Pechino ha l’egemonia sulle tecnologie per controllare la popolazione. per l’occidente non sembra un problema
di Simone Pieranni
E’ l’anno 2027: la Cina ha perfezionato la sua architettura di sorveglianza nazionale attraverso smart city e sistemi di credito sociale. I risultati non si possono negare e questo comporta scelte complicate per i governi occidentali: l’efficacia e la sofisticazione di questi sistemi “cinesi” sono convincenti. A causa della mancanza di cooperazione tra Stati occidentali, nonché dell’assenza di un approccio etico all’uso di strumenti come l’intelligenza artificiale, «il contenimento della diffusione di questi sistemi e dei loro effetti collaterali distruttivi non ha avuto successo».
Questa proiezione nel futuro, nel quale l’Occidente prende una “via cinese” al controllo della popolazione, non è tratta da un romanzo fantascientifico: è l’incipit di un documento pubblicato a dicembre del 2020 dall’Atlantic Council sul futuro della tecnologia, intitolato “The West, China and AI surveillance”.
L’Atlantic Council è un think tank americano che ha come scopo quello di «promuovere una leadership e un impegno costruttivi negli affari internazionali basati sul ruolo centrale della comunità atlantica nell’affrontare le sfide globali», non proprio un organo filo cinese, anzi. La preoccupazione che l’assenza di un ragionamento condiviso in Occidente a proposito di tecnologie e sorveglianza possa produrre modelli “distopici” o molto simili a quelli in vigore in Cina, non è solo americana e non dovrebbe riguardare solo think tank e governi, ma anche noi cittadini.
Nell’ultimo anno, probabilmente anche a causa dei “successi” cinesi in tema di contenimento del Covid grazie al supporto delle app di contact tracing, abbiamo assistito a diversi esempi di quanto il mondo occidentale, in realtà, se da un lato critica la Cina sul piano dei diritti umani (giustamente e anzi dovrebbe risuonare molto di più il biasimo), dall’altro rischia di prendere dal modello cinese gli aspetti più inquietanti.
In questo senso assistiamo a un vero e proprio ribaltamento dell’immaginario: quanto viene descritto come “distopico” o gravemente lesivo dei diritti individuali, rischiamo di trovarcelo di fronte nella nostra quotidianità. La sfida non è solo sui modelli, sulle app o l’hardware, ma è più in generale sugli standard, come lasciato intendere dall’Atlantic Council. D’altronde, come sosteneva Werner von Siemens, l’industriale e e fondatore dell’azienda che porta il suo nome, «chi possiede gli standard, possiede il mercato».
Oggi esistono diversi esempi di come, rispetto al passato, sia ormai l’Occidente a seguire o “imitare” quanto accade a Pechino. La Cina e in particolare l’Asia, sono sempre state il nostro ricettacolo di incubi: esattamente 35 anni veniva pubblicato in Italia Mirrorshades, la raccolta di racconti cyberpunk messa insieme da Bruce Sterling.
Proprio quel genere letterario anticipava molti dei temi che oggi sono già realtà (non a caso il cyberpunk sta vivendo una sua nuova stagione tra videogame e successo anche in Asia, in particolare in Cina): città “intelligenti”, automazione e il mondo preda delle guerre tra multinazionali o clan di stampo medievale ma operanti in un universo futuristico iper controllato e invasivo nei confronti dei dati personali. William Gibson ambienta parte del suo “Neuromante” (il capolavoro della generazione cyberpunk) in Giappone, Neal Stephenson trova in una Cina dominata dalla nanotecnologia e divisa tra gruppi etnici la location ideale per il suo “L’età del Diamante”.
Questa proiezione oggi finisce per ricadere sulle nostre società alla ricerca di tecnologia e affascinate dalle molteplici possibilità: i governanti occidentali, asiatici e sudamericani si ritrovano ad acquistare prodotti cinesi o a ispirarsi a “modelli” cinesi; il rischio è che questi strumenti diventino poi anche dei veri e propri dispositivi di controllo, tanto quanto in Cina.
La cosa che dovrebbe metterci maggiormente in guardia è che si tratta di un processo già in atto: a dicembre 2020 sul sito del Fondo Monetario internazionale è apparso un articolo nel quale veniva affrontato il tema del fintech e dei prestiti. In che modo si possono concepire, oggi, i controlli e le “garanzie”, ad esempio, prima di elargire un prestito? A quanto pare i ricercatori del Fmi hanno la risposta: utilizzando un sistema di rating che assomiglia parecchio a quello dei “crediti sociali” in vigore in Cina.
Sul sito del Fmi si è discusso circa «la possibilità di utilizzare i dati dalla cronologia di navigazione, ricerca e acquisto per creare un meccanismo più accurato nel determinare il rating di credito di un individuo o di un’azienda». Sfruttare la cronologia web per stabilire un “rating” permetterebbe a chi presta soldi di avere informazioni più solide riguardo la possibilità di veder tornare indietro il prestito: analizzando il tipo di browser e hardware utilizzati per accedere a Internet, la cronologia delle ricerche e degli acquisti online come metro di valutazione, non solo ci si avvicinerebbe al concetto cinese di “credito sociale”, ma addirittura lo si supererebbe.
Anche in Cina, infatti, il “credito sociale” (una sorta di misurazione dell’affidabilità di una persona sancito dall’adempimento o meno di obblighi di natura fiscale, amministrativa e penale, poi sfociato in progetti cittadini e black list che finiscono per attribuire un “punteggio” ad ogni cittadino) nasce in prima istanza come tentativo di predire le possibilità di recupero dei prestiti da parte di banche e aziende fintech.
La banca centrale cinese aveva incaricato Alibaba di studiare un sistema di credito, con lo scopo di poterlo poi utilizzare su tutti i canali bancari. Ma Alibaba era andata oltre, inserendo nelle valutazioni anche i comportamenti on line dei propri clienti. Il suo dataset fu considerato troppo intrusivo dalla banca centrale cinese; il Fmi come abbiamo visto, invece, ritiene possa essere uno strumento valido.
Esistono altri esempi della rincorsa occidentale a modelli vincenti cinesi: il più eclatante è quello di Whatsapp che da qualche mese ha tentato di replicare in alcuni paesi il “modello WeChat”, consentendo pagamenti direttamente con lo smartphone. Da tempo Zuckerberg guarda a WeChat come modello di business da adottare nel suo impero, che oltre a Facebook comprende anche Whatsapp e Instagram; il sogno di Zuckerberg è uniformare tutta la messaggistica in unico posto e da lì incanalare i sistemi di pagamento, su cui guadagnare attraverso una percentuale da ogni acquisto, proprio come WeChat, la super app cinese prodotta dalla Tencent. Così facendo Zuckerberg aumenterebbe gli introiti e dipenderebbe meno dalla pubblicità.
Oltre agli aspetti più “futuristici”, nell’inseguimento occidentale della Cina c’è poi un aspetto più specificamente “hardware”: i paesi europei, asiatici e americani comprano per lo più tecnologia di alto livello e potenzialmente utilizzabile per la sorveglianza proprio dalla Cina.
L’idea che Pechino sia ancora la fabbrica del mondo non vive tra gli acquirenti di videocamere a riconoscimento facciale, in grado ormai di scorgere nella Cina una produzione di alto livello tecnologico capace di influenzare anche gli utilizzi di questi strumenti. Nel 2019 la rivista Wired riportava che la Cina sta esportando la sua tecnologia di sorveglianza in 38 paesi, mentre altri 18 utilizzerebbero infrastrutture di reti cinesi.
Numeri che aumentano in continuazione ponendo un rischio molto alto per le nostre democrazie: una volta accettate alcune logiche, come ad esempio l’intrusione nei comportamenti on line per stabilire una affidabilità economica ai propri cittadini, e una volta importata tecnologia con ampie funzionalità di sorveglianza, chi potrà mai impedire ai governi di utilizzare questi strumenti esattamente come vengono utilizzati in Cina, considerando l’involuzione della democrazia nei paesi occidentali?
Un argine dovrebbe essere quello degli standard, come ricordava Siemens, ma anche in questo caso il mondo occidentale appare una lumaca rispetto ai velocisti cinesi: nel novembre 2020 al G20 il presidente cinese Xi Jinping ha chiesto un “meccanismo globale” capace di utilizzare i codici QR (molto utilizzati, da anni, in Cina) per consentire i viaggi internazionali.
«Dobbiamo armonizzare ulteriormente le politiche e gli standard e stabilire corsie preferenziali per facilitare il flusso ordinato di persone», ha detto Xi Jinping, secondo il quale «i codici verranno utilizzati per aiutare a stabilire lo stato di salute di un viaggiatore». Ipotesi rigettata subito da Ong che si occupano di diritti umani, perché i codici «potrebbero essere usati per un più ampio monitoraggio politico e di esclusione».
Ma dalla politica è arrivato solo silenzio (o proposte simili, come il “passaporto vaccinale”), condizione ideale per la Cina che, complice l’arretramento degli Usa, è avanzata in parecchie organizzazioni internazionali. E dopo averci venduto la sua tecnologia, mira a stabilire standard condivisi. Come riportato dal Financial Times in un articolo di ottobre 2020, «a Washington, la battaglia per l’influenza sugli standard tecnologici è vista in alcuni ambienti come cruciale per difendere la democrazia dall’influenza della Cina, che Madeleine Albright, ex segretaria di stato, descrive come la principale pioniera del mondo di ciò che chiamiamo tecno-autoritarismo».
Pechino, infatti, non nasconde la sua intenzione di controllare la prossima generazione di infrastrutture digitali e la sua battaglia non sembra impossibile, almeno ascoltando quanto si dice negli Stati Uniti. Durante un webinar, Mark Warner, vicepresidente democratico del comitato di intelligence del Senato Usa, ha specificato che «negli ultimi 10-15 anni, il nostro ruolo di leadership si è eroso e la nostra influenza per stabilire standard e protocolli che riflettano i nostri valori è diminuita.
Di conseguenza altri, ma soprattutto la Cina, sono entrati in questo vuoto per promuovere standard e valori a vantaggio del partito comunista cinese». Il problema però non sembra più essere solo il Pcc: dovremmo cominciare a capire come i “nostri” governi utilizzeranno la tecnologia acquistata dalla Cina, provando a cogliere anche a Pechino quei segnali – seppure timidi – che l’opinione pubblica comincia a registrare contro l’utilizzo estensivo di queste tecnologie di controllo (lo dimostra la retromarcia del governo sull’utilizzo del riconoscimento facciale anche all’interno di negozi e compound, dopo proteste da parte della società civile).
A quel punto dopo aver copiato l’uso delle tecnologie, chissà non si possano anche copiare, o quanto meno stabilire dei “ponti di opposizione”, tra cittadini occidentali e cinesi contro il sistema che pare dominare le nostre vite, ovvero il capitalismo della sorveglianza.