parola, non è la stessa cosa poterlo contemplare, adorare, riposare in Lui, o non poterlo fare. Non è la stessa cosa cercare di costruire il mondo con il suo Vangelo piuttosto che farlo unicamente con la propria ragione» (n. 266).
Il fondamento della Dottrina Sociale della Chiesa
Non va dimenticato che sul principio della regalità di Cristo si fonda la Dottrina sociale della Chiesa. Perché, infatti, è nata la Dottrina sociale della Chiesa nella forma moderna? Benedetto XVI disse che l’esigenza della nuova evangelizzazione va fatta risalire all’Ottocento, quando gli Stati volevano eliminare Dio dalla pubblica piazza. Ebbene, la Dottrina sociale della Chiesa inizia allora, soprattutto con Leone XIII, per rimettere Dio al centro anche della costruzione della società e della politica. Infatti Leone XIII, nella Rerum novarum, scrisse che la questione sociale è «una questione di cui non è possibile trovare una risoluzione che valga senza ricorrere alla religione e alla Chiesa» (n. 18).
Questa convinzione non è superata, ma è valida anche oggi, tanto è vero che cento anni dopo, nella Centesimus annus, Giovanni Paolo II riprese e confermò questo insegnamento: «Come allora, bisogna ripetere che non c’è vera soluzione alla questione sociale fuori del Vangelo» (n. 5). Solo il riferimento a Cristo salva la società e permette di individuare e di perseguire veramente il bene comune. Il che altro non è che la dottrina della regalità sociale di Cristo. Ciò è talmente importante per la Dottrina sociale della Chiesa che, se eliminassimo la dottrina della regalità sociale di Cristo, essa si trasformerebbe in un’etica sociale, in una raccolta di buone intenzioni, in un vademecum delle buone pratiche.
Ma i Sommi Pontefici non hanno mai inteso in questo modo la Dottrina sociale della Chiesa. Giovanni Paolo II disse che «la dottrina sociale della Chiesa ha di per sé il valore di uno strumento di evangelizzazione; in quanto tale annuncia Dio e il mistero di salvezza in Cristo a ogni uomo e, per la medesima ragione, rivela l’uomo a se stesso. In questa luce, e solo in questa luce, si occupa del resto» (Centesimus annus, n. 55).
La regalità sociale di Cristo è espressione della pretesa cristiana di annunciare la salvezza in Cristo. Cristo non è solo utile, sicché la Dottrina sociale della Chiesa sia un dolcificante per i mali della società o un lubrificante per le incrostazioni delle ingiustizie, Egli è indispensabile. Lo dice la Caritas in veritate di Benedetto XVI: «L’adesione ai valori del cristianesimo è elemento non solo utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di uno sviluppo umano integrale» (n. 4).
Come potrebbe Dio essere solo utile e non indispensabile? E come potrebbe essere indispensabile senza esprimere una regalità sulle cose temporali? Ecco perché la dichiarazione Dignitatis humanae del Vaticano II afferma che «esiste un dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo» (n. 1).
L’equivoco della canonizzazione della democrazia
Ma come si concilia il principio della regalità sociale di Cristo con le moderne democrazie del pluralismo e della libertà di opinione, nelle quali tutte le visioni della vita e tutte le religioni sono ugualmente ammesse? La regalità sociale di Cristo non si accompagna con un sistema di Stato confessionale nel quale la vera religione è protetta mentre le altre sono solo tollerate? Ormai la Chiesa non ha forse accettato la moderna democrazia e, così facendo, non ha definitivamente abbandonato tutto questo?
Innanzitutto va precisato che la Chiesa non ha mai canonizzato la democrazia e tantomeno la democrazia moderna. Giovanni Paolo II nel suo libro Memoria e identità ha scritto che «l’etica sociale cattolica appoggia, in linea di principio, la soluzione democratica, perché più rispondente alla natura razionale e sociale dell’uomo. Si è tuttavia lontani – è bene precisarlo – dal canonizzare questo sistema».
L’enciclica Centesimus annus pone alla democrazia condizioni tali da mostrare le grandi carenze delle sue forme moderne. Il Magistero respinge soprattutto il collegamento tra democrazia e relativismo, anzi collega la democrazia con l’esigenza della verità sicché i sistemi democratici non annullano, semmai rendono ancor più evidente il «dovere morale dei singoli e delle società verso la vera religione e l’unica Chiesa di Cristo».
Per molto tempo questo dovere si era espresso positivamente nella forma dello «Stato confessionale», ma anche nella presente fase storica in cui lo Stato confessionale non è più considerato valido non viene meno il principio della regalità di Cristo sulle realtà temporali. Si può dire che esiste un principio valido sempre e che permane: la regalità di Cristo. Ci sono poi formulazioni storiche che possono anche mutare, come per esempio quella dello Stato confessionale come lo abbiamo finora conosciuto. Cosa ci riserva il futuro dipende dalla Provvidenza di Dio e dall’impegno dei credenti.
II vero bene comune è l’ordine voluto dal Creatore
II principio della regalità sociale di Cristo è di fondamentale importanza per chiarire il fine della Dottrina sociale della Chiesa e dell’impegno cristiano nel mondo: il bene comune. Questa è oggi una espressione che viene intesa in vario modo, spesso equivoco. Spesso la si intende solo come il benessere materiale oppure come il buon funzionamento delle istituzioni a vantaggio di tutti secondo giustizia.
Altre volte lo si intende come l’interesse collettivo: quando tutti stessero bene, avessero un lavoro, l’automobile, la sanità garantita e così via ci sarebbe allora il bene comune. Spesso accade che anche i fedeli cattolici appiattiscano il concetto di bene comune ad un livello solo orizzontale. Il bene comune, invece, è sì un principio per l’ordinamento materiale della società, ma ancor di più per il suo ordinamento morale e religioso. Il bene comune ci sta senz’altro davanti, come un fine da raggiungere e non come qualcosa da inventare, ma ci sta anche dietro, come un ordine ricevuto in eredità e da rispettare, come l’ordine voluto da Dio.
Non ci può essere bene comune senza rispetto dell’ordine naturale del creato e non ci può essere bene comune senza considerare che l’uomo è fatto per Dio. Giovanni XXIII nella Pacem in terris diceva che «II bene comune va attuato in modo non solo da non porre ostacoli, ma da servire altresì al raggiungimento del loro [degli uomini] fine ultraterreno ed eterno» (n. 35). Del bene comune fanno quindi parte sia l’ordine ricevuto da Dio creatore sia il fine ultraterreno dell’uomo e la salvezza delle anime. Quello di bene comune è allora un concetto morale e religioso. Dio è il principale bene comune e conoscere il Vangelo è il primo dei diritti umani.
Quando, per esempio, si sente dire che il riconoscimento delle unioni tra persone omosessuali può contribuire al bene comune in quanto si valorizza una presa in cura reciproca e una relazione affettiva non si tiene conto dell’aspetto morale e religioso del bene comune. Non può essere che una legge contraria alla legge morale naturale voluta da Dio creatore contribuisca al bene comune. Ecco quindi che la regalità di Cristo è parte integrante del concetto cattolico di bene comune.
La neutralità impossibile
Non c’è neutralità rispetto a Dio. Il credente sa, per ragione e per fede, che l’umanità con le sole sue forze non riesce a costruire la città dell’uomo. La secolarizzazione che esclude Dio dalla pubblica piazza produce malessere. Diceva Benedetto XVI ad Aparecida nel 2007: «Dove Dio è assente – Dio dal volto umano di Gesù Cristo – questi valori non si mostrano con tutta la loro forza, né si produce un consenso su di essi. Non voglio dire che i non credenti non possano vivere una moralità elevata ed esemplare; dico solamente che una società nella quale Dio è assente non trova il consenso necessario sui valori morali e la forza per vivere secondo il modello di questi valori, anche contro i propri interessi».
La regalità di Cristo salva il mondo da se stesso e, così facendo, lo realizza.
Per saperne di più:
Stefano Fontana (a cura di), Joseph Ratzinger-Benedetto XVI. Il posto di Dio nel mondo. Potere, politica, legge, Cantagalli, 2013.