Il martirio dei cristiani nella guerra civile: il Papa ne beatificherà 233
Roghi di chiese e migliaia di religiosi uccisi per mano dei repubblicani. Domenica avranno l’onore dell’altare quelli della Catalogna e di Valencia
di Vittorio Messori
Sopra la giacca e cravatta, appeso a un cordone verde-bianco, porterò sul petto un grosso medaglione argentato con la Virgen del Pilar di Saragozza. È la “decorazione” di cui vado più fiero: quella di Mayoral de Honor della chiesa del Gran Milagro di Calanda. Sarò, domenica, in mezzo ai contadini e agli artigiani aragonesi che hanno voluto concedermela, giunti ora a Roma con il loro parroco e col loro sindaco. Per tutti noi sarà gran festa, al pranzo che seguirà non mancherà certo l’allegria né i brindisi in onore del festeggiato. Anche se è morto 65 anni fa: ma, per la fede, sarà – non più timido e schivo com’era – in mezzo a noi, più vivo dei vivi.
Succede, infatti, che domenica il Papa regalerà alla Chiesa, in un solo colpo, ben 233 nuovi beati. Fanno parte di quel corteo glorioso di uccisi “in odio a Cristo e alla fede” che ha irrorato con il suo sangue la terra di Spagna, nei 986 giorni, tra 1936 e 1939, in cui divampò la più spietata guerra civile della storia. Già nel 1934 se ne era avuto un sinistro anticipo: in una settimana, nelle Asturie, furono assassinati 12 sacerdoti, 18 religiosi e 7 seminaristi, mentre 58 chiese furono date alle fiamme.
Dal luglio del ’36, poté scatenarsi senza più freni la voglia di sangue di comunisti, sia staliniani che trotzkisti, anarchici e (in posizione dominante, ma molti vorrebbero dimenticarlo) socialisti. Nel diario di Nenni, miliziano sul fronte di Aragona, risuona il lamento per non essere riusciti a sfondare le difese di Saragozza, incendiare la grande basilica del Pilar e “fare pulizia” del clero.
Nei modi più atroci, furono massacrati 4184 tra preti e seminaristi diocesani, 2365 frati, 283 suore, 13 vescovi, per un totale di 6834 vittime. In certe diocesi, come quella aragonese di Barbastro (la città del beato Escrivà de Balaguer), nei soli primi mesi della matanza fu massacrato l’88 per cento del clero. Decine di migliaia, poi, i laici uccisi perché conosciuti come “cattolici notori” o anche solo perché nelle loro tasche fu trovata un’immaginetta religiosa o, peggio, un rosario.
Paolo VI, nel 1964, bloccò i processi di beatificazione iniziati subito dopo la fine di quell’orrore. Ciò che la Chiesa intendeva glorificare era, ovviamente, solo la confessione della fede sino al martirio: cosa davvero straordinaria, nessuno rinnegò il Vangelo pur di fronte alla possibilità di scampare alla morte. E tutti perdonarono i loro carnefici prima di esalare l’ultimo respiro. Niente a che vedere, dunque, con prospettive politiche.
Eppure, papa Montini, timoroso di polemiche e di strumentalizzazioni, vista anche l’eccitazione conciliare, decise di sospendere tutto in attesa di tempi migliori, se mai fossero venuti. Vennero, in effetti, con Giovanni Paolo II. Il quale ruppe finalmente lo sconcertante blocco il 22 marzo del 1986, con il decreto di approvazione del martirio di tre carmelitane a Guadalajara. Da allora, come un fiume in piena, le cerimonie di beatificazione si sono succedute. Domenica, sarà il turno soprattutto dei testimoni della fede della Catalogna e del Valenciano: tra essi, 32 salesiani con in testa il loro ispettore, José Calasanz: praticamente, tutti i figli di don Bosco sui quali i “rossi” riuscirono a mettere le mani.
Ma, nella schiera dei 233, c’è pure un sacerdote di 69 anni che è aragonese, non è né catalano né valenciano, anche se morì con sette domenicani fuggiti da Valencia per cercare un luogo più sicuro dove continuare il loro studio e la loro preghiera. Quell’anziano prete è, a viste umane, l’anonimato fatto persona. Si chiamava Manuél Albert Ginés. Nato a Calanda, a Calanda restò, senza mai muoversi, per ben 45 anni, sino all’arrivo degli assassini, come cappellano della chiesa del Miracolo.
È quel Miracolo – con la maiuscola! – cui ho dedicato un libro recente: la gamba “restituita”, il 29 marzo del 1640, al giovane contadino cui era stata amputata due anni prima. Ecco perché, domenica, sarò a Roma, a festeggiare con los calandinos: la catena secolare dei cappellani nel tempio costruito attorno alla stanza dove avvenne el Gran Milagro (con questo titolo è apparsa la traduzione spagnola del libro), quella catena, dunque, interrotta subito dopo per mancanza di clero, è terminata con un martire, ora finalmente beato. Non poteva finir meglio, in una prospettiva evangelica, la teoria degli umili sacerdoti che dalla metà del Seicento presidiavano quel luogo nella desertica, mistica Bassa Aragona.
Ogni volta (e sono ormai cinque) che sono tornato laggiù, non ho mancato di arrestarmi prima di entrare in paese: in mezzo a un campo, un blocco di pietra sormontato da una stele che finisce con una croce. Una lapide in marmo annuncia: “Morirono per Cristo”. Seguono otto nomi e una data: 29 di luglio del 1936. Don Manuél poteva salvarsi, fuggendo. Ma, sino all’ultimo, non volle abbandonare la chiesa dove, da quasi mezzo secolo, teneva viva la memoria del prodigio operato per intercessione della Virgen del Pilar.
Quando i “rossi” arrivarono, subito ammassarono contro il muro del cimitero 42 calandinos, uomini e donne: li fucilarono perché “cattolici praticanti” o perché possedevano un campo o una casa. Poi, emisero un bando: pena di morte anche per chi nascondesse un prete. Tutti – i domenicani, tra cui un novizio di vent’anni, e don Manuél – uscirono volontariamente dalle case in cui avevano trovato rifugio, per non mettere in pericolo chi li ospitava.
Non fu risparmiato loro neppure una farsa di processo, concluso in mezz’ora con la condanna a morte perché “spacciatori di oppio religioso”. Tra percosse e insulti, furono condotti al luogo dove ora sorge il cippo: dopo la prima scarica, don Manuél era ancora vivo. Mentre il miliziano gli tirava il colpo di grazia nella nuca, trovò la forza di gridare ancora una volta: “Viva Cristo Rey!”.
Un 29 di marzo, fiesta del Milagro, riconoscenti perché avevo fatto conoscere al mondo il “loro” prodigio, gli abitanti di Calanda vollero insignirmi del medaglione che domenica avrò sul petto. Se ne sono fiero è perché è il segno di una meravigliosa storia cristiana: la Spagna cattolica profonda, con le sue drammatiche Madonne, con le sue grandezze e le sue miserie, con le sue crudeltà e con i suoi eroismi sino al martirio.
Fiero e, al contempo, riconoscente alla Provvidenza che, guidandomi sulle tracce di quell’evento del 1640, mi ha permesso anche di ricordare a tanti lettori immemori che soltanto pochi decenni fa in quel Paese abbondò il peccato ma sovrabbondò pure la grazia. Migliaia e migliaia di fratelli e sorelle nella fede seppero “morire per Cristo”, come dice la lapide di Calanda. E dalle loro labbra uscirono parole di fortezza nella fede e di perdono per i persecutori. Ma sì, in compagnia di quei 233 testimoni, domenica sarà davvero una gran bella festa.